"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 21 febbraio 2015

Cronachebarbare. 32 “L’Italia triste senza più vere passioni”.




“The familists/I familisti” di LucaViapiana (2013). Oil, Acrylic on Thermal Paper applied on Canvas. cm 120x80.
Sostiene, alla domanda di Riccardo Staglianò, il filosofo Diego Fusaro in una interessantissima intervista concessa e pubblicata sul settimanale “il Venerdì” del quotidiano la Repubblica del 30 di gennaio ultimo, intervista che ha per titolo “L’Italia triste senza più vere passioni”: Uno degli ultimi focolai di protesta globale è stato Occupy Wall Street. Era sulla buona strada? «Sì, perché ha messo a fuoco che il problema non era destra o sinistra, ma il capitale finanziario. (…). La realtà non è un solido cristallo ma l’esito di una prassi storica costantemente trasformabile. Insegnava Fortini: tutto è tremendo, ma non ancora irrimediabile. Ecco, chi dice il contrario fa soltanto ideologia». Giustappunto. In un lontano post del 20 di ottobre dell’anno 2011 azzardavo un commento a quanto Massimo Fini andava scrivendo su “il Fatto Quotidiano” del 15 di ottobre di quell’anno in una Sua analisi che aveva per titolo “Deglobalizzare per sopravvivere”. Scriveva allora l’illustre opinionista:
(…). Marxismo e liberismo, destra e sinistra nelle loro varie declinazioni sono in realtà due facce della stessa medaglia: la Modernità. Sono entrambi figli della Rivoluzione industriale, illuministi, ottimisti, positivisti, economicisti, hanno entrambi il mito del lavoro (per Marx è l’essenza del valore, per i liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso plus valore) e si sono illusi che industria e tecnologia avrebbero prodotto una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o quantomeno la maggior parte di essi (i liberisti). Questa utopia bifronte è fallita. Io vedo marxismo e capitalismo come due arcate di un ponte che si sono sostenute a vicenda per due secoli e mezzo. Il crollo del marxismo prelude quindi a quello del capitalismo il cui sgretolamento sta avvenendo sotto i nostri occhi e alla cui fine ci aspetta una catastrofe planetaria. Ma gli stanchi epigoni del capitalismo e di quel che resta del marxismo non sono in grado di mettere in discussione radicale la Modernità, perché categorie di destra e di sinistra della Modernità sono nate, nella Modernità si sono affermate, e quindi non possono recidere le proprie radici anche se tutti vedono che sono già marce e che, se non si cambia rapidamente direzione, l’albero cadrà da solo. Allora provai, in un virtuale confronto, a replicare all’illustre Autore sostenendo di essere un estimatore del Fini sottile pensatore e disquisitore eccelso. Ne leggo sempre con grande interesse i Suoi sempre pregevoli scritti. Ma non sempre tutte le famose ciambelle vengono col buco. Dire in questa Sua coraggiosa analisi di vedere “marxismo e capitalismo come due arcate di un ponte che si sono sostenute a vicenda per due secoli e mezzo” mi pare una evidente esagerazione. Che il nostro lo abbia detto per scandalizzare e così innescare un infinito inutile parlottare? Lo escludo, ma mi sono posto anche questo risvolto della faccenda. Ed allora? Come non vedere, invece, nelle idee dell’Uomo di Treviri il giusto contrappunto, la contrapposizione di classe, al capitalismo di fine secolo diciottesimo e del successivo secolo decimonono? La letteratura del tempo ce ne ha dato ampi assaggi. Come non pensare alle figure di umanità offesa e resa derelitta dallo sfruttamento più selvaggio del nascente capitalismo industriale che ci ha tramandato il grande Charles John Huffam Dickens? C’è stata tutta una fioritura nelle lettere che incontrovertibilmente ci hanno consegnato una “disumanità” piena di quel capitalismo che non ammette oggigiorno alcun ripensamento ed alcuna retromarcia. La condanna di quel capitalismo è tutta scritta nella Storia. Così come mi pare azzardata ed a-storica l’affermazione del nostro secondo la quale il marxismo avrebbe creato l’illusione che “industria e tecnologia avrebbero prodotto una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o quantomeno la maggior parte di essi (i liberisti)”. La felicità degli esseri umani non la si realizza e non la si conquista con la produzione e la distribuzione industriale di manufatti, ma con la piena realizzazione dei valori della persona, quali la solidarietà, la fratellanza, l’equità. Termini che non sono propri del capitalismo in quanto tale. Se esiste, ed esiste, un responsabile primo di quell’illusoria felicità, esso lo si può rintracciare in quel dickensiano capitalismo industriale prima ancora che nel capitalismo finanziario odierno, che rappresenta oggigiorno la sua deriva storica e, forse, il suo fallimento storico. Del resto, al tempo dell’Uomo di Treviri non si poneva alcun problema ambientale – ma come non ricordare, comunque, l’allarmante storiella della falena Biston betulariané tanto meno si erano rivenute quelle idee che hanno fatto parlare dei cosiddetti “limiti dello sviluppo”, limiti ben tracciati nel celeberrimo volume di Donella Meadows “The Limits to Growth” (1972) – che in una traduzione più letterale sta come i “limiti alla crescita”. La “crescita”, per l’appunto. Ché è tutto uno stracciarsi le vesti al solo pensiero che essa, la “crescita”, ritardi ad apparire all’orizzonte di un Occidente opulento, possessore geloso delle sue ricchezze, dissipatore impenitente e gozzovigliante nello sfacelo inevitabile dell’ambiente e delle sue risorse. Che dire poi dello “spettro” individuato nella “modernità” dal