È potuto accadere anche a me
qualche anno addietro, prima di abbandonare la nave della scuola pubblica
italiana ondeggiante di già in mezzo ai marosi per un “si salvi chi può” non
più procrastinabile, è potuto accadere anche a me, da poco alfabetizzato
nell’uso di una moderna diavoleria quale è per l’appunto il computer, dicevo è
potuto accadere anche a me dovermi erigere a tutor in un corso di formazione
per neoassunti docenti della pubblica scuola italiana. Un’impresa desolante, in
alcuni momenti avvilente. Avevi voglia di dire loro, i neoassunti, quindi quasi
tutti quarantenni “giovani” e di belle speranze, almeno per il raggiungimento
del tanto agognato “posto fisso”, all’inizio
di una luminosa anche se non folgorante carriera, avevi voglia di dire loro che la dimensione informatica nella vita
quotidiana aveva già raggiunto uno stadio abbastanza avanzato, per la qualcosa essi,
in attesa di conferma nel ruolo a seguito dell’espletamento di quel benedetto corso
di formazione, rappresentavano per l’appunto le avanguardie più agguerrite di
una scuola pubblica che evidentemente sentiva la necessità di non sbattere la
porta in faccia alle nuove tecnologie! Avevi voglia di dire loro,
disperatamente in qualche pomeriggio noioso e piovoso, quando il disinteresse e
la noia sfuggiva loro da tutti i pori della poca pelle esposta ai rigori
invernali, che con il loro atteggiamento
si comportavano a tal guisa di colui che nei tempi andati si fosse opposto a
Gutemberg ed alla sua epocale invenzione! Solamente il fatto non costituiva un
loro interesse, e così stancamente e senza slancio alcuno si giunse alla
fatidica data di chiusura di un corso di formazione informatica che di certo
non avrà lasciato segno alcuno nella carriere e nell’attività quotidiana di
quegli educatori, e che di conseguenza non avrà innovato alcunché nelle
asfittiche aule della scuola pubblica italiana. Sono ricordi strettamente
personali, forse unici nel senso che di tale desolazione non si potrebbe avere
altro riscontro nell’ambito della medesima esperienza di formazione professionale,
ricordi che ancor oggi ritornano alla memoria per riproporre un quesito, che
forse non ha avuto ancora una soddisfacente risposta: col sillabario o anche
oltre il sillabario? Essendo da tempo oramai fuori da quelle aule riconosco di
essere nell’impossibilità di dare una risposta che sia esaustiva, a seguito
anche di tutte le innovazioni che sono intervenute nell’ambito delle riforme
scolastiche. Allora sentivo però la necessità di accostarmi alle nuove
tecnologie anche e soprattutto per una condivisione con le nuove generazioni di
interessi ed esperienze che veicolassero meglio il rapporto educativo docente-discente,
che rimane sempre l’obiettivo principale nell’attività di formazione e di aiuto
alla crescita delle nuove generazioni. Che questo “interesse”, che definirei “
strumentale” non faccia più parte del bagaglio professionale dei docenti
neoassunti della scuola pubblica italiana? Con quale vantaggio per
l’istituzione stessa e per la formazione completa delle nuove generazioni? Capisco
che il tema del dibattito, che spero sia ancora in corso nella scuola, non è
dei più semplici da affrontare e per il quale esista di già una risposta
strutturata e di largo respiro: comunque esso va affrontato, affinché la scuola
pubblica italiana possa mantenere standard formativi che siano adeguati ai
tempi della informatizzazione più spinta di tutti gli aspetti della vita umana.
Penso allora di arrecare un modesto contributo al dibattito in corso con lettura
tratta dallo scritto “Quei monitor poco
reali” di Umberto Galimberti, scritto apparso tanto tempo addietro su di un
supplemento al quotidiano la Repubblica. È uno scritto in verità inquietante
laddove si prospettava l’insidioso uso di quegli strumenti per la gestione
della volontà collettiva.
Compito della scuola non è quello di fornire
dati e sempre più dati, né tanto meno quello di fornire risposte senza
l'indicazione dei processi attraverso cui a quelle risposte si giunge. Compito
della scuola è fornire metodi di ricerca e capacità di giudizio, a partire dai
quali i dati e le risposte sono facilmente ottenibili. Un
esempio: al costo di una ventina di computer si può attrezzare un magnifico
laboratorio di fisica. Fra dieci anni, quando quei computer saranno da tempo
nella spazzatura, i diapason potranno ancora insegnare la risonanza, un
voltometro dimostrerà perfettamente la legge di Ohm e gli studenti potranno
ancora utilizzare le attrezzature per capire il movimento angolare. In questo
modo avranno imparato un metodo di ricerca e non solo i semplici risultati del
sapere già acquisito che il computer può fornire in grande abbondanza senza
però impegnare la testa dello studente nella ricerca del "modo" con
cui vi si perviene. E d'altra parte davvero 50 minuti di lezione di un buon
insegnante possono venire liofilizzati in 15 minuti multimediali? Ma gli inconvenienti
più gravi dell'informatizzazione generalizzata della scuola sono la
marginalizzazione della realtà "fisica" a favore di quella
"virtuale" e la riduzione drastica dei processi di socializzazione
con tutte le conseguenze etiche e psicologiche che la cosa comporta per effetto
dell'isolamento indotto dal rapporto del singolo individuo con il suo computer.
