Ha scritto Marcello De Cecco, con
la consueta chiarezza sul settimanale Affari&Finanza del 23 di aprile 2012,
un pezzo che ha per titolo Il rebus
dell’euro che resiste al dollaro: (…). …la filosofia di fondo della (…) unione
monetaria, (…) consisteva proprio nello zavorrare la nuova moneta con paesi
fiscalmente deboli, in modo da ridurre l’impatto di un euro forte sulla
competitività dell’industria tedesca e degli altri stati clienti della Germania,
quali sono Olanda e Austria. Fin quando tale zavorra è rimasta leggera, cioè
fino allo scoppio della crisi, hanno sopportato questo machiavellismo, degno di
chi lo aveva architettato, Francois Mitterrand, non a caso chiamato dai
francesi "le florentin". Ora che per salvare le loro banche, le
autorità dei paesi periferici dell’euro hanno dovuto sfasciare la finanza
pubblica, i tedeschi e gli altri paesi in surplus hanno smesso di investire i
propri surplus nei paesi periferici, come richiedeva la filosofia predetta, e
si è perduto l’equilibrio virtuoso originario interno all’euro. Ma da questo
non discende che anche gli investitori esterni all’area debbano abbandonare la
moneta europea. È sufficiente che si spostino all’interno dell’area. Se si
trattasse di una moneta nazionale come le altre, bisognerebbe uscire da essa
quando si vende l’investimento. Nel caso dell’euro questo non è vero. Onde la
relativa forza dell’euro e la forte debolezza dei titoli dei paesi periferici.
Se comincerà a cadere anche il cambio, vorrà dire che gli investitori non
europei hanno perso la fiducia nella Germania, o che lo stesso avviene ai
cittadini dei paesi forti della zona euro. (…). Ecco come l’uomo della
strada si addentra, con tanta fatica, nelle alchimie imponderabili della
economia, ovvero del capitalismo che si è reso finanza. Diremmo, e dice bene De
Cecco, i soliti “machiavellismi” assurti a parametri indispensabili della
politica nazionale ed oltre. È stata data in questi giorni la notizia, data in
verità senza molta convinzione e forse solamente con intenti reconditi che
sanno di vecchia nostrana politica, secondo la quale al tempo dell’ingresso del
bel paese nel club dell’euro i conti italiani non fossero per nulla in linea
con i parametri imposti per l’ammissione in quel ristretto club. Ha risposto
alla insinuante notizia il professor Romano Prodi, all’epoca al governo,
affermando come l’ingresso dell’Italia nel club dell’euro non fosse solamente
visto di buon occhio dal resto dell’Europa ma addirittura prima auspicato e poi
sollecitato affinché si rendesse la nuova moneta un tantino meno forte per
consentire alle economie esportatrici solide del Nord Europa la possibilità di
continuare ad esportare con immutato vantaggio rispetto alle monete nazionali
dismesse. Così si costruiscono le politiche monetarie e quant’altro attiene al
mondo del vile denaro. Ma all’uomo della strada nulla giunge di tutto ciò e
come un fuscello rimane in balìa dei famigerati mercati o, nel caso ripreso dal
professor De Cecco, in balìa delle stesse politiche economiche condotte e
sostenute dagli eletti del popolo sovrano, dall’uomo della strada. Ecco perché
continuo a dire di un fallimento della democrazia nelle politiche
dell’Occidente, ovvero di una “democrazia che non c’è” per dirla
tutta secondo Paul Ginsborg. Se tutto nell’economia diviene un azzardo, un
rischio, solo la buona politica potrà ergersi a baluardo di difesa dei più
deboli. Trascrivo di seguito, in parte, una importante riflessione del
professor Giorgio Ruffolo che ha per titolo “Se l’economia diventa una scommessa”, riflessione pubblicata sul
quotidiano l’Unità.
(…). La finanza permette di
“anticipare”, principalmente attraverso il credito, situazioni future:
letteralmente, di speculare. Su queste speculazioni si può scommettere. E la
scommessa, ove si realizzi, può cambiare il corso delle cose “reali”. In altri
termini, come nello specchio di Alice, l’immagine della realtà si rovescia. Ed
è Alice che guarda lo spettatore. Ciò che, nelle condizioni normali,
rappresenta la realtà, finisce per modificarla. Si inserisce allora nella
economia un fattore altamente soggettivo: appunto, la “speculazione” nel senso
peggiorativo. L’economia diventa sempre più dipendente da un futuro
“anticipato” che può comportare forti guadagni realizzati per scommessa. O non
realizzati, nel qual caso si incorre in perdite che si trasferiscono nel
settore “reale” dell’economia. Una economia che dipende dal futuro incide a sua
volta sul futuro. Si realizza così uno “sfruttamento del futuro” che sostituisce
in qualche misura lo sfruttamento del lavoro sul quale si basava
l’accumulazione capitalistica. Concretamente, uno sfruttamento dei posteri.
