Scrivevo a quel tempo, alla
pagina 111 del mio lavoro editoriale I
professori – AndreaOppureEditore (2006) pagg. 194 € 8,00 -: (…). È lo scoramento profondo allorché si
avverte un rovinare improvviso di una costruzione ideale, ancorché
organizzativa, quale è per l’appunto la scuola pubblica italiana. È
lo scoprire l’impari lotta tra il mondo chiuso, a volte autoreferenziale
della scuola, e il travolgente e periglioso andare del mondo ad essa esterno,
con le inevitabili ricadute sulle giovani generazioni, con il loro smarrirsi al
pari degli adulti genitori o educatori di fronte ai rivolgimenti storici,
politici, economici e di costume che al giorno d’oggi, fagocitati in un
processo di globalizzazione irrefrenabile, non concedono tempo alcuno per una loro
meditata acquisizione e metabolizzazione.
E si impone il problema della lingua, e perché no, il problema dirompente e
totalizzante dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Nei miei ricordi di
insegnante non potranno in alcun modo essere cancellate le amenità dei miei
preadolescenti che a ben precise domande – “fatemi l’esempio di un pesce”,
molto ingenuamente e candidamente mi solevano rispondere “Bastoncini Findus” -
o allorquando si richiedeva una parolina con la lettera “d” come iniziale rispondevano, quasi all’unisono, con
uno squillante “Super dash”. Così come molto brillantemente ha descritto
quei tali rivolgimenti “antropologici” – ché tali li
definisce – Francesca Graziani nel Suo Dal
diario di una prof – Pratiche Editrici, Milano (2000) -: “(…).
Io insegno e lo so perché il mio mestiere mi colloca in un punto strategico di
avvistamento, dato che ho sotto gli occhi ogni giorno un pezzo del futuro che
cresce, con le sue potenzialità e i suoi problemi, e devo soprattutto fare i
conti con il fatto che non siamo in presenza solo di un gap generazionale, ma
di una vera e propria mutazione antropologica. Almeno la metà dei ragazzi e
delle ragazze che frequentano la scuola oggi sono figli unici: cresciuti per lo
più a manga giapponesi e Nintendo, hanno conversazioni telegrafiche con i
genitori e vivono in un mondo velocissimo, bombardati da una massa di
informazioni che smarriscono subito o frullano tutte insieme. Sotto
un'apparente disinvoltura nascondono un senso di insicurezza e di smarrimento:
il loro immaginario, che non a caso trova rappresentazione nel cinema e nella
letteratura dell'orrore, è popolato di mostri che loro tentano di esorcizzare
con complicatissimi rituali di loro invenzione. Strappati dall'erba dei giardinetti
al tempo della nuvola radioattiva di Chernobyl (uno dei ricordi della loro
infanzia), cresciuti in un mondo a gambe all'aria dopo la caduta del muro di
Berlino, un mondo in cui anche gli/le adulti/e faticano a orientarsi, sono
incapaci di immaginarsi un futuro e quasi per nulla interessati al passato.
(…)”. Come non rinvenire in quelle nostre “impressioni” di
educatori, vissute in tempi ancora non “sospetti” con la “crisi”
ancora da venire, lo “smarrimento” esistenziale dell’oggi
caratterizzato dalla mancanza di futuro e dalla precarietà del lavoro che
consuma le vite ed i sogni delle giovani generazioni? Ed i miei preadolescenti
di allora, divenuti nel frattempo gli adulti dell’oggi, hanno contezza del
proprio trascorso vissuto speso in massima parte in preda del piccolo mostro
domestico? Ché se ne avessero contezza potrebbero bene disporsi ad essere
cittadini e genitori riflessivi e responsabili. Cittadini a pieno titolo e non
solamente consumatori. E della “segnatura” della quale le
generazioni più o meno giovani, vissute al tempo del consumismo più feroce, sono
state cavie inconsapevoli e forse incolpevoli, come in una collettiva e
vastissima operazione di “imprinting”, come per le oche del
grande Lorenz, ne ha scritto sull’ultimo numero del settimanale “D” del
quotidiano la Repubblica Giacomo Papi in un pezzo di analisi che ha per titolo Il pino silvestre, che di seguito
trascrivo in parte.
