C’è un che di irrisolto nel mio “essere”
che mi spinge a pormi di continuo domande su domande, in un rincorrersi di
domande che si avviluppano senza riuscire a trovare una via che sia di risposta
plausibile, accettabile. È così anche in questo frangente della vita personale
e collettiva assieme; mi domando, e sembra essersi trasformata in una
ossessione, se la rincorsa alla “crescita” abbia e possa avere un
senso ancora. È quel porsi di continuo la domanda se la “crescita” debba
comportare una revisione dei comportamenti personali e collettivi in fatto di
consumi alla vecchia maniera, con un impatto sempre più devastante sulla
biosfera, ovvero se se ne debba uscire, dalla “crisi”, per il qual
motivo la “crescita” si implora, con una visone nuova e completamente
diversa come soggetti responsabili soprattutto nei confronti delle generazioni
a venire. Ha scritto Giacomo Papi nella Sua consueta rubrica sul settimanale
“D” del quotidiano la Repubblica, in un pezzo che ha per titolo “Il settimo giorno”: (…).
…il lavoro, oggi, è soltanto una metà - spesso, addirittura, meno della metà -
di quello che la società pretende da uomini e donne. Il lavoro, oggi, cioè, è
soltanto la metà del nostro lavoro. L'altro è il consumo. Non può esistere
liberazione, pausa, riposo se per almeno un giorno all'anno non ci si
interrompe, non soltanto il lavoro, ma anche l'acquisto. Senza che nessuno ce
lo spiegasse l'atto magico della creazione è transitato dal lavoro al consumo.
Nel Novecento, l'atto del comprare ha incominciato a creare il mondo. Comprare
una cosa equivale, a livello simbolico profondo, a crearla. In questo senso, il
consumo è il nostro vero lavoro. Lo ha sostituito come azione che fa emergere
le cose dal nulla. È questo il senso oscuro della parafrasi della Genesi di
Gafyn Llawgoch, l'anarchico gallese. Del tutto identica all'originale, se non
fosse per qualche sparsa, blasfema, parola: "Dio comprò l'uomo a sua
immagine; a immagine di Dio lo comprò; maschio e femmina li comprò. Dio li
benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la
terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e
su ogni essere vivente, che striscia sulla terra". (...) Dio benedisse il
settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che
egli comprando aveva creato". È questo scenario che andrebbe rifiutato,
cambiato. Con quali e quante probabilità di riuscita? Prova a definire i
contorni di uno scenario nuovo post-“crisi” il filosofo e sociologo
Edgar Morin in una intervista rilasciata a Fabio Gambaro e pubblicata sul
settimanale “Il Venerdì” col titolo “La
via di Edgar Morin per salvare un mondo che va troppo in fretta”,
intervista che di seguito trascrivo in parte.
"Ciò che si profila come probabile
- vale dire la crisi ecologica, economica, politica e sociale del mondo in cui
viviamo - mi spinge a essere pessimista. L'improbabile è però sempre possibile.
Quindi resto ottimista e continuo a credere che si debba e si possa trovare una
strada per evitare di finire nel baratro". (…). "Di fronte a un
realtà stravolta da un'economia senza regole che distrugge il Pianeta e la
società, non basta più indignarsi. (…). Occorre provare a tracciare un percorso
al contempo utopico e realistico per invertire la tendenza. (…). All'origine
dei grandi cambiamenti ci sono sempre delle singole azioni. Quello che occorre
è la coscienza della crisi e la volontà politica del cambiamento. Se c'è tale
volontà, allora si trovano i mezzi necessari per evitare la catastrofe".
Nel libro (“La via. Per
l’avvenire dell’umanità” Raffaello Cortina Editore pagg. 297 € 26,00 n.d.r.) lei
critica l'idea di sviluppo. Perché? "La mondializzazione porta in sé
l'occidentalizzazione e il mito dello sviluppo fondato sull'idea di una crescita
infinita. È un mito che ci porta dritti contro un muro. Non possiamo continuare
a riempire il Pianeta di automobili, di centrali e di megalopoli. Questo
modello di sviluppo - figlio di un liberalismo economico senza regole, tutto
teso a produrre e a consumare sempre di più - comporta conseguenze disastrose
per la biosfera e le risorse naturali. Oggi, si parla molto di sviluppo
sostenibile, che però mi sembra solo una mezza misura. In realtà, occorre
affrontare e spaccare il nocciolo duro, tecno-economico, del concetto
tradizionale di sviluppo, per salvarne solo alcuni elementi da mettere al
servizio di un altro modello di sviluppo umano. È un problema urgente che
riguarda tutti".
