"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 27 febbraio 2016

Sfogliature. 55 “Vedi alla voce bontà”.



Mercoledì 26 di gennaio dell’anno 2005 postavo “Vedi alla voce bontà”, titolo ripreso nella “sfogliatura” di oggi. Lungi dal poter prevedere allora l’onda lunga ed impetuosa dei migranti che da ogni dove si arena sulle nostre spiagge richiedendo il necessario, umanitario aiuto. A quel tempo i governi avevano provveduto a rendere l’indigenza, se non la povertà, un dato sociale inestirpabile, come destino immodificabile, donde ne vennero fuori le “carte sociali” per una elemosina garantita dallo Stato. Svaniva nel nulla l’impegno a determinare condizioni di vita tali da poter affermare che si stesse realizzando quanto previsto dalla “Costituzione”. Ma è storia e cronaca al contempo. Allora  scrivevo che… È pur vero che l’America rappresenti il “mondo nuovo”, anzi che anticipi e di molto quale “mondo nuovo” si avrà anche da questa parte dell’Atlantico. Ma il fenomeno evidenziato nella bella e graffiante corrispondenza di Vittorio Zucconi dal titolo “Quattro soldi di bontà”, apparsa su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”, giunge forse un tantino in ritardo, ché anche da questa parte del mondo, ovvero nel vecchio continente, la catena della bontà si è da tempo ben radicata e dispiega tutta la sua potenza mediatica. È capitato anche a noi, come famiglia intendo dire, essere finiti su di un mostruoso, gigantesco “prontuario della bontà” e da quel momento, per una incauta anche se voluta ed entusiastica prima donazione, non essere stati più liberi di decidere a chi destinare le scarse risorse per i nostri gesti di solidarietà. Fu per un istituto oncologico dell’Ospedale San *** della città di *** all’inizio, ma poi tutto il cronicario di questo mondo ha potuto accedere, telefonicamente almeno, alle nostre scarse disponibilità, con l’evidente imbarazzo da parte nostra, di volta in volta, di negarsi, di giustificarsi, insomma di vergognarsi nel non poter soddisfare tutte le richieste, oggi infinite, di aiuto. È forse perché le teorie socio-politiche, al pari delle masse d’aria, trasmigrano molto più velocemente da una sponda all’altra dell’Atlantico, per cui la novella parola dei “neocon”, con il loro implacabile impegno nel distruggere qualsiasi traccia di stato sociale, ha trovato adepti entusiasti anche da questa parte dell’Atlantico. È forse per questi motivi che per rispondere ai bisogni di chi poco o nulla dispone si è dovuta attrezzare una catena della bontà che fa leva non sul diritto di cittadinanza ad avere garantito da tutta la collettività la salute, ovvero l’istruzione, ovvero il lavoro o quant’altro, ma sulla caritatevole adesione degli altri un tantino più fortunati che, seppur apprezzabili e lodevoli nelle loro gare di solidarietà, sgravano così, con i loro gesti di solidarietà, gli stati ed i governi e le maggioranze del momento dal farsi carico di problematiche sempre più complesse ed alle quali sarà sempre più difficile dare, singolarmente, attraverso quella catena della bontà, adeguate risposte in termini economici, di solidarietà, eguaglianza e fraternità. Stati sociali quindi sempre più poveri e politiche economico-sociali dei governi “neocon”, o meglio “teocon” in alcune realtà, sempre più svincolate dall’impegno etico del riequilibrio e della redistribuzione della risorse e delle ricchezze, collettivamente create con il lavoro, con il bel risultato che intere fasce sociali si vedono oggi e si vedranno domani risucchiate nel mare della povertà vera o soltanto inizialmente percepita, così come oggi suol dirsi con un bel parlare. Il tutto in uno straordinario, per il momento, scenario di pace sociale, o di sonno mediatico. Zucconi annota:
