Ha scritto Furio Colombo in una
Sua corrispondenza su “il Fatto Quotidiano” del 12 di febbraio dell’anno 2015 –
“Sanremo, lo show dei 16 figli” -: Chi conosce e frequenta questo Paese deve avere
paura della parola "famiglia". Significa sempre negazione di diritti
degli altri, che non siano la replica esatta della famiglia esibita.
Significa celebrazione tipo Sharia
della donna che sta al suo posto, e partorisce senza tante storie. Significa
padre padrone che di figli ne fa quanti ne vuole (e deve, in onore di Dio),
presentati come gloria a Dio, benché
Dio, misurando le risorse del pianeta da lui creato, non lo aveva popolato di uomini e donne - coniglio, (per usare le
parole del Papa). Nel caso a cui abbiamo assistito (festival della
canzone di Sanremo 2015 n.d.r.), la quantità di figli era esibita non come
un gruppo di persone, ma come prodotto
di eccellente accoppiamento. Padre e madre di Sanremo sembravano due atleti che
dopo l'ultimo trapezio saltano e rimbalzano in piedi e accettano applausi. Gli
applausi saranno stati per gli accoppiamenti frequenti, e dunque per le risorse
naturali dell'uomo della
provvidenza (il maschio-padre), o per la capacità della femmina di tenergli
dietro nella sua corsa senza limiti? Certo gli applausi non erano per i figli. Nessuno di loro ha parlato o ha
assunto il ruolo di persona autonoma e separata sia dal meccanismo maschile che
da quello femminile da cui è stato generato. Non la voce di un bambino, non la
voce di un adulto, nella sezione figli,
in quel teatro di Sanremo. Solo una esibizione di proprietà: guardate
quanti ne abbiamo fatti noi. Vedete un
po' se ce la fate a starci dietro! Poiché lo spettacolo, molto imbarazzante,
(perché nessuno dei procreati, e neppure la fammina-madre del clan,
avevano niente da dire e il conduttore
sembrava non essere stato preventivamente informato) è avvenuto a Sanremo,
versione festival, un'idea sarebbe stata se, alla maniera del celebre film
"The Sound of Music", la massa di figli, grandi, piccoli e
neonati, si fosse messa a cantare. Ma,
salvo le lodi a Dio del padre-padrone del ranch, dal gruppone detto
"famiglia esemplare" non è volata una mosca. E al povero Conti messo,
ammettiamolo, a dura prova dalla insolita celebrazione, non è venuto in mente
di chiedere al procreatore: ma lei, quando non si dedica a far nascere
bambini, che mestiere fa? Come vive una
famiglia italiana con sedici figli a carico ? Quella domanda mancata ha
lasciato un vuoto in più nello spettacolo che avrebbe dovuto onorare la
famiglia, ma è venuto fuori come un numero da circo: "Signore e signori,
non uno, non due, non cinque...". Il vecchio Togni, se è ancora in giro,
avrà scosso la testa. Lui non ha mai
esposto nel suo circo bambini e adolescenti senza nome e senza voce intesi come elogio affollato e vivente (però
zitto) del produttore. Qualche
risposta posso ben darla.
Conosco quel “padre-padrone” che di mestiere fa
il collaboratore scolastico in un istituto nella città di ****. Catecumenale di
confessione, accetta quelle continue gravidanze della consorte come dono
speciale riservatogli dal buon dio. È che, portato a termine l’atto doveroso della
copula, il tutto ricade poi sulla “fammina-madre del clan”, ovvero sulla “donna-coniglio” di
turno. E così sia. Ascolto con ostentata, finta disattenzione le mature, seppur
ancora piacenti signore, parlare della “famiglia”. Non certamente delle
loro famiglie, ché se ne guarderebbero bene dal farlo. Parlare delle “famiglie”
in generale, ovvero quelle degli altri, ma non tutte, quelle diverse, quelle che
non abbiano maturato a loro dire il diritto alcuno ad esistere in questo mondo.
