Mercoledì 26 di gennaio dell’anno
2005 postavo “Vedi alla voce bontà”, titolo
ripreso nella “sfogliatura” di oggi. Lungi dal poter prevedere allora l’onda
lunga ed impetuosa dei migranti che da ogni dove si arena sulle nostre spiagge
richiedendo il necessario, umanitario aiuto. A quel tempo i governi avevano
provveduto a rendere l’indigenza, se non la povertà, un dato sociale
inestirpabile, come destino immodificabile, donde ne vennero fuori le “carte
sociali” per una elemosina garantita dallo Stato. Svaniva nel nulla l’impegno
a determinare condizioni di vita tali da poter affermare che si stesse
realizzando quanto previsto dalla “Costituzione”. Ma è storia e cronaca al
contempo. Allora scrivevo che… È pur vero che l’America rappresenti il “mondo nuovo”, anzi che anticipi e di
molto quale “mondo nuovo” si avrà anche
da questa parte dell’Atlantico. Ma il fenomeno evidenziato nella bella e
graffiante corrispondenza di Vittorio Zucconi dal titolo “Quattro soldi di bontà”, apparsa su di un supplemento del
quotidiano “la Repubblica”, giunge forse un tantino in ritardo, ché anche da
questa parte del mondo, ovvero nel vecchio continente, la catena della bontà si
è da tempo ben radicata e dispiega tutta la sua potenza mediatica. È capitato anche
a noi, come famiglia intendo dire, essere finiti su di un mostruoso, gigantesco
“prontuario della bontà” e da quel momento, per una incauta anche se voluta ed
entusiastica prima donazione, non essere stati più liberi di decidere a chi destinare
le scarse risorse per i nostri gesti di solidarietà. Fu per un istituto
oncologico dell’Ospedale San *** della città di *** all’inizio, ma poi tutto il
cronicario di questo mondo ha potuto accedere, telefonicamente almeno, alle
nostre scarse disponibilità, con l’evidente imbarazzo da parte nostra, di volta
in volta, di negarsi, di giustificarsi, insomma di vergognarsi nel non poter
soddisfare tutte le richieste, oggi infinite, di aiuto. È forse perché le
teorie socio-politiche, al pari delle masse d’aria, trasmigrano molto più
velocemente da una sponda all’altra dell’Atlantico, per cui la novella parola
dei “neocon”, con il loro implacabile impegno nel distruggere qualsiasi traccia
di stato sociale, ha trovato adepti entusiasti anche da questa parte
dell’Atlantico. È forse per questi motivi che per rispondere ai bisogni di chi
poco o nulla dispone si è dovuta attrezzare una catena della bontà che fa leva
non sul diritto di cittadinanza ad avere garantito da tutta la collettività la
salute, ovvero l’istruzione, ovvero il lavoro o quant’altro, ma sulla
caritatevole adesione degli altri un tantino più fortunati che, seppur
apprezzabili e lodevoli nelle loro gare di solidarietà, sgravano così, con i
loro gesti di solidarietà, gli stati ed i governi e le maggioranze del momento dal
farsi carico di problematiche sempre più complesse ed alle quali sarà sempre
più difficile dare, singolarmente, attraverso quella catena della bontà, adeguate
risposte in termini economici, di solidarietà, eguaglianza e fraternità. Stati
sociali quindi sempre più poveri e politiche economico-sociali dei governi “neocon”,
o meglio “teocon” in alcune realtà, sempre più svincolate dall’impegno etico
del riequilibrio e della redistribuzione della risorse e delle ricchezze, collettivamente
create con il lavoro, con il bel risultato che intere fasce sociali si vedono oggi
e si vedranno domani risucchiate nel mare della povertà vera o soltanto
inizialmente percepita, così come oggi suol dirsi con un bel parlare. Il tutto
in uno straordinario, per il momento, scenario di pace sociale, o di sonno
mediatico. Zucconi annota:
Ora che lo Stato Sociale, quello che avrebbe
dovuto curarsi di noi "du cul au tombeau", come disse al Parlamento
europeo un mitico deputato italiano che credeva di parlare francese e confuse
il deretano con la culla, è passato di moda, si erge davanti alle catastrofi la
beneficenza privata e volontaria. Telethon a raffica, iniziative di giornali e
network televisivi, appelli di celebrità, soccorrevoli telefonini, enti nuovi e
antichi bussano alle porte del buon cuore per strappare quello che gli Stati
non vogliono o non possono più dare, soldi. Anche io ho aperto la porta del
