Da “L’invasione dei clerico-populisti” di Paolo Flores D’Arcais, sul
quotidiano l’Unità del 10 di luglio dell’anno 2005: (…). La fede cattolica è compatibile con
la democrazia? Dipende. Dipende dal tipo di fede che il cattolico vive, dal
modo in cui fonda la sua fede, dai rapporti che pretende di stabilire tra la
sua fede e la comune ragione umana. C’è la fede di Paolo, la “follia”
della croce, che è “scandalo” per la ragione: è la fede delle prime generazioni
di cristiani, perfettamente sintetizzata nella frase “credo quia absurdum” (…).
C’è la fede di Guglielmo di Ockham, francescano e logico, che col suo “rasoio” distrugge
tutte le pretese di ogni teologia razionale. C’è la fede di Pascal, proposta
allo scettico come vera e propria scommessa. C’è, in tutti questi casi, la
consapevolezza che la fede non è dimostrabile. Neppure per quanto riguarda un
Dio creatore e l’anima immortale. E
quanto al resto, un Dio che si fa uomo, morto sulla croce e risorto, che la
fede è addirittura follia rispetto alla ragione. Absurdum. (…).
La fede cattolica diventa (…) incompatibile con la democrazia non appena
pretenda che un nucleo cospicuo di tale fede sia anche una verità di ragione,
una norma naturale e obiettiva, iscritta nel cuore dell’uomo a somiglianza del
patrimonio cromosomico, e che ogni uso “retto”
della ragione possa scoprirla e debba dunque obbedirla. Ogni
qual volta avanzi tale pretesa, la fede cattolica diventa incompatibile con la
democrazia. Incompatibile per natura e in potenza (…). Che poi si scontri
davvero con la democrazia, o si rassegni a un modus vivendi, dipenderà da
circostanze storiche, rapporti di forza, addirittura personalità e psiche
(inconscio compreso) dei singoli papi. (…). Assoggettare il potere
politico alla “Verità” è stata (…) la dottrina della Chiesa. Qualsiasi potere
politico. E quello democratico più che mai, perché il più refrattario a
piegarsi. La Chiesa,
insomma, e checché se ne dica, non ha mai riconosciuto la democrazia liberale
in quanto tale. Perché una democrazia sia “vera e sana” lo
Stato deve essere “unità organica e organizzatrice di vero popolo” e il governo
vedere “nella sua carica la missione di attuare l’ordine voluto da Dio (…). Se
l’avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale del suo compimento
dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa”. Sono
parole – davvero inequivocabili – pronunciate da Pio XII nel radiomessaggio “Il
sesto Natale di guerra”. Inutile girarci intorno: la democrazia, per essere “vera
e sana” deve “attuare l’ordine voluto da Dio”. Insomma, si scrive democrazia, ma
si pronunzia teocrazia. Nulla di più pretendeva il Sillabo di Pio IX, quando
nella “proposizione LVII” gettava l’anatema contro ogni legge che non si
conformasse “alla divina ed ecclesiastica autorità”. (…).
La democrazia è un’altra cosa. Agli antipodi.
La democrazia è la prima forma di
convivenza umana che non si fonda sull’eteronomia ma sull’autonomia. Che non
trae la sua legittimità da un aldilà, ma da se stessa, cioè dagli uomini che si
danno (autos nomos) le leggi cui obbedire. Non più la sovranità di Dio e dei
suoi vicari su questa terra (non a caso “unti del Signore”), ma la sovranità
dei cittadini. Per questo la democrazia è la forma politica più fragile, perché
priva di fondamento. Perché costretta a sostenersi da sé nel vuoto del
disincanto, esattamente come il barone di Munchausen che si teneva in aria per
il bavero (o il suo codino?). La democrazia è infatti sempre esposta al
rischio che una maggioranza preferisca – alla fatica della libertà e al dolore
di essere individui – inedite sirene di servitù volontaria. (…).
I vescovi chiedano pure ai fedeli di non usare il preservativo e la pillola, di
non divorziare, di non abortire per nessuna ragione, di non porre fine con
l’eutanasia a una vita ridotta a tortura. Ogni volta che pretendono di imporre
queste norme per legge, a chi credente non è, aggrediscono e calpestano la
democrazia. Trasformare il peccato in reato è peccato (e reato) contro la
democrazia. Come se il testimone di Geova imponesse una legge che vieta le
trasfusioni, e il fedele islamico il Corano come costituzione. Pretese
ugualmente teocratiche. Contro le quali non solo “laicismo è bello” ma è più che mai indispensabile. Altrimenti la
democrazia è già in coma.
