Quadro primo. Da “Shopping
di partito a Pechino” di Giampaolo Visetti, pubblicato sul settimanale (787)
“D” del quotidiano la Repubblica.
Una modella cinese si è sfogata
sul web. "Oggi volevo fare qualche regalo al mio fidanzato - ha scritto -
ma le boutique di Pechino non avevano più nulla da vendere". Cercava
orologi d'oro e cinture decorate con diamanti, roba tra i 30 e i 90mila euro a
pezzo. Un reporter indipendente ha voluto verificare. (…). L'indagine ha confermato
che gli oggetti cult della stagione, nel cuore finanziario della capitale,
erano scomparsi. I pezzi più richiesti erano finiti, o riservati a clienti che
avevano versato una caparra. Prenotati per mesi i nuovi arrivi. Tra i beni
introvabili, gli occhiali. Non quelli comuni: montature in oro e brillanti, a
partire da 20mila euro. È emerso che anche hotel e ristoranti a cinque stelle
erano in over-booking. Come se a Pechino si fossero improvvisamente dati
appuntamento sceicchi arabi, oligarchi russi, costruttori giapponesi, banchieri
svizzeri e padroni americani dell'e-economy, senza dirlo a nessuno. Da qualche
anno succede che la capitale della seconda potenza mondiale, la sola con un
solido segno più, vada in crisi da astinenza da spese folli. Capita due volte
all'anno: attorno a Natale, che i nuovi snob dell'Oriente amano festeggiare per
esibire confidenza con l'Occidente, e durante il capodanno lunare. Questa volta
però si era in marzo, qui mese di botteghe piene e di tasche vuote. Ottenuta la
garanzia dell'anonimato, commessi e hostess dei centri commerciali hanno
accettato di svelare il mistero. La merce di lusso era stata spazzolata, con
settimane di anticipo, dai delegati alle due riunioni plenarie annuali del
partito comunista. A spianare assegni e carte di credito senza limite di spesa,
sono stati gli ex compagni che in pubblico amano intonare gli inni
rivoluzionari di Mao Zedong: 2900 deputati all'Assemblea nazionale del popolo e
2200 funzionari del partito in regioni e province. (…). I commessi hanno
spiegato come avvengono gli acquisti dei dirigenti comunisti, che per l'anno
della grande transizione nella leadership hanno lanciato lo slogan "Prima
il popolo". Pagano una quota e si iscrivono negli account speciali delle
boutique di lusso. Fermano per telefono interi stock delle merci più costose.
Raggiungono il negozio con collaboratori e berline nere. Estraggono la lista
dei regali, per imprenditori e altri funzionari che meritano di essere
conosciuti. In base a rango, interesse e affare, selezionano gli acquisti.
Svuotano gli scaffali, lasciano gli indirizzi a cui recapitare i doni, saldano
conti da centinaia di migliaia di euro e se ne vanno.
Quadro secondo. Da “Modello
Hong Kong” di Giampaolo Visetti, pubblicato sul settimanale (789) “D” del
quotidiano la Repubblica.
Per vedere come sarà il mondo tra
qualche anno, un viaggio ad Hong Kong può essere istruttivo. La cassaforte
dell'Oriente è la realizzazione perfetta di una comunità trasformata in
un'azienda. Non viene governata da un sindaco, ma da un amministratore
delegato. Lo chief executive non viene eletto dai cittadini ma da un comitato
di 1200 azionisti, che rappresentano le categorie economiche. La popolazione di
Hong Kong supera i 7 milioni di abitanti: a eleggere il leader è lo 0,02% dei
residenti. Durante la campagna elettorale, i candidati non promettono di
migliorare la vita della gente. Giurano che tuteleranno gli interessi economici
e promuoveranno il business. La metropoli non è amministrata sul posto. I due
terzi dei grandi elettori dello chief executive sono scelti da Pechino. È la
Cina a controllare Hong Kong, sebbene esista il diritto di voto, la stampa sia
libera e la magistratura indipendente. È così da quando la Gran Bretagna,
quindici anni fa, ha restituito l'arcipelago conquistato con le guerre
dell'oppio. L'ex colonia inglese resterà una "regione amministrativa
speciale" cinese fino al 2047, ma è chiaro che il limbo è solo apparente.
