Quando mai lo Stato va alle feste
dei partiti politici? È una cosa impensabile in qualsiasi Paese democratico
occidentale. Alla festa di un partito, in questo caso il partito
all’opposizione (Pd), eventualmente, se invitato (il che negli altri Paesi
accade raramente), ci può andare il primo ministro del partito al governo, non
certo lo Stato. Il grossolano e inquietante equivoco (se di equivoco si tratta)
è dunque prima di tutto l’invito di un partito politico, il Pd (nella persona
dell’onorevole Fassino) che chiama lo Stato (nella persona del senatore
Schifani) alla propria festa annuale facendo credere ai cittadini che sta
invitando il rappresentante del partito avversario per “dialogare” con lui. Ma
è altrettanto inquietante che lo Stato (nella persona del senatore Schifani)
accetti come se egli fosse ancora un rappresentante del partito di governo che
andando alla festa per discutere con l’onorevole Fassino ricambia il fair play
del partito avversario. Ma il senatore Schifani non rappresenta il Partito
della libertà di Silvio Berlusconi, è lo Stato; e accettando l’invito così
equivocamente offertogli diventa portatore di un enorme conflitto di interessi
istituzionale, perché lascia intendere di essere effettivamente l’avversario.
Ora lo Stato italiano (nella persona del sen. Schifani) non può essere l’“avversario”
di nessun partito politico rappresentato in Parlamento, tantomeno quello di cui
è esponente l’onorevole Fassino. Il rappresentante dello Stato e il deputato di
un qualsiasi partito non hanno niente da dirsi e niente da discutere in
pubblico, né nelle piazze italiane, né in televisione. L’unico luogo loro
consentito è il Parlamento. In quella sede l’onorevole Fassino può fare al
rappresentante dello Stato tutte le domande e magari tutte le interpellanze che
desidera; solo in quella sede può dire allo Stato (nella persona del senatore
Schifani) le parole che desidera (affettuose o severe, questo è un problema
suo). È vero che il conflitto di interessi che Berlusconi con la sua persona ha
introdotto in Italia si è ormai esteso per contagio. Di un parlamentare non sai
più se è un deputato o un affarista, un onorevole o un banchiere, un portavoce
politico o un faccendiere, un imputato o un avvocato difensore, un esponente
dell’antimafia o un difensore dei mafiosi. Molti di loro ormai sono tre o
quattro persone allo stesso tempo. Ed è anche vero che l’equivoco (continuo a
chiamarlo così) provocato dall’onorevole Fassino nel proporsi quale
interlocutore festaiolo con lo Stato, rivela una stupefacente misconoscenza
delle più elementari regole istituzionali, facendoci domandare cosa costui ci
faccia in Parlamento da una vita. Ma nel caso dell’invito siamo al di là della
mancanza di una basica grammatica democratica, si è raggiunto qualcosa di
preoccupante. (…). Ma quello che è più preoccupante in questa equivoca vicenda
è l’intervento del presidente della Repubblica. Invece di far notare alla
seconda carica dello Stato che lo Stato non può andare a chiacchierare con chicchessia
a feste o sagre di paese, redarguisce aspramente la piazza perché ha mostrato
il suo dissenso. È imbarazzante dover ricordare che lo Stato andava alle feste
di partito negli ex Paesi comunisti perché lo Stato e il partito erano la stessa cosa. Oggi il colonnello Gheddafi,
che è lo Stato libico, partecipa alle feste di partito, perché quel partito
coincide con lo Stato libico; e in quelle piazze, è sicuro, non è contestato da
nessuno. Ma l’Italia (e l’Europa) non è l’ex Germania dell’Est o l’ex Ungheria.