Non una delle mature signore, debitamente abbigliate, che nella sonnacchiosa ponderosa
fase postprandiale avesse avuto la caritatevole uscita d’affermare: ma quale
diritto abbiamo noi a non volere che su questa terra esistano famiglie diverse dalle
nostre, seppur esse rette sull’amore? Non una. Nell’assoluta ipocrisia dei
credenti in un qualcosa qualcuna blaterava “non per essere bigotta, ma non li capisco
proprio”; ed un’altra, in preda ad un evidente lapsus freudiano, a
specificare che di famiglie accettabili ed autorizzate a sopravvivere in questo
pianeta fossero solamente quelle con “un padre ed una madre”, per non
dire, in preda a quel lapsus, “un maschio ed una femmina” con
evidente allusione al doveroso compimento di quella cosa lì. Laddove sfuggiva,
a quelle ancora piacenti signore, come quel loro ragionare in forza di una fede
ne fosse la negazione stessa. Ovvero la negazione dell’amore, dei sentimenti,
delle emozioni, di quella “corrispondenza d’amorosi sensi” evidentemente
mai provata nel loro privato, negazione che conduce, in forza del loro credere,
direttamente ad una materializzazione di tutti i rapporti umani che possano
avere diritto alla sopravvivenza solamente in una sfera utilitaristica di
procreazione e mantenimento della specie e di mutuo soccorso per tenere alto
quel vessillo inverecondo del “tengo famiglia” che rappresenta il
migliore viatico per vivere in pace nel bel paese. Scriveva Furio Colombo su “il
Fatto Quotidiano” del 24 di giugno dell’anno 2015 – “La famiglia è in pericolo ma la colpa è dei gay” -: La
famiglia è un nucleo umano formatosi intorno all’amore fra due persone, che
eventualmente ne generano o ne adottano altre e vivono a lungo felici e
contente. Che cosa minaccia questo tipo di aggregazione affettuosa e legittima?
Qualunque storia della famiglia mostra che le minacce sono la povertà, la
malattia, la mancanza di abitazione, la mancanza di lavoro, l’alimentazione
inadeguata,l’assenza o violazione facile dei diritti, la violenza fisica, la
paura. Per questo, nei secoli, le famiglie hanno creato le tribù, le tribù
hanno creato villaggi, i villaggi sono diventati città, se necessario hanno
costruito difese, e quando le difese non sono state più necessarie, hanno
ripreso a vivere felici e contenti, o almeno a provarci, i più anziani
confortati dai più giovani, i più piccoli protetti e guidati dagli adulti. Per
che cosa? Qui comincia la politica. Per essere, tutti insieme, più forti degli
altri e sottometterli. Oppure per essere migliori degli altri, e cercare pace e
accordi. E anche: se altri esseri umani affranti e affamati si presentano per
necessità e disperazione, in un villaggio che non è il loro,per salvarli e
accoglierli. Ora è successa questa strana serie di eventi il 20 giugno a Roma.
Un milione di persone, presumibilmente divise in uomini, donne e bambini e
aggregate secondo i certificati comunali e parrocchiali, si sono presentate per
dire che “la famiglia è in pericolo”e che occorre “più famiglia”. Facile capire
la seconda parte della rivendicazione. Chiunque si trovi bene (ciclismo,
alpinismo, slow food, maratone, gio-chi di gruppo, cineforum) vuole di più di
ciò che lo far star bene. Quando parli di minaccia, invece, o sei preciso
nell’indicare il pericolo, o spargi panico ingiustamente. Qui, in questa folla
che si presenta per dire “noi siamo felici”, l’allarme è procurato dalla parola
“gender”impropriamente presa dall’inglese (dove indica uguali diritti o nuovi
diritti dei due “generi”, maschile e femminile e di coloro che sono in transizione)
per condannare con convinzione e passione chiunque si metta insieme “non come
faccio io”. Io mi aspettavo di sentire dire, da queste centinaia di migliaia di
mamme,che le minacce erano la guerra, la violenza, la perdita di posti di
lavoro, il lavoro che i ragazzi non trovano, la mancanza di asili che
impediscono alle donne di lavorare, le cattive scuole, gli edifici scolastici
che crollano sulla testa dei bambini. Invece no. La minaccia, il pericolo, il
rischio per tutti quei bambini esibiti come prova di un unico tipo obbligatorio
di felicità, sono persone che non sono mai andate a disturbare quelli
del“Family Day”. Semplicemente vivono e vogliono vivere, con uguali diritti, in
un altro modo. Viene in mente una ragione fra tante per questo cristianesimo
pietrificato. Non ci sono solo cattivi insegnanti e politici incapaci. Ci sono
anche cattivi preti, predicatori appassiti, che rinfocolano intolleranze,
scavando nelle superstizioni dei secoli. Secondo questi predicatori non tocca a
loro essere migliori, tocca agli altri non essere diversi. È ben
rappresentato in questo scritto dell’illustre opinionista l’assurdità insita
nella pretesa di imporre a tutta una società, in tutte le sue pieghe, una visione
unica, totalizzante dell’esistenza. Come se le cronache non stessero lì a ben
rappresentarci lo sfacelo dei gruppi familiari in crisi non tanto per una
questione di genere ma per gli assilli economici e sociali ai quali ha fatto
cenno Furio Colombo. E del resto la casistica delle violenze intramurali
portano ad un abnorme numero proprio nell’ambito delle famiglie cosiddette
benedette da quel dio della prolificità. Ha scritto bene il professor Umberto
Galimberti in “Che cos'è la famiglia
oggi?” sul settimanale “D” del 23 di giugno dell’anno 2012: (…).
