"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 11 febbraio 2016

Lalinguabatte. 9 “La scuola oltre il sillabario”.



È potuto accadere anche a me qualche anno addietro, prima di abbandonare la nave della scuola pubblica italiana ondeggiante di già in mezzo ai marosi per un “si salvi chi può” non più procrastinabile, è potuto accadere anche a me, da poco alfabetizzato nell’uso di una moderna diavoleria quale è per l’appunto il computer, dicevo è potuto accadere anche a me dovermi erigere a tutor in un corso di formazione per neoassunti docenti della pubblica scuola italiana. Un’impresa desolante, in alcuni momenti avvilente. Avevi voglia di dire loro, i neoassunti, quindi quasi tutti quarantenni “giovani” e di belle speranze, almeno per il raggiungimento del tanto agognato “posto fisso”,  all’inizio di una luminosa anche se non folgorante carriera, avevi voglia di dire  loro che la dimensione informatica nella vita quotidiana aveva già raggiunto uno stadio abbastanza avanzato, per la qualcosa essi, in attesa di conferma nel ruolo a seguito dell’espletamento di quel benedetto corso di formazione, rappresentavano per l’appunto le avanguardie più agguerrite di una scuola pubblica che evidentemente sentiva la necessità di non sbattere la porta in faccia alle nuove tecnologie! Avevi voglia di dire loro, disperatamente in qualche pomeriggio noioso e piovoso, quando il disinteresse e la noia sfuggiva loro da tutti i pori della poca pelle esposta ai rigori invernali,  che con il loro atteggiamento si comportavano a tal guisa di colui che nei tempi andati si fosse opposto a Gutemberg ed alla sua epocale invenzione! Solamente il fatto non costituiva un loro interesse, e così stancamente e senza slancio alcuno si giunse alla fatidica data di chiusura di un corso di formazione informatica che di certo non avrà lasciato segno alcuno nella carriere e nell’attività quotidiana di quegli educatori, e che di conseguenza non avrà innovato alcunché nelle asfittiche aule della scuola pubblica italiana. Sono ricordi strettamente personali, forse unici nel senso che di tale desolazione non si potrebbe avere altro riscontro nell’ambito della medesima esperienza di formazione professionale, ricordi che ancor oggi ritornano alla memoria per riproporre un quesito, che forse non ha avuto ancora una soddisfacente risposta: col sillabario o anche oltre il sillabario? Essendo da tempo oramai fuori da quelle aule riconosco di essere nell’impossibilità di dare una risposta che sia esaustiva, a seguito anche di tutte le innovazioni che sono intervenute nell’ambito delle riforme scolastiche. Allora sentivo però la necessità di accostarmi alle nuove tecnologie anche e soprattutto per una condivisione con le nuove generazioni di interessi ed esperienze che veicolassero meglio il rapporto educativo docente-discente, che rimane sempre l’obiettivo principale nell’attività di formazione e di aiuto alla crescita delle nuove generazioni. Che questo “interesse”, che definirei “ strumentale” non faccia più parte del bagaglio professionale dei docenti neoassunti della scuola pubblica italiana? Con quale vantaggio per l’istituzione stessa e per la formazione completa delle nuove generazioni? Capisco che il tema del dibattito, che spero sia ancora in corso nella scuola, non è dei più semplici da affrontare e per il quale esista di già una risposta strutturata e di largo respiro: comunque esso va affrontato, affinché la scuola pubblica italiana possa mantenere standard formativi che siano adeguati ai tempi della informatizzazione più spinta di tutti gli aspetti della vita umana. Penso allora di arrecare un modesto contributo al dibattito in corso con lettura tratta dallo scritto “Quei monitor poco reali” di Umberto Galimberti, scritto apparso tanto tempo addietro su di un supplemento al quotidiano la Repubblica. È uno scritto in verità inquietante laddove si prospettava l’insidioso uso di quegli strumenti per la gestione della volontà collettiva.
Compito della scuola non è quello di fornire dati e sempre più dati, né tanto meno quello di fornire risposte senza l'indicazione dei processi attraverso cui a quelle risposte si giunge. Compito della scuola è fornire metodi di ricerca e capacità di giudizio, a partire dai quali i dati e le risposte sono facilmente ottenibili. Un esempio: al costo di una ventina di computer si può attrezzare un magnifico laboratorio di fisica. Fra dieci anni, quando quei computer saranno da tempo nella spazzatura, i diapason potranno ancora insegnare la risonanza, un voltometro dimostrerà perfettamente la legge di Ohm e gli studenti potranno ancora utilizzare le attrezzature per capire il movimento angolare. In questo modo avranno imparato un metodo di ricerca e non solo i semplici risultati del sapere già acquisito che il computer può fornire in grande abbondanza senza però impegnare la testa dello studente nella ricerca del "modo" con cui vi si perviene. E d'altra parte davvero 50 minuti di lezione di un buon insegnante possono venire liofilizzati