E non è ancora la Libia. Se lo Stato italiano va in piazza a chiacchierare con
i politici, i cittadini possono risentirsi; è nel loro diritto. Del resto mi
risulta che il senatore Schifani non sia stato fischiato perché amico di
Berlusconi, ma perché rappresentante dello Stato, e la frase utilizzata era
“fuori la mafia dallo Stato”. Frase per altro plausibile, essendo noto anche ai
bambini che la mafia nello Stato, nel caso che attualmente non ci fosse, non si
esclude che ci sia stata più di una volta, come non si esclude che lo Stato
abbia stipulato con essa patti nefandi. Se ne sta occupando la magistratura,
perché se gli italiani aspettano che la verità della nostra tragica storia
venga dalla bocca dei politici, si possono mettere l’animo in pace. (…). Certo
ci sono luoghi e momenti in cui lo Stato sarebbe opportunamente presente o
addirittura ben visto nelle piazze italiane: all’anniversario dell’assassinio
del giudice Borsellino, all’anniversario della strage alla stazione di Bologna,
all’anniversario della strage di Piazza della Loggia di Brescia. Ma lì lo Stato
non si vede. Questo stato confusionale in cui lo Stato italiano si trova ci
induce a credere che più di una crisi della democrazia, di cui molto si parla,
si tratti di una crisi delle istituzioni e dello stesso Stato. E mi pare
possibile che un Paese in uno stato simile sia disponibile a qualsiasi avventura
e a qualsiasi salto nel buio. (…). La luce è al minimo, e a qualcuno potrebbe
venir voglia di spegnere l’interruttore. “Doveravatetutti” è un
richiamo costante alla memoria di ciò che è stato, quando distrattamente si
pensava e si faceva dell’altro. La distrazione colpevole dei tanti. In questo “doveravatetutti”,
che avete appena letto e che risale all’8 di settembre dell’anno 2010, il compianto
Antonio Tabucchi scriveva della allora – come lo è tuttora - seconda carica
dello Stato. Titolo del Suo pezzo: “Se
lo Stato è Schifani” – su “il Fatto Quotidiano” - , che ho ripreso in parte. Sulla insensibilità “istituzionale”
del nostro non si hanno dubbi; ne ha scritto sul quotidiano l’Unità Emanuele
Macaluso col titolo “La Costituzione
secondo Schifani” - a seguito della boutade del signor B - in questi
termini: Il Corriere, con un gran titolo, ci informa che il presidente del
Senato Renato Schifani «ritiene ammissibile presentare in aula il
semipresidenzialismo alla francese proposto dal Pdl attraverso un emendamento
alla riforma Costituzionale già all'esame di Palazzo Madama». Quindi, secondo
Schifani, basta un emendamento per cambiare la Repubblica parlamentare in
Repubblica semipresidenziale . I costituenti che discussero il tema lavorarono
mesi. Fra loro c'erano Costantino Mortati, Giorgio La Pira, Palmiro Togliatti,
Aldo Moro, Vezio Crisafulli, Bozzi, Petrassi, Dossetti, Calamandrei, Gaspare
Ambrosini, Vittorio Emanuele Orlando, Nitti, Paolo Rossi, Meuccio Ruini. Potrei
continuare ad elencare i grandi costituzionalisti e uomini politici che
affrontarono con competenza e rigore l'assetto politico-costituzionale da dare
allo Stato. E lo fecero con coerenza, per cui ciò che segue alla scelta del
sistema parlamentare ha una logica spiegazione. Se bisogna cambiare, occorre
cambiare tutto l'assetto dato dai costituenti. E chi può assolvere a questo
compito se non un'assemblea eletta dal popolo con il mandato di rifare la
Costituzione? Invece, dopo una penosa conferenza stampa di Berlusconi e Alfano,
i quali affannati da un tracollo elettorale fanno proposte che serviranno solo
per la prossima campagna elettorale, c'è chi, senza sapere di cosa si parla
(penso a Montezemolo e soci), si mettono in pista per correre dietro il
Cavaliere disarcionato. Ormai non mi stupisco di nulla: l'attuale scena
politica ci offre spettacoli e spettacolini di ogni genere. Ma che il
presidente del Senato comunichi agli italiani che con un emendamento a una
legge in discussione, in una assemblea di nominati, alla scadenza della
legislatura, si possa cambiare la forma della Stato, è enorme. Incredibile, ma
è avvenuto. La confusione è regnata sovrana; la nebbia non si è ancora
diradata. Si brancola. “Doveravatetutti” quando il grande,
compianto Antonio Tabucchi ne scriveva?
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