Ora che lo Stato Sociale, quello che avrebbe dovuto curarsi di noi "du cul au tombeau", come disse al Parlamento europeo un mitico deputato italiano che credeva di parlare francese e confuse il deretano con la culla, è passato di moda, si erge davanti alle catastrofi la beneficenza privata e volontaria. Telethon a raffica, iniziative di giornali e network televisivi, appelli di celebrità, soccorrevoli telefonini, enti nuovi e antichi bussano alle porte del buon cuore per strappare quello che gli Stati non vogliono o non possono più dare, soldi. Anche io ho aperto la porta del borsellino per la mia beneficenza preferita, Medici senza Frontiere. Avendo molti parenti e amici medici o aspiranti medici, non perdo mai l'occasione per fare la carità ai dottori. Il peso del mondo, che un tempo apparteneva ai governi e alle loro politiche di aiuti internazionali, ci viene buttato addosso. Ma questa forma di tassazione volontaria, che accettiamo entusiasticamente perché ci fa sentire generosi a differenza delle tasse che ci fanno sentire fessi, ha i suoi inconvenienti, che ancora in Europa non sono esplosi. Sono l'overdose da carità, l'assedio da benefattori, la quotidiana caccia alla "donation", all'offerta, che hanno come conseguenze o il dissanguamento del donatore o, in caso di rifiuto, il peso orribile del senso di colpa. Almeno qui, nell'America organizzata ed efficente dove lo stato sociale dal sedere alla tomba non è mai esistito, donare fondi o beni materiali a una "charity", a un ente di beneficenza, anche una sola volta, significa entrare per sempre nelle liste di potenziali donatori che saranno poi avidamente comprate, vendute, scambiate nella famelica industria del "fund raising", della raccolta fondi. 800 miliardi di dollari l'anno entrano nel bussolotto delle offerte private, il doppio delle spese militari. Avere donato abiti nei quali non riuscivo più a entrare ai senzacasa di Washington ha scolpito il mio nome nella memoria di un computer e l'ente privato che si occupa di vestire gli ignudi (specialmente se può vestirli con un completo di taglio e tessuto italiani) costantemente telefona sperando che io continui a ingrassare. Neppure mia moglie si interessa tanto al mio giro di vita. L'offerta fatta all'associazione degli orfani dei poliziotti mi vale calendari, etichette autoadesive con l'indirizzo di ritorno prestampato e quintali di senso di colpa, ogni volta che ne appiccico uno a una busta, senza mandare l'obolo. L'Unicef mi tenta implacabilmente con adesivi di tenere colombine e volti di bambini affamati. Partecipi a un'asta di beneficenza una volta e non te ne liberi più. Comperate un orrendo abat-jour, salvate un bambino in Rwanda. Il nome di mia moglie e il mio compaiono ormai in ogni lista di ogni immaginabile charity. Telefonano i Reduci di guerra, gli Orfani dei Reduci di guerra, le Vedove dei poliziotti caduti, gli Orfani dei poliziotti caduti, le Donne Vittime di Abusi Domestici, l'Associazione per la lotta contro i Tumori, l'Associazione per la Difesa del Cuore, dei Polmoni, del Seno, dei Reni, del Sangue, degli Occhi, delle Ossa, della Prostata e di organi che neppure sapevo di possedere, ma che sono minacciati da crudeli malattie che soltanto la mia generosa offerta può sconfiggere. E quando si crede di avere finito con gli umani, arriva l'Arca degli animali da proteggere, balene e cani randagi, civettine maculate e lupi, orsi bianchi e aquile, il creato intero. La benefacente ingordigia delle "charities" non ha pudori, perché chi fa il bene non si pente. A chi dare soldi, dunque? A chi negarli? A tutti? A nessuno? Perché salvare un bambino cingalese e lasciar morire di denutrizione un neonato sudanese, perché finanziare la ricerca sui tumori al seno e ignorare quella per la distrofia muscolare, perché commuoversi davanti alle vittime dello tsunami in Asia e chiudere il cuore davanti alle vittime degli uragani nei Caraibi?  Si fa quel che si può, ci consoliamo. Ma in base a quali criteri di scelta? Ogni sera, quando inesorabilmente il telefono squilla all'ora di cena, il momento nel quale i cercatori di donazioni sanno di trovare la gente a casa, ci costringono a giocare a Dio, stabiliamo chi debba morire di malaria e chi debba guarire, grazie al nostro aiuto. "Lo sa che con soli 25 centesimi al giorno può salvare la vita a una bambina in Guatemala?", spiega la voce della coscienza al telefono. No? Sì? Pollice verso? Pollice eretto? Qualche volta sbotti, perdi la pazienza, abbiamo già dato e butti giù il telefono. Ecchè cavolo, ogni sera un'offerta, ma non è possibile, sono a cena. Passa l'insalata, cara, che abbiamo appena ammazzato una bambina in Guatemala.   

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