In tempi difficili e perigliosi
alquanto, nella contrapposizione interessata e senza più freni delle fedi su
scala planetaria, quando ritorna alle narici il puzzo antico di bruciato di
corpi innocenti lasciati morire in nome di un dio, uno dei tanti, e quando
sembra di veder di nuovo mulinare spade, e sentire il tintinnio di sciabole e
scimitarre benedette dal proprio benevolente e misericordioso dio, ebbene è
proprio in tempi come questi che la trepidazione assale forte con l’angoscia di
una domanda alla quale ben difficilmente, se non nell’obnubilamento assoluto della
ragione, potrebbe trovarsi - per darsi - una risposta: ma di quale dio si parla?
Io non ho risposta sicura, ché se ce l’avessi proverei paura immensa, una
risposta sicura sì e grande e confortevole per lo spirito, se non la miserevole
mia personale esperienza, maturata dolorosamente negli anni, che or sono tanti
ma non tantissimi, in un agnosticismo sempre trepidante ed in ansia di ricerca,
per la qual cosa abdico prontamente all’ardua impresa ed avverto che questo mio
misero scritto è senza pretese escatologiche ed introspettive ed è lasciato
alla libera riflessione dei pochi pochissimi incauti navigatori della rete che
dovessero incagliarsi tra codesti anfratti. Riporto da “Le stanze dell’immaginario“ di Umberto Galimberti:
I
miei dubbi sulla religione incominciarono molto presto, quando, da piccolo,
nelle lezioni di catechismo, sentii parlare del limbo, un luogo per i bambini
morti prima di ricevere il battesimo. Costoro non andavano all'inferno perché
non avevano avuto la possibilità di peccare, e neppure in paradiso perché non
erano stati rigenerati dal battesimo che toglie quel peccato che Adamo ed Eva
avevano commesso per tutta l'umanità, una colpa impersonale che vieta la
visione beatifica di Dio. Per i bambini, colpevoli d'essere nati solo
per morire, non era previsto neanche il purgatorio, dove la pena del peccato si
riduce se le preghiere dei vivi sono sufficientemente numerose e fervide. Per
loro c'è il limbo, un luogo che nella mia immaginazione non riusciva mai a
essere troppo preciso, e che comunque aveva il pregio di evitare a chi vi
accedeva le atrocità dell'inferno e la monotonia del paradiso. Una
decina d'anni dopo, leggendo il quarto canto della Divina Commedia, appresi
che, oltre ai bambini morti senza battesimo, abitano il limbo il nostro
progenitore Adamo, i patriarchi, i profeti, i re dell'Antico Testamento, quindi
Abramo, Isacco, Giacobbe, Noè, Mosè, Davide, che però furono liberati e portati
in cielo da Cristo che fece la sua comparsa nel limbo "con segno di
vittoria incoronato". Vi
rimasero, invece, non redenti, i poeti greci e latini, quindi Omero, Ovidio,
Orazio, Lucano, i filosofi Socrate, Platone, Aristotele, Democrito, e gli eroi
Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Elettra. Non mi sembrava una cattiva compagnia,
anzi forse il limbo era preferibile al paradiso, dove altro non restava che
volteggiare con gli angeli nella luce accecante di Dio. Ma un
giorno la teologia cattolica smise di parlare del limbo, anzi lo abolì. Lo
seppi da un libraio cattolico agli inizi degli anni Ottanta, quando mi recai da
lui per comprare un Dizionario di teologia biblica e un Dizionario teologico
interdisciplinare, dove alla parola "Libertà" seguiva la parola
"Liturgia", e del "Limbo" neppure il nome. Col tono di un
impiegato di banca che a un acquirente inesperto dice che ormai è da molto
tempo che un certo valore borsistico non è più quotato, mi annunciò che il
limbo era una "nozione non più in uso", perché la teologia si era
"ammodernata al passo con i tempi". Eppure, nella geografia del
soprannaturale a cui si dedicavano i medioevali che ancora non disponevano di
mappe esatte per la geografia di questa terra, con l'immaginazione del limbo si
descrive un mondo intermedio, uno stato d'animo, una condizione psichica. Si tratta
di quella condizione che caratterizza le idee allo stato nascente, che, al pari
dei bambini che muoiono appena nati, rifiutano di essere elaborate, oppure dei
sogni che fanno le veci della realtà, oppure di quelle vite che non hanno
un'identità ben definita, tipiche di coloro che non sono ciò che sono o che
credono di essere. Le donne più degli uomini, incerte, meglio, inafferrabili,
che sono sempre in attesa di non si sa bene che cosa. Il
limbo è allora la condizione di coloro che restano nell'imperfetto,
nell'incompiuto, nell'inquietudine: esseri indefiniti, non misurati dal tempo e
neppure dall'eternità. Cioè la condizione di noi tutti, che dopo aver vissuto
la vita non riusciamo davvero a identificarci con essa, ne percepiamo tutta la
sua casualità, e andiamo con la memoria a ripercorrere per un attimo tutte le