borsellino per la mia beneficenza preferita, Medici senza Frontiere. Avendo
molti parenti e amici medici o aspiranti medici, non perdo mai l'occasione per
fare la carità ai dottori. Il peso del mondo, che un tempo apparteneva
ai governi e alle loro politiche di aiuti internazionali, ci viene buttato
addosso. Ma questa forma di tassazione volontaria, che accettiamo
entusiasticamente perché ci fa sentire generosi a differenza delle tasse che ci
fanno sentire fessi, ha i suoi inconvenienti, che ancora in Europa non sono
esplosi. Sono l'overdose da carità, l'assedio da benefattori, la quotidiana
caccia alla "donation", all'offerta, che hanno come conseguenze o il
dissanguamento del donatore o, in caso di rifiuto, il peso orribile del senso
di colpa. Almeno qui, nell'America organizzata ed efficente dove lo stato
sociale dal sedere alla tomba non è mai esistito, donare fondi o beni materiali
a una "charity", a un ente di beneficenza, anche una sola volta,
significa entrare per sempre nelle liste di potenziali donatori che saranno poi
avidamente comprate, vendute, scambiate nella famelica industria del "fund
raising", della raccolta fondi. 800 miliardi di dollari l'anno entrano nel
bussolotto delle offerte private, il doppio delle spese militari. Avere
donato abiti nei quali non riuscivo più a entrare ai senzacasa di Washington ha
scolpito il mio nome nella memoria di un computer e l'ente privato che si
occupa di vestire gli ignudi (specialmente se può vestirli con un completo di
taglio e tessuto italiani) costantemente telefona sperando che io continui a
ingrassare. Neppure mia moglie si interessa tanto al mio giro di vita.
L'offerta fatta all'associazione degli orfani dei poliziotti mi vale calendari,
etichette autoadesive con l'indirizzo di ritorno prestampato e quintali di
senso di colpa, ogni volta che ne appiccico uno a una busta, senza mandare
l'obolo. L'Unicef mi tenta implacabilmente con adesivi di tenere colombine e
volti di bambini affamati. Partecipi a un'asta di beneficenza una volta e non
te ne liberi più. Comperate un orrendo abat-jour, salvate un bambino in Rwanda.
Il
nome di mia moglie e il mio compaiono ormai in ogni lista di ogni immaginabile
charity. Telefonano i Reduci di guerra, gli Orfani dei Reduci di guerra, le
Vedove dei poliziotti caduti, gli Orfani dei poliziotti caduti, le Donne
Vittime di Abusi Domestici, l'Associazione per la lotta contro i Tumori,
l'Associazione per la Difesa
del Cuore, dei Polmoni, del Seno, dei Reni, del Sangue, degli Occhi, delle
Ossa, della Prostata e di organi che neppure sapevo di possedere, ma che sono
minacciati da crudeli malattie che soltanto la mia generosa offerta può
sconfiggere. E quando si crede di avere finito con gli umani, arriva l'Arca
degli animali da proteggere, balene e cani randagi, civettine maculate e lupi,
orsi bianchi e aquile, il creato intero. La benefacente ingordigia delle
"charities" non ha pudori, perché chi fa il bene non si pente. A chi
dare soldi, dunque? A chi negarli? A tutti? A nessuno? Perché salvare un
bambino cingalese e lasciar morire di denutrizione un neonato sudanese, perché
finanziare la ricerca sui tumori al seno e ignorare quella per la distrofia
muscolare, perché commuoversi davanti alle vittime dello tsunami in Asia e
chiudere il cuore davanti alle vittime degli uragani nei Caraibi? Si fa quel che si può, ci consoliamo. Ma in
base a quali criteri di scelta? Ogni sera, quando inesorabilmente il
telefono squilla all'ora di cena, il momento nel quale i cercatori di donazioni
sanno di trovare la gente a casa, ci costringono a giocare a Dio, stabiliamo
chi debba morire di malaria e chi debba guarire, grazie al nostro aiuto. "Lo
sa che con soli 25 centesimi al giorno può salvare la vita a una bambina in
Guatemala?", spiega la voce della coscienza al telefono. No? Sì? Pollice
verso? Pollice eretto? Qualche volta sbotti, perdi la pazienza, abbiamo già
dato e butti giù il telefono. Ecchè cavolo, ogni sera un'offerta, ma non è
possibile, sono a cena. Passa l'insalata, cara, che abbiamo appena ammazzato
una bambina in Guatemala.
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