La metropoli è già uno straordinario laboratorio del comunismo trasformato in
capitalismo e dell'autoritarismo presentato come democrazia. A sostenere il
sistema è l'obbiettivo comune: fare soldi. Tutto a Hong Kong è concepito con il
fine unico di produrre ricchezza e i risultati sono strabilianti. (…). Un
meccanismo semplice: i più ricchi vanno al potere e comandano, gli altri fanno
politica e si occupano di cultura e questioni sociali. Accettando la
messinscena di elezioni sottratte alla volontà della maggioranza popolare, il
mondo "hongkonghizzato" non può essere accusato di essersi ridotto a
una dittatura e i leader-amministratori delegati non possono trasformarsi in
despoti. Le comunità vengono semplicemente dirette come una banca, o una
compagnia assicurativa: e a risultare decisivo è il bilancio che presentano, i
dividendi che a fine anno distribuiscono. (…). Per gli occidentali, in fuga
dalla crisi e dalle tasse, questo è un mondo ideale. Si fanno soldi, nessuno
parla di regole e giustizia e non ci si deve vergognare di eccessi e sprechi.
Anche per la Cina è un paradiso: ci manda il nuovo ceto medio nel week-end e
promette che se nessuno disturba Pechino presto tutta la nazione sarà il
trionfo del consumo. La tentazione è forte: difficile che democrazie spente
sappiano resistere. Ma le persone, sono felici? No. Ma questi sono dettagli di
cui a Hong Kong non c'è tempo di occuparsi.
Siamo proprio sicuri che queste “vite
degli altri”, colte nelle straordinarie corrispondenze di Giampaolo
Visetti, non possano divenire, o essere imposte dalla globalizzazione
finanziaria, la vita nostra prossima ventura? Cosa sapremo opporre ad una
visione della vita che ci riduce al rango di infaticabili, insoddisfatti
consumatori? Dal “pianeta” Cina, da quell’inquietante laboratorio sociale che è
la Cina, si distende minacciosa un’ombra plumbea sull’intero pianeta Terra; un
oscurantismo nuovo, che realizza nella acquisizione sfrenata e senza misura
della ricchezza per i pochi il suo comandamento primo. Ha scritto Joseph Roth
al capitolo XXVIII del già citato Suo straordinario lavoro “Fuga senza fine”: (…). Aveva combattuto un anno e mezzo per
una grande rivoluzione, ma solo ora comprese chiaramente che non si fanno
rivoluzioni contro una “borghesia” ma contro fornai, contro camerieri, contro
piccoli erbivendoli, infimi macellai e inermi facchini d’albergo. Non aveva mai
temuto la povertà, a malapena l’aveva sentita. Ma nella capitale del mondo
europeo, da cui partono le idee di libertà e i suoi canti, egli vide che non
una sola crosta di pane secco si riceve per niente. I mendicanti hanno i loro
benefattori fissi e a qualunque cuore pietoso si bussi la risposta è: già
occupato!(…). Così girava la storia per il protagonista Franz Tunda.
Che aveva vissuto e partecipato alla rivoluzione bolscevica. Che poi era
arrivato, nella sua “fuga senza fine”, in quella “capitale del mondo europeo, da
cui partono le idee di libertà e i suoi canti”, che è Parigi. Ma le
rivoluzioni non si fanno per i poveri. O, come ha scritto bene Tahar Ben
Jelloun nel Suo “La scuola o la scarpa”:
“il
cielo non ama i poveri”. Oggi che è di nuovo il primo di maggio e si
continua a festeggiare il lavoro.
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