"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 7 febbraio 2015

Storiedallitalia. 69 “Grecia”.



Amo la Grecia. Punto. Amo la “feta” – nel loro idioma φέτα” - dei compagni Tsipras e Varoufakis. Non vi sembri snobismo o irriverenza se pongo la “feta” ai primissimi posti tra i miei amori, anteponendola alle decine di ben più importanti altri amori. È che, come saggiamente ha detto qualcuno, al mondo non si possono amare tutte le cose e tutti gli esseri umani. Bisogna scegliere. E la “feta” la amo visceralmente. Amo la musica greca, con quel Mikis Teodorakis in testa. Amo Irene Papas. Amo il sommo poeta greco che ci ha fatto dono delle sue stupende leggende di dei ed eroi. Amo i matematici greci ed i pensatori greci che ci hanno consentito, nei secoli, il lungo cammino per abbandonare le caverne e giungere all’odierna era del computer con il quale vado vergando su questi miei amori. Amo la civiltà greca tutta che ci ha fatto dono della conquista più importante per gli esseri umani, ovvero l’imperfetta democrazia. Amo tutto ciò e non penserò mai di cambiare idea sulla Grecia e sulla sua straordinaria storia. Poiché alla Grecia tanto dobbiamo, soprattutto in un momento di gravissime sue difficoltà. Ma si aggira tra di noi uno zuzzurellone che all’alba della vittoria dei compagni Tsipras e Varoufakis sembrava pronto a saltare il fossato per passare armi e bagagli dall’altra parte, ovvero dalla parte dei tiranneggiati dal capitalismo finanziario internazionale. È stata solo una impressione, ché quando dall’alto è calato il “diktat” europeo lo zuzzurellone “de’ noantri” ha fatto pronto rientro nei ranghi. Eppure non è da dimenticare allorquando lo zuzzurellone “de’ noantri” tuonava contro l’Europa dei burocrati, contro l’Europa dei ragionieri, e maramaldeggiando da par suo come suol fare “noi non prendiamo ordini dall’Europa”, “noi abbiamo fatto gli esami in casa”, “i nostri conti sono in ordine”, “noi…noi…noi…”, “blablabla-blablabla-blablabla…”. Era tutto uno scherzo dello zuzzurellone “de’ noantri”. La memoria cortissima di quelli del bel paese gli torna comoda. Ché quando il “monsieur” della Francia accennò un miserrimo strepito contro quelli dell’Europa lo zuzzurellone “de’ noantri” si illuse d’aver trovato finalmente il compagno d’armi tanto desiderato. E se la memoria lunga non soccorre, purtroppo, quelli del bel paese una “memoria” di Federico Fubini - “L’asse fragile con la Francia” - sul quotidiano la Repubblica di giovedì 2 di ottobre dell’anno 2014 la dice lunga sulle rodomontate dello zuzzurellone “de’ noantri”.
Scriveva Federico Fubini: (…). Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi dell’Italia e allineati a quelli tedeschi. Ancora oggi, dopo anni di compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani. Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri dell’economia transalpina salterebbero. (…). È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» — al 2,5% e non al 5% del Pil — il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda. (…). …entrambi stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità, c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende, è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero insieme, come nella giungla di notte. E di quell’ipotizzato dallo zuzzurellone “de’ noantri” “asse fragile con la Francia”, come giustamente titolava l’illustre opinionista, se ne sono persi i contorni, tanto l’allineamento all’Europa dello zuzzurellonede’ noantri” è stato rapido e completo. Federico Fubini sulla vicenda della mia tanto amata Grecia è ritornato con un Suo autorevole reportage sul quotidiano la Repubblica di ieri 6 di febbraio che ha per titolo “Dai conti truccati al cappio della Troika l’odissea della Grecia vittima di se stessa”, riportato di seguito in parte: (…). Chuck Prince, il leader di Citigroup, dichiarò nel 2007 che la sua banca doveva ballare fin quando la musica fosse continuata. Parlava dei ritmi del super-ciclo del debito in Occidente. E la Grecia al suono di quella musica ha ballato più sfrenatamente di qualunque altro Paese al mondo. Nel 2009 questa piccola economia dei Balcani meridionali aveva accumulato uno squilibrio di dimensioni colossali con il resto del mondo. Secondo Eurostat, quell’anno la Grecia era in rosso per 26 miliardi negli scambi con l’estero di beni, servizi e partite finanziarie: significa che il Paese — famiglie, imprese e Stato insieme — consumava 113 euro per ogni 100 euro di reddito. Anno dopo anno, per un decennio, fa una spaventosa accumulazione di