(…). Non ero sicuro che sarebbero
piaciute. Sono state divorate. Anche i più diffidenti - quelli che al primo assaggio
facevano la faccia disgustata - non riuscivano a resistere a quel sapore di
bagnoschiuma al pino silvestre. Sembrava una droga in grado di fare viaggiare
nel tempo. Riprecipitavamo negli anni Settanta. Quell'aroma sintetico
riconnetteva a un'idea di natura incontaminata, popolata di cavalli bianchi
selvaggi al galoppo su una spiaggia o alla freschezza delle primavere in
Scandinavia. Era una sensazione artificiale creata dalla pubblicità che però
sembrava innata e istintiva, legata com'era alla certezza dei sensi, invece che
al ragionamento e all'apprendimento. Il suo carattere culturale e innaturale,
insomma, era nascosto, sepolto sotto l'evidenza sensoriale. Per chi è stato
bambino negli anni Settanta, la natura profumerà per sempre di pino silvestre,
perché questo ha voluto e insegnato uno spot. È in questo trucco prospettico
che si annida la potenza della pubblicità. La sua prepotenza culturale e la sua
pericolosa bellezza. La sua capacità di persuasione e il suo essere
intrinsecamente subliminale, anche quando non lo è. La pubblicità costruisce
sinestesie, riflessi condizionati, ammaestra i consumatori nello stesso modo in
cui il signor Pavlov ammaestrava i suoi cani, costruendo catene di sensazioni
che culminano nel prodotto da vendere. La sequenza cavallobianco -
famigliafelice - pinosilvestre - bagnoschiumavidal ricomincia a ritroso. Il
profumo reale di pino silvestre (anche se è in una caramella gommosa) rimanderà
per sempre all'idea di natura incontaminata e selvaggia sintetizzata molti
decenni fa da un creativo probabilmente defunto da tempo. Nessun'altra arte ha
toccato l'uomo, il suo corpo e la sua memoria, con altrettanta efficacia.
Nessun'altra arte è riuscita a essere così profondamente politica da invadere e
forgiare la nostra cultura, fingendosi natura. Nessun'altra arte è così
prepotente. Te ne accorgi quando i pubblicitari utilizzano musiche che ami. Per
quanto tempo ancora gli italiani non potranno ascoltare la romanza per violino
in Fa maggiore di Beethoven senza pensare allo spot Vecchia Romagna Etichetta
nera? Iniziava con l'immagine di uno sciatore, poi partiva la musica e una voce
maschile suadente: "... E dopo, a casa" il calore di un caminetto
acceso si miscelava a quello del "brandy che crea un'atmosfera". Per
alcuni è la dimostrazione del valore pedagogico delle réclame: grazie a Vecchia
Romagna il popolo conosceva un capolavoro immortale. È vero. Però lo ha anche
neutralizzato e requisito rendendolo nullo da un punto di vista emotivo ed
estetico. Nessuno, se non è ubriaco di Vecchia Romagna, potrà mai più
commuoversi ascoltandolo. Mi rendo conto che proporre di regolamentare
l'utilizzo commerciale di ciò che appartiene all'umanità intera ha un sapore
moralista. Da Minculpop. Però la tentazione è forte. Perché a volte è forte si
sente di essere stati depredati di una bisogno essenziale di bellezza. La
musica più bella del mondo è per me l'adagio del concerto per pianoforte e
orchestra 23 K 488 di Mozart. L'hanno scelta per uno spot dell'Air France. Un
tempo mi faceva pensare, con tristezza e pace, a chi è morto e mi manca. Forse,
in futuro, mi evocherà un aereoplano.
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