vite non vissute, morte sul nascere, come i bambini del limbo. Ora
che il limbo è stato abolito, non c'è più posto per tutte quelle nostre vite
che abbiamo sognato, immaginato, progettato ma, per mille ragioni, non vissuto,
vite senza storia, semplici ondulazioni di sabbia che il vento ha spianato
senza però cancellarle dalla nostra memoria. A queste vite, per le quali non
c'è più posto nella geografia dell'aldilà, occorre accordargliene almeno uno
nella nostra geografia interiore. Abbiamo sempre bisogno di una favola che dia
un senso, una forma, una profondità al nostro essere qui sulla terra, al nostro
errare, una favola che ci renda meno impotenti di fronte all'instancabile
ferocia degli uomini. La teologia era una di queste favole, poi si è arresa
alla ragione, ha voluto tutto dimostrare, e, per andare d'accordo con il
sapere, ha chiuso le porte alle stanze dell'immaginario, dove, tra le altre
cose non troppo ragionevoli, era custodito il limbo, un luogo mancante di tutti
i sensi, dove un bambino senza nome, metafora di ciascuno di noi, perso tra i
suoi fragili compagni, soli, privati come lui di tutto, conserva almeno il
potere di sognare. Un rifugio precario, ma senz'altro un rifugio contro il
troppo ordine o il troppo caos. In fondo, diceva Chateaubriand: "C'è così
poca realtà nell'uomo, che il cuore si stringe quando si separa dai
sogni". Termina qui l’interessante riflessione del professor
Galimberti. Una esperienza personale. Mi sono impelagato in una lettura che ha
dell’incredibile. Impelagato dicevo, come disperso in un immenso, sconosciuto “pelago”
oltre i lontanissimi confini del quale non si riesce di intravvedere una terra
di salvezza, una sperduta isola verso la quale, a bracciate, dirigersi il naufrago
in certa di salvezza, un qualcosa cioè al quale aggrappare la propria precaria esistenza.
Il tomo in questione è di recente pubblicazione per i tipi di “Quodlibet”
editrice; l’Autore è il filologo Dino Baldi. Titolo dell’opera: “Vite efferate di papi” – (2015) pagg.
499 € 19,00 -. Esaustivo già nel titolo. È che giunto alla pagina 190 del tomo
la tentazione di riporlo è fortissima. Perché mai? Già nel “prologo” l’illustre
Autore mette, come suol dirsi, “le mani avanti” laddove scrive (pag.12): “Se (…)
la religione è il segno più evidente dell’imperfezione naturale dell’uomo,
sempre bisognoso di qualcuno o di qualcosa che lo diriga verso il bene e la
civiltà, cos’altro è il papato, che regge e applica e distribuisce questa
religione nel mondo, se non un’istituzione voluta da Dio e dagli uomini per
tenere a bada la nostra natura dirompente e ferocissima? E allora perché
proprio i tempi nei quali il pontefice reggeva con maggiore autorità le redini
della storia furono anche i più fitti di crimini, efferatezze e perversioni di
ogni genere? Infine come si spiega (…) che la Chiesa stessa è il luogo dove per
secoli si è esercitata la cattiveria umana nell’accezione universalmente più
semplice ed intuitiva, senza una ragione apparente se non il gusto schietto per
il male?”. Ma la “ragione apparente” che l’illustre
Autore sottace la si incontra invece in ognuna delle pagine sinora lette, e sono
state ben centonovanta: ovvero, la “ragione apparente” di quella “chiesa”
è stata sin dagli inizi e per sempre e continua ad essere la conquista del
potere, ovvero la difesa di esso o di ciò che ne rimane nel tempo
post-illuministico e come tale definito razionale e laico. Qual è la “tentazione”
alla quale ho prima accennato? Non proseguire nella lettura del ben documentato
testo, stante la brutalità di quella “storia” in esso contenuta, “storia” nella
quale la violenza appare come tema dominante nella vita di una religione
fattasi, tramite essa, “chiesa”. È giunto il tempo, come non mai, di
riconoscere la veridicità di quanto ha scritto Emmanuel Carrère nella Sua opera
più recente che ha per titolo “Il Regno”
– Adelphi Editore (2015) pagg. 428, cap. 28° pag. 168 -: (…). …quelli che credono a ciò
che vedono hanno perso, quelli che vedono ciò in cui credono hanno vinto.
Quelli che disprezzano la testimonianza dei sensi, non tengono conto di ciò che esige la ragione e
sono disposti a passare per pazzi hanno superato il test. Sono i veri credenti,
gli eletti: loro è il regno dei cieli. Conforta rileggere quanto intuì,
e ne scrisse con grande anticipo sui tempi nostri, Vincent van Gogh: “Per
me quel Dio degli uomini di chiesa è morto e sepolto. Ma sono forse ateo per
questo?”. Ecco perché il mio “agnosticismo sempre trepidante ed in
ansia di ricerca” di cui parlavo mi porta a dire che, in fin dei conti, “grazie
a dio sono ateo” – copyright Woody Allen -.
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