Da “Il catalogo degli sconfitti” di Umberto Eco, sul quotidiano la
Repubblica del 2 di luglio dell’anno 2011: (…). Non è la prima volta che un risultato
elettorale favorevole alle sinistre viene attribuito alla mobilitazione
spontanea della società civile. Il caso più macroscopico è stata la prima
vittoria di Prodi (e dell’Ulivo) nel 1996. Ebbene, che cosa ha fatto seguito a
questa vittoria? Non molti mesi dopo (nel marzo 1997) convenivano nel castello
di Gargonza quasi tutti gli esponenti del mondo politico che si era
riconosciuto nell’Ulivo, e molti rappresentanti appunto della società civile
che in qualche modo avevano contribuito a quella vittoria, per confrontarsi e
discutere lo stato delle cose ed eventuali prospettive per il futuro. E in
quella occasione Massimo D’Alema aveva rivolto un monito severo alla società
civile, che è efficacemente riassunto nel brano che riporto: “Noi non siamo la
società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti. È una verità
indiscutibile. Perlomeno se c’è qualcosa che somiglia di più ai partiti nella
dialettica italiana siamo noi, non sono gli altri. Non possiamo raccontarci
queste storie tardo-sessantottesche. Se c’è qualcosa che somiglia ai partiti in
ciò che di nobile sono stati nella crisi attuale, siamo noi, non sono gli
altri. Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai
cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle
professioni intellettuali. E fino a questo momento non si conoscono società
democratiche che hanno potuto fare diversamente. L’idea che si possa eliminare
la politica come ramo specialistico per restituirla tout-court ai cittadini è
un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi e il
“comitato” è un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie. La politica
professionale è esattamente quella struttura che consente ai cittadini di
accedere alla politica, perché se manca quella struttura non vi accedono. Si
parte con l’idea che devono governare le cuoche e nel frattempo si governa con
la polizia politica … e noi abbiamo una certa esperienza nel nostro campo. Poi
magari questa transizione dura settant’anni perché nel frattempo ci si
dimentica il programma originario. Quindi non inseguiamo qualcosa che, secondo
me, non siamo in grado di inseguire e non è neanche un grande obiettivo di
modernità”.
Qualcuno aveva obiettato allora che, se a vittoria elettorale
avvenuta si disconosceva l’apporto della società civile che si era mobilitata
con tanto entusiasmo, non si poteva sperare che ai prossimi appuntamenti
elettorali quella la stessa società si sarebbe ancora mossa. Il che grosso modo
è avvenuto, e il fatto che viviamo da tempo in regime berlusconiano lo prova.
Cosa c’era di sbagliato nella posizione di D’Alema? Inspiegabilmente, per un
personaggio della sua innegabile intelligenza politica, la credenza che un
appello alla società civile significasse un appello all’assemblearismo
sessantottesco e quindi a una deriva extraparlamentare, oppure a una forma di
berlusconismo. Ma il berlusconismo è stato l’opposto di una mobilitazione della
società civile, perché non era nato dallo spontaneo aggregarsi di gruppi
diversi, ma dalla decisione verticistica di qualcuno che, per così dire,
avendone le possibilità economiche, si era “comperato” un partito tagliato
sulla sua misura. E per quanto riguarda la minaccia di assemblearismo, pare
evidente che, quando si mobilita, la società civile non chiede che sia dato il
potere “alle cuoche”, ma si aggrega per rappresentanze professionali, circoli
culturali, gruppi di volontariato, e soprattutto non pensa affatto di opporsi
ai partiti politici. E dunque D’Alema incorreva in un equivoco (e forse qualche
intervento in quel convegno, e la proposta di un “Movimento per l’Ulivo” lo
aveva indotto a quei sospetti) quando denunciava come “superficiale e
infondata” l’idea “che il soggetto politico possa diventare l’alleanza, i
comitati, al posto dei partiti”. Non risulta che quando si è espressa la
società civile si sia proposta di sostituire i partiti (non ne avrebbe né le capacità
organizzative né l’omogeneità ideologica). Al massimo la società civile chiede
che i partiti sappiano rinnovarsi e ne sollecita anzi l’adesione alle sue
proposte, intende stimolarli, ricondurli a un contatto diretto con le
aspirazioni di vari ceti sociali. (…). Quale rimane dunque la funzione,
certamente insostituibile, dei partiti e della “politica” nel momento in cui si
dà voce a elementi non professionalmente politici? Non solo quella di
interrogare e comprendere le pulsioni, le idee, le aspirazioni che animano la
società civile, ma di garantire la continuità di queste espressioni, perché
certamente la società civile può aggregarsi e disgregarsi a seconda della
situazione di un paese, può mobilitarsi in casi di estrema urgenza (come è
avvenuto) ma disperdersi o impigrirsi nel momento successivo. Ed ecco che i
partiti devono sentire non solo il dovere di rispondere alle sollecitazioni
della società civile, ma anche quello di sollecitare queste sollecitazioni. Per
poi ovviamente incanalarle nelle forme parlamentari e governative l’accesso
alle quali non può che avvenire tramite i partiti. Ma evidentemente l’altezzoso
monito di Gargonza (facilmente traducibile in termini farseschi nel classico
“ragazzino lasciami lavorare”) ha immediatamente rotto il legame che si era
instaurato nel 1996 tra mondo politico e società civile. Il legame si sta
riannodando ora, per fortuna, ma a quindici anni distanza. Si auspica che non
vadano sprecati i prossimi quindici.