È per questa ragione che parla di
Terra-patria? "L'aspetto positivo della mondializzazione è che ormai c'è
una comunità di destino di tutti gli esseri umani, ovunque essi si trovino.
Siamo tutti di fronte agli stessi problemi fondamentali e alle stesse minacce
mortali, sul piano ecologico, climatico, sociale, nucleare, ecc. Una patria è
una comunità di destini, quindi la Terra è la patria comune che dobbiamo
cercare di salvare in una situazione dove sembra non esserci più futuro e
quindi prevalgono l'incertezza, la paura e le logiche regressive. In passato si
pensava che la storia fosse guidata dalla legge del progresso. Le crisi del XX
secolo hanno spazzato questa illusione".
Che cosa fare allora? "Al
sistema terrestre minacciato da tutte le parti resta solo la via della
metamorfosi. In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri
problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è
capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla.
L'idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata
altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel
Medioevo".
La metamorfosi è però
un'operazione complessa e delicata... "Per salvarsi occorre avere un
approccio dialettico, nel tentativo di tenere insieme idee che sulla carta si
oppongono. Non credo alla rivoluzione che fa tabula rasa del passato,
producendo spesso realtà peggiori di quelle che ha voluto trasformare. Al
contrario, abbiamo bisogno di tutte le riforme culturali della storia
dell'umanità per trasformare e trasformarci. Per questo è necessario conservare
tutti gli aspetti positivi della mondializzazione, che per me contiene il
meglio e il peggio. Insomma, occorre al contempo mondializzare e
de-mondializzare a seconda degli ambiti, favorire la crescita ma talvolta la
decrescita, tenere conto dello sviluppo ma anche dell'inviluppo, della
trasformazione come della conservazione. Questa strategia complessa ci consente
di conservare la speranza, che naturalmente non è una certezza. Anzi, visto il
contesto, la speranza è perfino improbabile. La storia però ci insegna che a
volte l'improbabile è riuscito a prendere il sopravvento".
La scienza ha un compito
privilegiato in questo processo? "Anche la scienza è ambivalente, dato che
porta in sé minacce e speranze. La scienza moderna si è sviluppata nel XVII e
XVIII secolo, liberandosi da ogni controllo morale e politico. Si è così
garantita libertà di ricerca e autonomia. C'è stato un periodo in cui la
scienza, la tecnica, la ragione, la giustizia, la democrazia e l'uguaglianza
avanzavano assieme. Oggi non è più così. La scienza si sviluppa a una velocità
senza precedenti, che non lascia il tempo alla società di elaborare un pensiero
capace di accompagnarla. La scienza si occupa dei fatti e non dei valori, ma il
suo potere sulle nostre vite è diventato enorme, senza dimenticare che spesso
essa è pesantemente condizionata dalla ricerca del profitto a ogni costo. È
dunque necessario reintrodurre una riflessione etica che ne regoli gli
eccessi".
Nel libro lei propone diverse
riforme concrete. Con quali priorità? "Tutte le riforme devono cominciare
contemporaneamente, perché sono tutte collegate tra loro. Le riforme della
scienza, della conoscenza e dell'educazione sono però prioritarie perché
fondamentali. In ambito scientifico, ma non solo, abbiamo bisogno di un
approccio interdisciplinare, per non perdere di vista la visione d'insieme.
Quando le conoscenze sono troppo specialistiche, frammentarie e prive di
collegamenti si rischia di produrre una nuovo tipo di accecamento. Ma
naturalmente, per salvare l'umanità, occorre lanciare al contempo anche le
altre riforme, quelle che riguardano la società e il nostro modo di vivere, la
nostra relazione con le risorse e la biodiversità, come pure il nostro modo di
produrre e consumare, di costruire le città e di spostarci. Ci sono solo due
modi per uscire da una crisi. La regressione che torna al passato oppure la
creatività che, con un grande sforzo d'immaginazione, inventa soluzioni
inedite. Io ho scelto da tempo questa seconda possibilità".
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