"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 14 maggio 2012

Capitalismoedemocrazia. 22 La democrazia che non c’è.


Ha scritto Eugenio Scalfari nel Suo editoriale Il ritratto di un paese tra Padania e Wall Street, pubblicato sul quotidiano La Repubblica dell’8 di aprile 2012: (…). La globalizzazione non è un incidente di percorso. I suoi aspetti negativi (e ce ne sono) possono essere evitati o almeno contenuti solo avendone capito bene la natura. La sua intima essenza è quella dei vasi comunicanti. (…). Adesso è una realtà e significa: libertà di movimento di merci, capitali, persone e tendenza a pareggiare i dislivelli. Sicché i redditi dei Paesi di antica opulenza dovranno cedere una parte del loro benessere ai paesi di antica povertà. Con tutte le implicazioni sociali (e fiscali) che ciò comporta poiché il sistema dei vasi comunicanti vale - deve valere - anche all'interno dei Paesi di antica opulenza dove il principio delle pari opportunità per i ricchi e per i poveri deve essere realizzato con la massima energia e tempestività. (…). Ben detto, “avendone capito bene la natura”. E l’uomo della strada ne ha “capito bene la natura”? Ne dubito. Ecco perché sostengo che la democrazia nell’Occidente è fallita. Sostiene – alle pagine 38 e 39 - il professor Paul Ginsborg  nel Suo lavoro “La democrazia che non c’è” – Einaudi editore (2006) pagg. 152 € 8,00 -: (…). Il capitalismo del consumo ha avuto forte impatto sulla natura delle nostre democrazie: la celebrazione della vita domestica, dei modelli improntati al “lavora e spendi” che rendono le nostre società ricche in termini di comfort, ma povere in termini di tempo disponibile, l’autoreferenzialità dell’individuo e della famiglia, l’aumento delle ore passate davanti al video e la dipendenza dalla televisione si sono combinati a produrre una straordinaria passività e disinteresse per la politica. (…). In questo processo ha avuto un ruolo particolare la televisione e, in special modo, la televisione commerciale. La sua logica ferrea impone che la programmazione sia sempre tesa a massimizzare le dimensioni dell’audience, così che gli spettatori sono considerati in primo luogo membri del mercato, non cittadini. Questa scelta fondamentale determina poi tutto il resto: le pubblicità che invitano al consumo invadono ogni spazio di tempo e i programmi sono innanzitutto pensati come intrattenimento, non informazione o istruzione, soprattutto nelle fasce di massimo ascolto. È stato stabilito un modello culturale molto forte in cui la politica democratica ha poco spazio. Ove sopravvive la politica è diventata politica mediatica e della personalità, da vedere più che da vivere. (…). Tutto ciò scritto prima della grande “crisi”. Quell’utente-consumatore infaticabile ha nel frattempo perso anche il miraggio del consumo per il consumo. Intanto la politica si è svuotata dal suo interno della democrazia vissuta e partecipata attraverso le tradizionali forme di partecipazione. È il grande miracolo del mercato che, come un moderno conte Ugolino, divora i suoi figli prediletti, gli utenti-consumatori resi passivi e senza slanci che siano, senza idealità se non un accumulare spropositato di beni e di inutilità rese necessarie. È il trionfo della “democrazia che non c’è”. Un trionfo cieco ed illusorio. Ma senza una democrazia che sia vera, partecipata, non si esce dalla “crisi” indotta dalla finanziarizzazione selvaggia del capitalismo. Ne ha scritto Nadia Urbinati sul quotidiano l’Unità col titolo “La politica può rinascere se combatte con le idee il dominio della finanza”. E del capitalismo dell’usa e gatta a volontà. Di seguito lo trascrivo in parte.

(…). La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche in cui le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso. (…). Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché, invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione (...). L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole (...). A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (…), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione? (…). Un (…) cambiamento (…) è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentrazione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla. La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. (…). …la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica (...). (…). Sono (…) due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i Paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica (...). (…). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda «chi» vota, ma «dove» si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, (…), come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità? La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun Paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. (…). Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. (…).

Nessun commento:

Posta un commento