Come
scrive opportunamente Raffaele Simone: "Con un software posso visitare
Roma senza averci mai messo piede, navigare sotto l'oceano senza bagnarmi e
perfino fingere un gioco violento senza neppure graffiarmi. È reale, questo? O
è adatto piuttosto a una situazione di emergenza e di penuria? A me pare che le
tecnologie cognitive informatizzate siano una drastica forma di
de-realizzazione, una via per sostituire il "non vero" al
"vero", il "non reale" (= il virtuale) al "reale"
per simulare delle cose che non si possono o non si vogliono fare. Il nostro
fare si ridurrà solo a una seduta in cui si smanetta su una tastiera e si
occhieggia un monitor? Penso a questa eventualità con orrore, ma la vedo
minacciosamente in marcia verso di noi". Ai processi di de-realizzazione
che l'uso incontrollato del computer in età scolare alimenta si aggiungono i
processi di de-socializzazione. Infatti solo una persona alla volta può interagire
con un computer, il che comporta meno relazioni con gli amici, meno
condivisione della propria vita con altri, declino del coinvolgimento sociale,
perché è vero che con internet posso farmi amici in America o in Australia, ma
che grado di profondità possono avere queste amicizie? Come mi addestrano a
incontrare gli altri faccia a faccia avendo qualcosa di interessante da dire?
Quanto tempo sottraggono alla nostra vita reale e ai rapporti che potremmo
avere con chi ci circonda? Con quale danno sostituiremo la comunità reale del
vicino di casa, del compagno di scuola, dell'amico del bar con la comunità
virtuale delle voci senza volto con cui pensiamo di comunicare via e-mail o con
i messaggi telegrafici e inespressivi sms. Che ne è a questo punto della nostra
competenza sociale, e quali le conseguenze in termini di solitudine, di
depressione, di timidezza? Così si dà a ciascuno l'illusione della
libertà e, di fatto, si creano individui già singolarmente massificati. Perché
a tutti, sia pure in modo individuato, è stato fornito lo stesso mondo da
consumare già interpretato e già codificato nel suo significato, senza che
l'individuo possa disporre di un suo giudizio personale, perché la scuola
informatizzata non gli ha dato gli strumenti per essere in grado di formarsene
uno. Che sia questo il nuovo modo con cui si promuove la gestione delle
masse? È come sempre quel navigare a vista della scuola
pubblica italiana, come una fragile navicella tra Scilla e Cariddi, che
necessariamente spinge ogni educatore a ricercare quel contatto, quell’interesse
“strumentale”, ma non solo, che faccia da collante saldo e sicuro nel sempre
difficile rapporto tra l’educare e l’apprendere. Ha scritto Luigi Galella – “Addio sapere in testa: ora c’è quello
in tasca. Nel telefonino” – a proposito di quel difficile rapporto: (…).
Un tempo attribuivo alla cultura storica e letteraria un’importanza capitale
per capire il mondo, oggi mi sembra invece che i mondi siano tanti, e che io
stesso ho bisogno di un atto di umiltà per osservarli e comprenderli. È come se
la scuola, quella che abita nell’animo di ciascuno di noi, fosse meno “scuola” per
me, nel senso classico del termine. Ne avverto il peso, spero di trasmetterne
meno il carattere oppressivo. Viviamo il tempo della massima informazione. Fra
qualche anno, grazie a Google, avremo accesso alla lettura diretta di milioni
di libri delle più grandi biblioteche del mondo. Tutto il sapere dell’universo
sarà a portata di mano. Questo parzialmente ci deresponsabilizzerà dallo studio
di quei testi, perché in qualsiasi circostanza sapremo quando e come cercarli. Grazie
ai telefonini non ce l’avremo in testa ma in tasca il sapere dell’universo, i
cui dati incessantemente, richiamati all’occorrenza, navigheranno nella rete da
un angolo all’altro del mondo. Non so se è un bene o un male, ma è una realtà
con cui faremo i conti. Come insegnanti, più che definire la rotta o fissare
gli approdi, dovremo fornirci noi stessi di una bussola per navigare in questo
mare sconosciuto. Oggi sono più vicino ai miei studenti perché so che con loro
condivido l’identico sentimento di precarietà dei tempi, che ci fa oscillare
tra la necessità della navigazione e la percezione del possibile naufragio. Ci
vuole coraggio per affrontare il mare. L’insidia è la pigrizia, l’atteggiamento
regressivo, la sirena del passato, anche seducente, che ci vorrebbe incantare e
trattenere. Ma il pericolo, del resto, è anche l’idea del futuro come “folle
volo” nel tempo. Senza adeguata attrezzatura. Senza la memoria di ciò che siamo
stati. Senza la scuola, che quella memoria conserva.
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