A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
Il comico della politica
è un originale lavoro del professore Michele Prospero – editore Ediesse (2010)
pagg. 272 € 15,00 – che insegna Scienza politica e filosofia del diritto nella
facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma.
Il titolo dell’interessante lavoro potrebbe trarre in inganno: cosa ha inteso
dire l’illustre Autore? Ha forse voluto dire che anche la politica, al pari di
tutte le altre attività dell’intelletto umano, che è poi l’arte propria ed
esclusiva di alcuni esseri viventi resi umani, ha un che di comico nel suo
svolgersi e nel suo divenire? O, più maliziosamente, che l’illustre Autore non
abbia voluto alludere ad un seguace della musa Talia inopinatamente assurto al
ruolo di politico destinato a reggere le sorti della cosa pubblica? Solamente
la lettura del sottotitolo del volume – “Nichilismo e aziendalismo nella
comunicazione di Silvio Berlusconi” – riesce a diradare la nebbia che
l’Autore, forse volutamente o forse no, ha voluto diffondere attorno al Suo
pregevole lavoro. Il comico della politica è per l’appunto quel qualcuno che,
abbandonate le tavole sulle quali si vanno rappresentando le facezie e le
cialtronerie della vita umana, disegna per sé stesso un ruolo improprio che lo
proietta in altri ambiti della vita pubblica che non si confanno al suo essere leggero
e burlesco. Talia ne viene imperdonabilmente privata, la politica, in quelle
mani, pericolosamente ridotta a ben poca cosa. Ad una qualsivoglia oscenità. Scrive
il professor Prospero alle pagine 15 e 16 del Suo lavoro pregevole: “Quando
svaniscono le grandi soggettività sociali, la politica entra in una condizione
di campagna elettorale permanente, rivolta al consumatore inerte di spot
affamato di narrazioni fabbricate con le arti del marketing. Sembrano d’un
tratto vacillare le tradizionali raccomandazioni per definire un più accorto
ordine del discorso. Trionfa un discorso unico (spesso un autentico
antidiscorso) che in qualsiasi occasione si indirizza all’arte della
persuasione seduttiva che non tollera distinzioni di registri, che non calibra
le corde dell’oratore a seconda delle circostanze. Si nota, per via di questo
avvento dell’ascoltatore universale o perdita di un destinatario specifico, un
inopinato ma drastico abbassamento dei livelli qualitativi del discorso. Lo
aveva peraltro segnalato già Aristotele: l’estensione dell’uditorio determina
l’adozione di incolori luoghi comuni e sollecita la contrazione del livello
referenziale vantato dal discorso calibrato con luoghi specifici e figure
pertinenti. Ovunque, nei tempi della comunicazione ubiquitaria, si ricorre allo
stesso (cattivo, spesso) linguaggio colorito nelle espressioni scialbo nel
pensiero. (…).”. Così, come dire, al tempo di chi venne definito
l’egoarca di Arcore. Gli sopravvive, nell’avanspettacolo della politica del bel
paese, un altro mancato seguace di Talia, che esterna in ogni luogo, a tutte
l’ore, a giugulari esplodenti, sempre con gli stessi registri vocali e di
pensiero, in un indistinto generale ed auto-assolutorio intrigante per i più, affiancando
al suo mantra del “così fan tutti”, l’altro del “son tutti uguali” per
dire infine, senza vergogna alcuna, della umanità della “mafia” in confronto alla
disumanità di quelle indistinte figure che popolano il mondo confuso del
mercato globale. Di un mercato, dello spettacolo, al quale pur egli appartiene.
E dopo le ultime esternazioni di quel “comico della politica” sottratto a
Talia e prestato alla politica, esternazioni definite “cazzate” da un altro più
che coerente seguace di Talia, sono andato alla ricerca affannosa, tra i miei
tantissimi ritagli di giornali amorevolmente conservati, di un “pezzo”
a firma del giornalista e scrittore
Claudio Fava – lui sì che potrebbe testimoniare della umanità della “mafia”
- che ebbe il papà Giuseppe trucidato dalla mafia il 5 di gennaio dell’anno
1984. Titolo del “pezzo”, pubblicato sul quotidiano l’Unità del 21 di maggio
dell’anno 2011: “Il gattopardo a cinque
stelle”. Di seguito lo trascrivo in parte.
“Ci sono solo due politici in
Italia, con un passato di brillanti intrattenitori (l’uno di piazze, l’altro di
croceristi) che pensano di dover esercitare il mestiere della politica in
perfetta, onnipotente solitudine, senza mai incrociare le parole e la faccia
con un avversario: sono Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Dei quali non si
ricorda, negli ultimi dieci anni, un solo pubblico confronto (tv, teatro,
strada) con qualcuno che non la pensi come loro. (…). È un peccato che Grillo
si sia smarrito in questo delirio d’onnipotenza, unto anch’egli dal Signore,
dalle piazze e da minime, presunte, scontate verità: tutti uguali i politici,
tutti indegni, tutti vecchi. Me lo sono sentito ripetere per trent’anni, in
Sicilia, a ogni tornata elettorale quando in lista c’erano i notabili da
centomila preferenze, quelli che piazzavano i famigli negli assessorati e
facevano carte false per gli amici di Cosa Nostra, quelli che si mangiavano la
politica e la vita degli altri senza nemmeno chiedere permesso, quelli che ti
organizzavano cento varianti ai piani regolatori per i cento terreni degli
amici che bisognava benedire. Quelli. E quando tu dicevi, avanti, proviamo a
mandarli a casa, proviamo a riprenderci questa terra maledetta, proviamo a dire
le cose che pensiamo, a trovarne uno onesto, a tenere la schiena dritta,
proviamoci per una volta… ecco, ce n’erano tanti, come Grillo, che ti facevano
una carezza in testa e ti spiegavano che tanto è tutta la stessa merda, la
stessa pasta, lo stesso inciucio, destra e sinistra, Cuffaro e Borsellino,
Pisapia e Moratti, De Magistris e Cosentino, e allora tanto vale turarsi il
naso e stare dalla parte dei peggiori che almeno sono i più forti, sono furbi
antichi e impuniti, e se promettono cose sfacciate poi le mantengono. Io non lo
so se Grillo pensi di essere davvero l’unico capace di buon senso. (…). Non lo
so, non ancora, se questo signore c’è o ci fa. Ma ogni giorno che passa, ogni
strepito suo che m’arriva, mi mette sempre più tristezza.”
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