Da “Sette ragioni per non discriminare nessuno” di Umberto Galimberti,
sul settimanale “D” del 6 di febbraio 2016: Sui diritti delle coppie non
sposate, etero e gay, troppo spesso false ragioni di principio e ipocrisie
mascherate da senso dell'opportunità impediscono di decidere serenamente. Se
dalle vicende umane si lasciasse fuori Dio - alla cui esistenza non tutta
l'umanità crede, e coloro che credono si rivolgono a un Dio che dà ordini
diversi a seconda delle religioni o, pur credendo, si comportano diversamente
da come prescrivono i voleri di Dio - se lasciassimo fuori Dio, dicevo,
riusciremmo con più semplicità a risolvere i nostri problemi, ivi comprese le
unioni civili (…). (…). …mi limito a esporre alcuni criteri che, se
considerati, potrebbero evitare tante ipocrisie ben nascoste da problemi di
coscienza. 1. Le coppie di fatto sono appunto un "fatto" che già
esiste, non solo tra omosessuali su cui si concentra l'attenzione, ma anche tra
eterosessuali. Si tratta quindi di formalizzare la loro posizione, come è
formalizzata la posizione di quanti contraggono matrimonio, diritti e doveri
compresi, per il semplice fatto che tutti i cittadini sono uguali davanti alla
legge a prescindere dai loro orientamenti affettivi, sentimentali e sessuali. 2.
Non farlo significa legittimare solo quelle coppie che hanno la possibilità di
procreare. E sostenere che chi questa possibilità non ce l'ha non ha diritto a
essere legittimato. Criterio, questo, che più materialistico di così non può
essere, anche se a difenderlo sono gli uomini di Chiesa che parlano sempre di
Spirito. 3. Ma anche coloro che non possono procreare come natura vuole,
possono procreare con l'aiuto della tecnica. E qui vien da dire: come può la
morale o la politica impedire alla tecnica di non fare ciò che può? Come tutta
la storia ci insegna, se una cosa è resa possibile, prima o poi ce ne si serve.
4. Anche l'utero in affitto? Se non è per danaro, come quando si sfrutta la
condizione di povertà delle donne che si vedono costrette a mettere sul mercato
il loro corpo (come peraltro avviene già con la prostituzione, senza troppe
obiezioni se non per il disturbo che può arrecare quiete pubblica), perché
impedirlo? Allora dovremmo impedire anche la donazione di un rene o del proprio
midollo spinale. E se questo è consentito per salvare delle vite, che cosa
impedisce di consentirlo anche per generarle? 5. Ancora, perché rendere così
difficile l'adozione del bambino/a del proprio compagno o della propria
compagna anche se dello stesso sesso (e potremmo aggiungere e addirittura
auspicare la possibilità di adozione a tutti i bambini denutriti, schiavizzati
o semplicemente infelici del mondo), quando tutti sappiamo che la salute fisica
e mentale dei bambini dipende dalla cura e dell'amore di chi li cresce e non
dal fatto di avere una mamma e un papà che magari litigano, si separano,
divorziano, utilizzano i figli stessi come arma di ricatto, compromettendo per
davvero il loro equilibrio e la loro fiducia nell'amore? 6. Nelle votazioni si
lascerà libertà di coscienza. Ma che cos'è la coscienza di ciascuno di noi se
non il frutto della nostra educazione, della nostra fede, delle nostre
ideologie, delle nostre convinzioni? Assumere questo criterio del tutto
soggettivo vi pare sufficiente per decidere la condizione civile oggettiva di
quanti oggi sono discriminati nell'esercizio dei loro diritti? A me proprio non
pare, anche perché troppo spesso la coscienza viene evocata per mascherare
quelle che in realtà sono lotte politiche, che nulla hanno a che fare con la
questione dell'estensione dei diritti a chi non li ha. 7. Da ultimo, non si
dimentichi che le persone vengono prima dei principi a cui si appella la nostra
falsa coscienza. E su questo punto sono d'accordo tanto la visone religiosa di
Gesù, laddove dice «Il sabato è fatto per l'uomo e non l' uomo per il sabato»,
quanto la visione illuminista di Kant, che scrive: «La morale è fatta per
l'uomo, non l'uomo per la morale».
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