È tornata sul proscenio del bel
paese la nobile e benemerita compagnia della “commedia dell’arte all’italiana”.
All’italiana. Sono i tardi seguaci di Melpemone e Talìa. Che all’italiana
divagano, saltimbancano, con stupefacente facilità, dalla prima, che è la musa
della tragedia, alla seconda, che è la musa della commedia. Della commedia
all’italiana però, nella variante della farsa. Con l’ultima boutade del signor
B, della benemerita corporation B&G. Con l’epocale scelta resa nota al
popolo colto ed incolto di fare del bel paese un paese del presidente. Come
dire: sino a che il dottore “studìa”, il malato l’è bello e
morto. Il malato in questione è il bel paese. E così ci si ritroverà, alla
primavera dell’anno 2013, con il “porcellum” come legge elettorale. Ché
del resto sta bene assai alla corporation B&G, con i loro partiti, partiti
tra virgolette, padronale o personale. Entro i quali si entra o dai quali si
esce secondo l’umore tragicomico del duo B&G. Intanto avviene che nel bel
paese si trasformi la Carta sotto il naso dell’ignaro uomo della strada. Anzi,
senza che all’uomo della strada se ne sia dato un minimo di sapere. Scrive
Stefano Rodotà sul quotidiano la Repubblica un pezzo che ha tutta l’aria di un “appello
all’attenzione democratica”. Ché “vigilanza” sarebbe stato dire
troppo, come in una condizione pre-rivoluzionaria o golpista. Titolo del
pezzo/appello “La maschera del
populista”: (…). Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata
consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di
guardare oltre l´emergenza. Per comprendere quel che sta accadendo, è un intero
contesto a dover essere considerato. È stato modificato l´articolo 81 della
Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio con pregiudizio grave per la
tutela dei diritti sociali e per la stessa azione di governo. Un decreto legge
dell´agosto dell´anno scorso e uno del gennaio di quest´anno hanno
illegittimamente messo tra parentesi l´articolo 41. E il Senato sta discutendo
una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo,
ruolo del presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona
“manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di
Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono
sopraffatte da richiami all´emergenza così perentori che ogni invito alla
riflessione configura il delitto di lesa economia. In tutto questo non è
arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di
intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono
tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di
fronte a fatti compiuti. Proprio perché s´invocano condivisione e coesione, non
si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi,
da chiudere negli spazi ristretti d´una commissione del Senato, senza che i
partiti promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che,
finora, è mancata. E invece siamo di nuovo a un continuo cambiare le carte in
tavola, ai segnali di fumo tra oligarchie, alla considerazione della
Costituzione come oggetto manipolabile secondo le convenienze.(…). Quanto
basta per dire della scarsa considerazione che la “casta” della politica ha
del cosiddetto “uomo della strada”. Che concorre a formare la pubblica
opinione. Che risulta, secondo i populisti di sempre, essere il “popolo
sovrano”. Sovrano di cosa? Sarei tentato di dire che la “casta”
si stia rendendo responsabile di quell’”abuso di potere” del quale ha scritto, molto dottamente, Nadia
Urbinati in una Sua riflessione del 4 di novembre dell’anno 2010 col titolo,
per l’appunto, di “Abuso di potere”,
riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica che di seguito trascrivo in
parte. Giusto per non far cadere nel vuoto il pezzo/appello di Stefano Rodotà. Per
rifletterci con forza e serenità.
(…). L'abuso di potere è un fatto
gravissimo perché distrugge una comunità politica trasformando i cittadini in
sudditi, facendone oggetto di raggiro, mettendoli nella condizione di non
sapere e quindi di non poter giudicare con competenza, lasciando chi governa
nella straordinaria libertà di fare ciò che vuole. L'abuso mina alla radice la
fiducia senza la quale non si danno relazioni politiche in una società fondata
sul diritto. Il liberalismo ha colto al meglio questo problema, poiché ha da un
lato assunto che il potere è necessario, e dall'altro che il suo esercizio
stimola negli uomini la propensione a non averne mai abbastanza e quindi ad
abusarne. Il potere alimenta la passione per il potere con un'escalation fatale
verso il monopolio. Le costituzioni moderne partono tutte dalla premessa che ci
si debba sempre attendere la violazione e l'abuso da parte di chi esercita il
potere e per questo istituzionalizzano le funzioni pubbliche e stringono il
potere politico dentro norme rigide e chiare. Da questa concezione liberale ha
preso forma l'idea che l'unica legittimità che il potere politico può acquisire
è quella che viene dal rispetto delle garanzie di libertà individuale e,
quindi, dalla limitazione e dal controllo del potere (limitazione nella durata
e nell'intensità grazie alle elezioni, ai controlli di costituzionalità e alla
divisione dei poteri) attraverso vincoli che chi governa non può manomettere.
Violare i limiti che la difesa di questa libertà impone equivale a mettersi
fuori della legge (un fatto di sedizione che indusse John Locke a giustificare
la disobbedienza e la ribellione, aggiungendo con toni sconsolati che purtroppo
i popoli hanno più capacità a subire gli abusi che a ribellarsi ad essi). Il
potere che opera d'arbitrio non è più potere politico, quindi, ma é dominio
assoluto e dunque nuda forza che fa di chi lo subisce un servo a tutti gli
effetti. La differenza fra dominio e governo sta tutta qui. (…). In una
democrazia costituzionale il Presidente del Consiglio e i ministri (il potere
esecutivo) ricevono legittimità dal patto fondativo che detta le regole della
loro designazione e della loro durata e, se necessario, della loro destituzione
per la possibilità di essere sottoposti alla giustizia ordinaria "per i
reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni" in seguito
all'autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati
(Art. 96, il quale nella formulazione originaria del 1947, poi sottoposta a
revisione nel 1989, era molto più severo e prevedeva la possibilitá della messa
in "stato d'accusa", una formula simile all'impeachment americano).
Queste regole e questi limiti definiscono quello politico come agire pubblico,
stabilendo che esso appartiene alla comunità politica e non a chi lo esercita,
il quale non può sostituire il suo personale giudizio su come relazionarsi alle
istituzioni a quello definito dalla legge, dalla quale egli dipende. L'abuso
blocca proprio la dimensione pubblica del potere rendendone l'esercizio un
fatto tutto privato; è a questo punto che il potere si fa nuda forza,
discrezione nella mani di chi lo maneggia, come strumento di privilegio. Il
governante che viola le norme che regolano il suo operato si impossessa del
potere e lo piega ai suoi interessi.
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