Cosa che può risultare rischiosa e “moralmente” sgradevole.(…). Questa, della speculazione, è una forma particolarmente
sottile di liquefazione. La liquefazione delle aspettative. Il futuro,
conseguentemente, si fa più incerto. È un futuro dipendente in alto grado da
scommesse. Non è un caso che “i mercati” assumano sembianze quasi
“metafisiche”. (…). …i derivati non derivano il loro valore dalla creazione
“politica” della moneta, ma è la moneta a derivare valore dai derivatives. Un
bell’esempio di liquefazione. Secondo tema: l’aspetto sociale della
liquefazione. Qui emerge, non la speculazione, ma la mercatizzazione
dell’economia. È il grande tema introdotto da Karl Polanyi che sulla scorta di
Marx denunciava la “liquefazione” dei rapporti umani insiti nei fattori di
produzione naturali (lavoro, terra) e della moneta (un’istituzione sociale)
trasformandoli in merci. Questa è la “grande trasformazione” generata dal
capitalismo. Questa trasformazione ha avuto il suo coronamento storico nella
“rivoluzione capitalistica” dei nostri tempi: la liberalizzazione dei movimenti
mondiali del capitale. Un grande economista liberale, Davide Ricardo,
sconsigliava vivamente la libera esportazione dei capitali. I capitali, diceva,
portano con sé la storia e i sentimenti umani di un paese insomma, diremmo noi,
non sono una valigia. La liberalizzazione mondiale dei movimenti internazionali
dei capitali introdotta da Thatcher e Reagan negli anni ottanta ha rovesciato
brutalmente, con la creazione del mercato finanziario mondiale integrato
(capitalisti di tutti i paesi unitevi!) i rapporti tra capitale e lavoro e
quelli tra capitalismo e democrazia. Ciò che il proletariato non è stato capace
di realizzare l’Internazionale il capitalismo lo ha fatto. Liquefacendo i
movimenti mondiali del capitale, li si è sottratti a ogni forma di controllo
politico. Il modo più pratico di nientificare i poteri dei governi e dei
lavoratori è quello di abbandonarli. La più efficace minaccia non è quella di
contrastarli con le armi, ma quella di partire con la valigia. Il capitale,
insomma, fluisce liberamente dovunque, incontrando dovunque sé stesso. (…). Si
crea quindi l’internazionale dei capitalisti: una nuova plutocrazia mondiale
che gestisce i suoi capitali nelle sue capitali (Londra, Wall Street) e
attraverso la rete delle Multinazionali. E orienta i loro flussi. Questi flussi
si dispongono secondo la logica del massimo profitto nel minimo tempo. Non
seguendo le indicazioni dei bisogni ma quelle del guadagno. Accade così che il
flusso dei risparmi sia diretto là dove alimenta i consumi dei ricchi, non i
bisogni dei poveri: per esempio, tra la Cina e l’America. Un aspetto centrale
di questo quadro sta nel ruolo assunto dalla moneta. Essa ha perduto il ruolo,
conquistato attraverso la storia, di istituzione politica, creata gestita e
controllata dalle Banche Centrali. È generata dai mercati attraverso il credito,
incontrollato e deregolato, dal quale non si distingue ormai più. Il flusso
della moneta privata, incontrollabile, aveva generato alla vigilia della grande
crisi, nel 2007, una massa di liquidità pari a dodici volte il prodotto lordo
mondiale. Il segreto molto poco segreto della crisi sta tutto in questa
gigantesca inflazione finanziaria. Che non è affatto finita, ma si è spostata
dall’indebitamento privato all’indebitamento pubblico, gravando sui
contribuenti per l’aumento delle tasse e sui lavoratori per la contrazione
della spesa sociale. Insomma, la liquefazione ha inondato il mondo. E,
ritirandosi, lo ha lasciato impoverito. Il terzo aspetto riguarda la crisi
della coesione sociale. La liquefazione, oltre a speculazione e mercificazione,
genera spersonalizzazione. Il perseguimento generalizzato dell’avere produce
non persone ma individui, Non soggetti differenziati articolati e specializzati
che irraggiano in più direzioni le loro articolazioni ricercandosi
reciprocamente fino a formare una rete (società) ma unità omogenee e chiuse:
come palline che si urtano e si respingono. La metafora più adatta è quella di
grani di polvere che i venti del populismo sollevano e travolgono. È chiaro che
un processo alternativo, di sviluppo della personalità, non può essere il
risultato di un’analisi individuale, ma solo di una passione politica. Il suo
luogo è l’agorà.
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