Da “Di piazza e di governo” di Francesco Merlo, sul quotidiano la
Repubblica del 24 di febbraio 2016: (…). Eco avrebbe riservato le sue battute
irriverenti a questa folla amica e non ai politici vampiri, perché, come
Mangiafuoco starnutiva per non piangere, così lui truffava l’emozione con il
riso. Tra tutti i grandi che hanno scritto sul riso, dal disperato Pirandello
al triste Bergson al maledetto Baudelaire, Eco era l’unico che lo praticava
pure. Quando vidi per la prima volta sua moglie e gli dissi che era bellissima,
una ottantenne leggera come una fata celtica, cercò la battuta, il
contravveleno che per una volta non trovò: “Se la cava, siamo sposati da più di
cinquant’anni”. Dei due solo lei aveva i lineamenti dell’intellettuale: “Io
porto la barba per cercare di nascondere la faccia”. Sicuramente il professore
avrebbe promosso gli amici che l’hanno ricordato con festosità: Furio Colombo,
che giustamente è stato il più applaudito; il jazzista Gianni Coscia, che
piangendo gli veniva da ridere; Moni Ovadia, che ha raccontato una barzelletta
troppo yiddish e troppo lunga ma ha azzeccato il saluto: “Ti benedica Dio che
sopporta i credenti e ama noi atei”. Di loro, degli amici carissimi, Eco
diceva: “Stanno sempre tra i piedi, non riesco mai a mandarli via”. Ancora oggi
sono una specie di clan, una sorta di “massoneria econis” con un codice segreto
per comunicarsi le notizie che lo riguardano, segnalarsi l’un l’altro le sue mosse
e i suoi spostamenti. Hanno una liturgia che Eco accettava con grazia selvatica
e con amore. Tra loro, Roberto Benigni (…). A Repubblica Tv ha detto: “Ci
volevamo bene, quando compariva lui era un luccichio, come un vento che faceva
bene al mondo”. E poi (attenti a queste parole): “Non aveva niente di speciale
se non che, quando arrivava lui, era tutto speciale”. Nella casa di campagna
dove Eco si ritirava, nel paese di Monte Cerignone, una specie di Alcatraz
marchigiana, sotto il portico dove l’attenta donna che lo accudiva, la signora
Teresa, metteva in tavola i cappelletti in brodo e le frittelle di cavolfiori e
le polpette, si apre una finestra costruita come un palcoscenico per le
marionette. E tra quei burattini ho visto un Wojtyla, un Occhetto e un Bin
Laden. Eco infilava la mano dentro un corvo con bastone e cappello di paglia e
accennava il motivo di ‘Winchester Cathedral’. Raccontava: “In genere il teatro
dei pupi lo facciamo, io e mia moglie, per un pubblico di bambini. Ma lo
abbiamo fatto anche per i grandi, con i contadini. E a volte con le luci di Gae
Aulenti, e con Roberto Benigni che è speciale perché quando arriva (ndr.:
attenti alle parole che sono l’amicizia allo specchio) rende tutto speciale”. “I
comici – diceva ancora – sono i soli da cui gli italiani prendono lezioni di
morale. La politica infatti non ci riesce più. Altan è uno dei più grandi
moralisti italiani. E anche Giannelli. Infatti Renzi ha molta più paura di
Crozza che di Salvini”. Ma soprattutto Benigni, che sfida le cattedre dei
cosiddetti grandi pensatori, gli pareva un formidabile caso italiano, ben
difficile da spiegare agli stranieri, persino agli americani che pure hanno
avuto Reagan: “E infatti in America le cose che dice Woody Allen sono di meno
effetto delle cose che dice Obama. Benigni è a metà tra i Fioretti di San
Francesco e Bertoldo Bertoldino e Cacasenno”. Concludeva che oggi “le Brigate
Rosse non rapirebbero Aldo Moro ma Benigni”. Ed era più che una battuta, era
uno dei suoi pensieri spettinati, così veloci e pieni di intelligenza, con il
fascino dell’enciclopedico gioioso, dell’erudito popolare che privilegia la
conversazione alla conferenza. (…). Nell’Italia della buonanima c’è ora chi
racconta inediti che nessuno potrà smentire, chi pubblica interviste postume,
dichiarazioni incontrollabili. Facebook è il tempio di queste amicizie in
esposizione, delle relazioni e delle memorie presunte. (…). Il giorno in cui
salpò, da casa Sgarbi, la nuova casa editrice tirai Eco per il cappotto per
costringerlo a mettersi in posa in quella foto di gruppo che è l’immagine
scolastica di un bellissimo momento italiano. Era già malato ma non intristito,
il bastone non era solo di fatica ma anche di comando. “Invecchiare è
bellissimo” mi disse: nessun cedimento, nessuna concessione al declino, nessun
accenno di rimpianto. Avevamo fatto un’intervista sul “morire dal ridere”,
sulla risata di Dio: “Ridere non salva l’uomo dalla morte, ma lo aiuta”. E
avevamo ricordato quando conferì la laurea in goliardia a Renzo Arbore
nell’aula magna di Bologna. “Il suo clarinetto – cominciò Eco – è un classico
del doppio senso”. E Arbore: “Anche il suo pendolo, che va di qua e di là
perché non ce la fa”. Poi Eco fece ad Arbore una domanda di italiano: “Che
tempo è “sarebbe stato perduto”?”. Esitazione, trambusto, e quindi la risposta
giusta: “Preservativo passato”. Ecco: c’è un po’ di Eco in Arbore come c’è un
po’ di Croce in Eco: l’alto e il basso nella storia d’Italia. (…). Archiviato
il funerale bisognerebbe cominciare a studiare, oltre i suoi libri, anche quella
sua inquietudine. E, perché no? pure la sua vita così mossa.
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