Fini quale causa dei nostri mali? Non riesco a stargli dietro. Impossibile perorare una anti-modernità che ricaccerebbe tutti nella “caverna” della storia senza tempo. Non mi sento di seguirlo sulla strada di un “depauperamento” sociale che sarebbe a solo svantaggio dei più indifesi. Come la Storia insegna da sempre. Come il presente insegna, se pur ce ne fosse bisogno. Il “capitalismo finanziario” non ha alcuna mira o scopo sociale. E su questa deriva il capitalismo tout-court gioca le sue ultime carte. Le violenze dell’oggi sono i sinistri rumori di un malcontento planetario che abbraccia società avanzate, paesi emergenti ed i “paria” di sempre, il terzo ed il quarto mondo della fame. È quanto scrivevo in quel lontano 20 di ottobre. A quattro anni di distanza le situazioni sono sempre di più allarmanti e la divaricazione tra chi ha sempre di più e coloro che faticano a condurre una vita dignitosa si allarga ferocemente. Oggigiorno su scala planetaria. Il superamento di quella contrapposizione – “destra/sinistra” - tanto invisa al Massimo Fini di allora, auspicato soprattutto da chi sperava di trarne il massimo dei benefici e non intravisto come colpo micidiale alla propria condizione dai più bisognevoli come prodromo all’esasperazione sociale dell’oggi, ha dato i suoi frutti amari. È quanto sostiene Diego Fusaro in questa straordinaria intervista, che riprendo: (…). Perché considera il platonico mito della caverna ancora così importante? «Perché descrive perfettamente la condizione umana attuale, di prigionieri che non sanno di esserlo. Che scambiano le ombre in cui vivono, il sistema capitalista post 1989 spacciato per unico mondo possibile, con la libertà. Diventando così cultori ignari della propria prigione. La filosofia deve ripartire da qui: contemplare la verità per liberarci dalle catene. È il cuore del pensiero filosofico, dalla verità vi farà liberi dei Vangeli all’uscita dallo stato di minorità di Kant». Cita Bloch quando dice che pensare significa oltrepassare, spostarci mentalmente in avanti, verso un luogo da cui sia possibile vedere i limiti dell’oggi. A giudicare dall’immobilismo che ci affligge, abbiamo smesso di farlo? «Preferiamo calcolare. Il calcolo registra il presente, mentre il sapere filosofico può mettere in luce le sue contraddizioni, programmando futuri alternativi. La critica glaciale del presente può farci vedere che al suo interno esistono mondi migliori e più giusti, sebbene l’ideologia dominante dopo la caduta del Muro lo neghi». Perché l’89, anche come capacità di immaginare il futuro, è uno spartiacque? «Perché dopo il crollo (…) una sconfitta specifica viene trasfigurata nella sconfitta assoluta di cambiare l’ordine esistente. Ogni tentativo di porre rimedio alle contraddizioni macroscopiche del capitalismo viene demonizzato come votato allo scacco. L’utopia viene sempre disegnata a braccetto con la violenza. È falso, ma a forza di ripeterlo diventa il pensiero dominante». Rispetto alle varie definizioni di società (…) lei propone l’attributo “livida”. Ce lo spiega? «L’ho preso in prestito dal filosofo Enrico Donaggio. Gli individui sono profondamente scontenti per la miseria che avanza, ma sono incapaci di trasformare questo sentimento in una passione politica grande. L’ira attuale potrebbe giustificare 20 rivoluzioni russe e 15 francesi eppure resta intrappolata negli individui. Finché c’è rabbia c’è speranza, mi viene da dire, ma oggi non sappiamo trasformare le passioni tristi di cui siamo in balia». Oggi la rabbia è polverizzata, magari contro lo straniero. È un diversivo? «Certo. La strategia del capitale è sempre stata: dividi e comanda. Invece di lottare insieme contro il capitale i disoccupati finiscono per lottare tra loro. Senza accorgersi che la vera minaccia non viene dall’altra sponda del Mediterraneo quanto dall’altra sponda dell’Atlantico, intesa come ideologia del consumismo totale. Vedo coetanei dei centri sociali che si picchiano con quelli di Casa Pound mentre la finanza si frega le mani. Come i capponi di Renzo che si beccavano a vicenda». Parlando di lavoro, perché il «tempo determinato» è la madre di tutti i mali? «Rappresenta bene lo spirito del tempo. Le nuove generazioni, senza garanzie e stabilità, sono meglio asservite. Oranti (la radice di precario è prex, preghiera) che dipendono dalla volontà di chi dà loro lavoro. Il divieto di licenziamento senza giusta causa, di cui molto si parla, viene comodamente aggirato attraverso il non rinnovo. Il vecchio proletariato, che poteva lottare per le proprie ragioni, si è dissolto nel precariato indifeso». Eppure segnala una contraddizione: «Nella società più disuguale di sempre, ogni pancia vuota dovrebbe costituire un argomento, se non a favore del comunismo, comunque contro il mos oecono- micus egemonico». E invece... «Niente ritorno di fiamma rossa. Le vittime difendono il sistema perché è crollato il senso di una possibile alternativa. Il capitalismo è un totalitarismo così seducente da convincere gli esclusi a lottare per l’inclusione. Gli ultimi farebbero di tutto per un iPhone». (…). In pratica però non ho capito cosa immagina... «Il comunismo ha sacrificato l’individuo sull’altare della comunità. Il capitalismo sacrifica la comunità per l’individualismo selvaggio. Ma l’individuo può pienamente realizzare se stesso solo tra individui ugualmente liberi, che mantengono la loro lingua e cultura e non vengono visti come nemici. Questo scenario lo chiamo comunitarismo cosmopolitico». (…).

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