in 15 minuti multimediali? Ma gli inconvenienti più gravi dell'informatizzazione generalizzata della scuola sono la marginalizzazione della realtà "fisica" a favore di quella "virtuale" e la riduzione drastica dei processi di socializzazione con tutte le conseguenze etiche e psicologiche che la cosa comporta per effetto dell'isolamento indotto dal rapporto del singolo individuo con il suo computer. Come scrive opportunamente Raffaele Simone: "Con un software posso visitare Roma senza averci mai messo piede, navigare sotto l'oceano senza bagnarmi e perfino fingere un gioco violento senza neppure graffiarmi. È reale, questo? O è adatto piuttosto a una situazione di emergenza e di penuria? A me pare che le tecnologie cognitive informatizzate siano una drastica forma di de-realizzazione, una via per sostituire il "non vero" al "vero", il "non reale" (= il virtuale) al "reale" per simulare delle cose che non si possono o non si vogliono fare. Il nostro fare si ridurrà solo a una seduta in cui si smanetta su una tastiera e si occhieggia un monitor? Penso a questa eventualità con orrore, ma la vedo minacciosamente in marcia verso di noi". Ai processi di de-realizzazione che l'uso incontrollato del computer in età scolare alimenta si aggiungono i processi di de-socializzazione. Infatti solo una persona alla volta può interagire con un computer, il che comporta meno relazioni con gli amici, meno condivisione della propria vita con altri, declino del coinvolgimento sociale, perché è vero che con internet posso farmi amici in America o in Australia, ma che grado di profondità possono avere queste amicizie? Come mi addestrano a incontrare gli altri faccia a faccia avendo qualcosa di interessante da dire? Quanto tempo sottraggono alla nostra vita reale e ai rapporti che potremmo avere con chi ci circonda? Con quale danno sostituiremo la comunità reale del vicino di casa, del compagno di scuola, dell'amico del bar con la comunità virtuale delle voci senza volto con cui pensiamo di comunicare via e-mail o con i messaggi telegrafici e inespressivi sms. Che ne è a questo punto della nostra competenza sociale, e quali le conseguenze in termini di solitudine, di depressione, di timidezza? Così si dà a ciascuno l'illusione della libertà e, di fatto, si creano individui già singolarmente massificati. Perché a tutti, sia pure in modo individuato, è stato fornito lo stesso mondo da consumare già interpretato e già codificato nel suo significato, senza che l'individuo possa disporre di un suo giudizio personale, perché la scuola informatizzata non gli ha dato gli strumenti per essere in grado di formarsene uno. Che sia questo il nuovo modo con cui si promuove la gestione delle masse?  È  come sempre quel navigare a vista della scuola pubblica italiana, come una fragile navicella tra Scilla e Cariddi, che necessariamente spinge ogni educatore a ricercare quel contatto, quell’interesse “strumentale”, ma non solo, che faccia da collante saldo e sicuro nel sempre difficile rapporto tra l’educare e l’apprendere. Ha scritto Luigi Galella – “Addio sapere in testa: ora c’è quello in tasca. Nel telefonino” – a proposito di quel difficile rapporto: (…). Un tempo attribuivo alla cultura storica e letteraria un’importanza capitale per capire il mondo, oggi mi sembra invece che i mondi siano tanti, e che io stesso ho bisogno di un atto di umiltà per osservarli e comprenderli. È come se la scuola, quella che abita nell’animo di ciascuno di noi, fosse meno “scuola” per me, nel senso classico del termine. Ne avverto il peso, spero di trasmetterne meno il carattere oppressivo. Viviamo il tempo della massima informazione. Fra qualche anno, grazie a Google, avremo accesso alla lettura diretta di milioni di libri delle più grandi biblioteche del mondo. Tutto il sapere dell’universo sarà a portata di mano. Questo parzialmente ci deresponsabilizzerà dallo studio di quei testi, perché in qualsiasi circostanza sapremo quando e come cercarli. Grazie ai telefonini non ce l’avremo in testa ma in tasca il sapere dell’universo, i cui dati incessantemente, richiamati all’occorrenza, navigheranno nella rete da un angolo all’altro del mondo. Non so se è un bene o un male, ma è una realtà con cui faremo i conti. Come insegnanti, più che definire la rotta o fissare gli approdi, dovremo fornirci noi stessi di una bussola per navigare in questo mare sconosciuto. Oggi sono più vicino ai miei studenti perché so che con loro condivido l’identico sentimento di precarietà dei tempi, che ci fa oscillare tra la necessità della navigazione e la percezione del possibile naufragio. Ci vuole coraggio per affrontare il mare. L’insidia è la pigrizia, l’atteggiamento regressivo, la sirena del passato, anche seducente, che ci vorrebbe incantare e trattenere. Ma il pericolo, del resto, è anche l’idea del futuro come “folle volo” nel tempo. Senza adeguata attrezzatura. Senza la memoria di ciò che siamo stati. Senza la scuola, che quella memoria conserva.

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