Il vero profitto è stato il titolo che il quotidiano la Repubblica
ha dato, qualche tempo addietro, ad una interessante intervista di Roberto
Festa a Martha Nussbaum, intervista che di seguito trascrivo in parte. A me
pare importante cercare di dare risposte a quegli interrogativi che la vicenda
della “crisi” innesca attorno alle parole-chiave della crisi stessa.
Ho avuto modo, in altri post, di dire la mia, ma “dire la mia” è un
esternare convinzioni personali che il più delle volte non sono supportate
dalla piena padronanza degli argomenti stessi, che abbisognano di un buon grado
di scientificità. Una delle parole ricorrenti nella “crisi” è “crescita”:
è una delle tante parole che hanno assunto contorni quasi magici. E “crescita”
lo ha fatto in misura maggiore rispetto a tante altre parole. Poiché alla “crescita”,
sperabile ed invocata, sembra siano legate le sorti felici degli umani di
questo scorcio di secolo. Crescere per cosa? Crescere come? È un girarci attorno,
spesso inutile e contro tendenza, affinché dalla “crisi” si possa uscire
anche “diversi”, anche “migliori”. A tale proposito ho
trovato alcune delle risposte che cercavo a sostegno di quel “dire
la mia” nella intervista di Umberto De Giovannangeli a Edgar Morin
pubblicata sul quotidiano l’Unità col titolo «Hollande all’Eliseo? Io gli chiedo
il coraggio dell’innovazione». Nel sottotitolo della intervista il grande
sociologo e filosofo afferma: «Quella che stiamo vivendo non è solo una
crisi finanziaria è una crisi di civiltà, il cambiamento ha senso se assume un
carattere epocale. (…).». Per l’appunto. Un cambiamento che sia diverso.
Non se ne esce, dalla “crisi”, senza una nuova coscienza,
senza nuove responsabilità personali e collettive. Ed oltre afferma: «(…).
Va ripensata l’idea stessa di crescita come quella di progresso. Non possiamo
considerare il progresso come il carro trainato da una locomotiva
tecno-economica. Così come non possiamo concepire la crescita come mera
dimensione quantitativa, come ampliamento, magari con un riequilibrio
distributivo, di un modello di consumo che si intende come immodificabile. (…).
Credo davvero che sia giunto il tempo di rompere con il mito della crescita
perpetua, ma soprattutto dobbiamo andare oltre la sterile alternativa di
crescita/declino e promuovere la crescita parola che non va cancellata dal
vocabolario progressista, ma coniugata diversamente. E contemporaneamente
ridurre i prodotti economici futili, gli effetti illusori, moltiplicati dalla
pubblicità, quanto meno per frenare l’economia “usa e getta”. È questo ciò che
intendo per un cambiamento epocale, che investe il pensiero oltre che le
merci». Più chiaro di così! Per affermare poi sapientemente: «(…).
Una nuova politica economica, a mio avviso, dovrebbe includere la rimozione
della onnipotenza della finanza speculativa, salvaguardando nel contempo la
competitività del mercato, superando l’alternativa di crescita/declino,
determinando ciò che deve crescere: un’economia plurale, compreso lo sviluppo
di una green economy, l’economia sociale, commercio equo e solidale,
cittadinanza d’impresa. Ma al tempo stesso, occorre indicare, in una ottica
gramsciana, ciò che si deve abbattere per poter ricostruire: l’economia che
crea bisogni artificiali, l’economia dell’usa e getta. Più che di sviluppo
sostenibile, parlerei di consumi insostenibili, nocivi, da eliminare tout
court». Leggiamo, di seguito, le attente considerazioni che Martha
Nussbaum fa a proposito di un’altra parola oggigiorno abusata: il cosiddetto Pil.
Per uscire dalla “crisi” “diversi”, “migliori”.
«Per troppi anni abbiamo
sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita.
Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità,
educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». (…).
Perché il Pil non è un buon
indicatore della ricchezza di un Paese? «Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è
una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e
ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato
sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto
che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo,
il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell´esperienza umana. Ci sono
Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e
hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono
Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della
Cina».
In che modo l´approccio delle
capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza
di un Paese? «Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni
materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle
"capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro
opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di
ciascuno all´interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».
Lei identifica dieci "capacità",
dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra
questi, il diritto alla vita, alla salute, all´appartenenza. Ci sono però
elementi - l´immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare
diritti di rilievo pubblico... «Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali
dell´esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata.
Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza
domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e
guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la
notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera
pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso
discorso per l´immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una
memorizzazione piatta, non stimola l´immaginazione. Con grave danno per la
società e l´economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove
è cruciale».
Cosa risponde a chi rimprovera a
questo modello un´eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che
sulle realizzazioni? «Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente
come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire
opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze,
tradizioni, predilezioni. L´approccio delle capacità dice che ogni essere umano
deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e
religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia
con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l´obbligo di votare. Ci
sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non
partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni
statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione,
un´educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la
trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se
collocare la scheda nell´urna».
L´approccio delle capacità è più
un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia
sociale? «È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a
misurare la qualità della vita nell´ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per
me, è stato un modello di giustizia e un appello all´azione. Quando si usa il
termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati
standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso
all´azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle
del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo
mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere.
Be´, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la
condizione delle donne. La teoria dell´approccio delle capacità, con la lista
dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard
minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale
per i diritti umani».
Lei, Amartya Sen, gli altri
teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di
riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione
antistorica? «No. Sicuramente l´approccio delle capacità non corrisponde a
certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le
difficoltà, l´Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione
sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me».
(…).
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