debito pubblico e privato. (…). I greci non lo avrebbero mai detto, guardando ai libri regolarmente falsificati della finanza pubblica. Il Paese era entrato nell’euro nel 2001 ma non aveva mai davvero rispettato il requisito di un deficit pubblico entro il 3% del Pil. Nel 2009 aveva dichiarato un disavanzo al 6%, eppure le successive revisioni lo hanno fissato al 15,2% del Pil. Com’è stato possibile? Per chi lavorava nell’istituto statistico di Atene, era considerato anti-patriottico pubblicare dati veritieri. Per decenni il Paese aveva conosciuto una lunga fuga dalla realtà fondata su uno scambio: gli elettori ricevevano posti di lavoro pubblici e i politici ricevevano i voti loro e dei loro familiari. Il resto non contava. Secondo gli economisti Zafiris Tzannatos e Iannis Monogios, dal 2000 al 2009 la spesa per gli statali è salita del 6,5% l’anno, quasi raddoppiando in un decennio, mentre l’evasione erodeva le entrate del 5% l’anno. Gli aumenti degli statali correvano cinque volte più di quelli del settore privato. Alla fine dello scorso decennio oltre un milione di persone, quasi un occupato ogni quattro, era ormai un dipendente pubblico: una densità doppia rispetto all’Italia. Almeno un addetto su tre era di troppo, almeno un dipartimento su cinque contava solo il dirigente e nessun impiegato. E il colossale deficit nascosto non fu l’unica conseguenza: la spesa per istruzione in proporzione al Pil è stata (e resta) compressa ai livelli più bassi d’Europa e all’interno di quella voce gli stipendi assorbono la quota più alta d’Europa, quasi tutto: nessun investimento nel futuro dei giovani e nella qualità della formazione. Anche per questo la disoccupazione è dilagata quando il Paese ha dovuto correggere gli squilibri, cancellando centinaia di migliaia di posti fittizi nell’amministrazione. Solo gli oligarchi e i grandi evasori sono stati tutelati. Il contratto sociale è andato in pezzi. (…). Nel frattempo, il settore privato è rimasto il più arretrato d’Europa. L’istituto Ifw di Kiel stima su dati Eurostat che operino oggi nel manifatturiero in Grecia appena 311 mila addetti: meno che in pesca e agricoltura, settori di solito piccolissimi in un Paese avanzato. Le principali voci di export industriale ellenico sono a bassa intensità di valore e di ricerca: prodotti raffinati del petrolio, frutta e verdura, metalli non ferrosi. È uno dei grandi fallimenti delle politiche imposte dalla Troika: non ha mai cercato di aiutare i greci a costruire da quasi zero competenze e un tessuto produttivo adeguati. Così un’economia priva di competenze, basata sul debito, su rendite di posizione parassitarie e sull’impiego fittizio si è afflosciata senza reagire, a differenza di come avvenuto in Spagna, Portogallo o Irlanda. (…). Dove invece i governi europei hanno aiutato la Grecia, è proprio sul debito pubblico: è stato tagliato due volte nel 2011, poi nel 2012 le scadenze dei pagamenti agli Stati dell’Unione sono state rinviate di decenni, con gli ultimi saldi previsti nel 2057. I governi europei hanno messo a disposizione 194 miliardi, il Fondo monetario altri 31,8 e la Banca centrale europea è ancora esposta per 25. È il più grande pacchetto di prestiti della storia, finanziato anche da Paesi molto più poveri della Grecia come i Baltici o la Slovacchia. Le condizioni sono ormai così favorevoli che, calcola il centro studi Bruegel, Atene paga in interessi appena il 2,6% del Pil: quasi la metà dell’Italia, vicino ai livelli di Francia e Germania. Se ora davvero la Grecia vuole aiutare l’Europa, può farlo smettendo di presentarsi come una vittima di qualcun altro. E cercando, finalmente, di aiutare se stessa. Spulciati i conti dell’amata Grecia che dire della tentennante azione di governo dello zuzzurellone contro la corruzione, la malversazione, l’evasione fiscale, l’iniqua distribuzione della ricchezza nel bel paese, la collezione in serie di prebende e scranni alti da parte dei sempiterni boiardi di Stato? È pur vero che la Grecia è un peso piuma all’interno della comunità europea in fatto di economia manifatturiera e quindi economia reale, ma che dire della situazione del bel paese che ha smantellato o ceduto ad altri il suo “asset” industriale? È su tutto ciò che lo zuzzurellone “de’ noantri” dovrebbe pronunciarsi. Scrive Federico Fubini nel Suo apprezzabilissimo reportage che nella mia tanto amata Grecia “solo gli oligarchi e i grandi evasori sono stati tutelati. Il contratto sociale è andato in pezzi”. Cosa vi fa pensare?

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