Ha scritto Eugenio Scalfari nel
Suo editoriale Il ritratto di un paese
tra Padania e Wall Street, pubblicato sul quotidiano La Repubblica dell’8
di aprile 2012: (…). La globalizzazione non è un incidente di percorso. I suoi aspetti
negativi (e ce ne sono) possono essere evitati o almeno contenuti solo avendone
capito bene la natura. La sua intima essenza è quella dei vasi comunicanti. (…).
Adesso è una realtà e significa: libertà di movimento di merci, capitali,
persone e tendenza a pareggiare i dislivelli. Sicché i redditi dei Paesi di
antica opulenza dovranno cedere una parte del loro benessere ai paesi di antica
povertà. Con tutte le implicazioni sociali (e fiscali) che ciò comporta poiché
il sistema dei vasi comunicanti vale - deve valere - anche all'interno dei
Paesi di antica opulenza dove il principio delle pari opportunità per i ricchi
e per i poveri deve essere realizzato con la massima energia e tempestività.
(…). Ben detto, “avendone capito bene la natura”. E
l’uomo della strada ne ha “capito bene la natura”? Ne dubito.
Ecco perché sostengo che la democrazia nell’Occidente è fallita. Sostiene –
alle pagine 38 e 39 - il professor Paul Ginsborg nel Suo lavoro “La democrazia che non c’è” – Einaudi editore (2006) pagg. 152 €
8,00 -: (…). Il capitalismo del consumo ha avuto forte impatto sulla natura
delle nostre democrazie: la celebrazione della vita domestica, dei modelli
improntati al “lavora e spendi” che rendono le nostre società ricche in termini
di comfort, ma povere in termini di tempo disponibile, l’autoreferenzialità
dell’individuo e della famiglia, l’aumento delle ore passate davanti al video e
la dipendenza dalla televisione si sono combinati a produrre una straordinaria
passività e disinteresse per la politica. (…). In questo processo ha avuto un
ruolo particolare la televisione e, in special modo, la televisione
commerciale. La sua logica ferrea impone che la programmazione sia sempre tesa
a massimizzare le dimensioni dell’audience, così che gli spettatori sono
considerati in primo luogo membri del mercato, non cittadini. Questa scelta
fondamentale determina poi tutto il resto: le pubblicità che invitano al
consumo invadono ogni spazio di tempo e i programmi sono innanzitutto pensati
come intrattenimento, non informazione o istruzione, soprattutto nelle fasce di
massimo ascolto. È stato stabilito un modello culturale molto forte in cui la
politica democratica ha poco spazio. Ove sopravvive la politica è diventata
politica mediatica e della personalità, da vedere più che da vivere. (…). Tutto
ciò scritto prima della grande “crisi”. Quell’utente-consumatore
infaticabile ha nel frattempo perso anche il miraggio del consumo per il
consumo. Intanto la politica si è svuotata dal suo interno della democrazia
vissuta e partecipata attraverso le tradizionali forme di partecipazione. È il
grande miracolo del mercato che, come un moderno conte Ugolino, divora i suoi
figli prediletti, gli utenti-consumatori resi passivi e senza slanci che siano,
senza idealità se non un accumulare spropositato di beni e di inutilità rese
necessarie. È il trionfo della “democrazia che non c’è”. Un trionfo
cieco ed illusorio. Ma senza una democrazia che sia vera, partecipata, non si
esce dalla “crisi” indotta dalla finanziarizzazione selvaggia del
capitalismo. Ne ha scritto Nadia Urbinati sul quotidiano l’Unità col titolo “La politica può rinascere se combatte con
le idee il dominio della finanza”. E del capitalismo dell’usa e gatta a
volontà. Di seguito lo trascrivo in parte.
(…). La combinazione di
capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati
di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha
accettato istituzioni politiche in cui le decisioni prese a maggioranza erano
l’aggregato di voti di uguale peso. (…). Il compromesso consistette
nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché, invece di assistere i
poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o
promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento
anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle
politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò
l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione (...). L’esito del
compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri
diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la
loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva
il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più
importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio
binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale
delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale.
L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche dal lavoro ai beni
sociali e primari ai sevizi fu dominata dalle relazioni delle forze politiche.
I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere
rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole (...).
A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti
dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento
imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso
corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione
dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (…),
l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione
nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella
sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a
tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale
direzione? (…). Un (…) cambiamento (…) è quello che si sta profilando a chiare
lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non
la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti:
ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione
dei partiti in macchine elettorali e la concentrazione dei mezzi di
informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della
democrazia pur senza sospenderla. La democrazia che aveva siglato il compromesso
con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le
relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere
decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava
in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere
l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica
arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del
lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età
pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della
politica. (…). …la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge,
il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della
sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza
della politica (...). (…). Sono (…) due le sfide più impegnative. La prima è
quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme
allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse
conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di
mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i Paesi occidentali e che
trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza
impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta
regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È
quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica (...). (…). Diceva
Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla
domanda «chi» vota, ma «dove» si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione
pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come
si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non
devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, (…), come si deve
attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua
richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità? La seconda sfida,
conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle
sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun Paese da solo può pensare
di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che
nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare
politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri
governi. (…). Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto
e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi
e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che
aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può
essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non
tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso
nel processo decisionale. (…).
Nessun commento:
Posta un commento