Quel
che traspare (…) dalle numerose lettere che ho ricevuto sull'argomento, è il
desiderio che la Chiesa, nei suoi pronunciamenti, prenda le mosse dal messaggio
evangelico, che è messaggio d'amore, e non dalla difesa di principi che,
proprio perché principi, mal si adattano alle condizioni reali in cui vengono a
trovarsi i fedeli nei cambiamenti epocali che nella storia si succedono e nelle
traversie delle loro vicende biografiche. (…). A differenza del passato,
infatti, oggi l'unione tra due persone avviene sostanzialmente in nome
dell'amore, su cui il Diritto, lo Stato e la Chiesa non esercitano più
l'influenza di un tempo, per cui, in piena autonomia due persone, a prescindere
dal loro genere sessuale, si scelgono e decidono di convivere, così come in
piena autonomia si congedano quando questo amore si estingue. S'è venuto così a
creare uno scollamento radicale tra "intimità", "sincerità",
"autenticità", "realizzazione di sé", che sono le
prerogative dell'amore, e la "responsabilità sociale" che il
matrimonio comporta, sancita, un tempo più di oggi, dal sacramento del
matrimonio o da un'esplicita dichiarazione davanti a un'ufficiale dello Stato
con tanto di testimoni a garanzia dell'ordine sociale. Qui, sia lo Stato, sia
la Chiesa si trovano in grande difficoltà, perché, come si fa a negare a due
persone che si amano il diritto di vivere il loro amore a prescindere dalle
norme giuridiche o religiose che fino a qualche tempo fa regolavano
indiscutibilmente le unioni? E d'altro lato come si fa ad affidare le unioni,
che comportano diritti e doveri, per non parlare dei figli, all'instabilità e
alla mutevolezza che è tipica del sentimento? E allora prima di trovare rapide
e improvvide soluzioni a questo dilemma o di prendere posizione contro i pronunciamenti
della Chiesa o le limitazioni che lo Stato pone a chi non è
"ufficialmente" sposato, sarà bene esaminare le ragioni che sono alla
base di questo problema, perché senza questo esame le soluzioni finiscono con
l'essere astratte e, proprio perché astratte, disattese. Oggi la realtà sociale
è caratterizzata da una razionalità, mai vista così rigida nei tempi passati,
in cui uno è sempre meno se stesso e sempre più funzionario di apparati, dove
la sua identità è espressa più dal ruolo che occupa nella società, più dal suo
biglietto da visita dove è scritta la sua funzione, che da se stesso. In un
contesto del genere, l'amore, svincolato da codici, diventa l'unico luogo in
cui uno sente di poter esprimere se stesso, e di averne diritto, perché altri
luoghi non se ne danno. E come si fa a invitare chi vive in una società che,
per le sue esigenze di razionalità, privilegia il "ruolo" alla
"persona", a resistere al fascino dell'irrazionalità dell'amore,
individuato come unico spazio dove poter essere fino in fondo se stessi? Anche
se poi, quando l'amore senza vincoli socialmente codificati, è visto come
l'unico spazio per la propria "autorealizzazione", che rilevanza ha
l'altro con cui si decide di vivere, e i figli che da questa convivenza
dovessero nascere? Quando l'amore, che conosciamo instabile e mutevole, diventa
l'unico luogo concesso per l'autorealizzazione, allora la vera risposta non sta
nell'enunciazione di principi o dispositivi legislativi per contenere
l'instabilità e la mutevolezza dell'amore, ma nel creare nella società altri
spazi di autorealizzazione, in modo che l'amore non diventi l'unico rifugio,
dove la realizzazione di sé confina paurosamente con la perdita di sé.
Nessun commento:
Posta un commento