Sostiene, alla pagina 32, il
professor Luciano Gallino nella dotta intervista trascritta da Paola Borgna – “La lotta di classe dopo la lotta di
classe”, Editore Laterza (2012), pagg. 213 € 12,00 -: Il numero degli affamati nel
mondo è aumentato nel corso della crisi soprattutto a causa della speculazione
che i grandi gruppi finanziari e gli investitori istituzionali – (…) -, alla
ricerca di investimenti più sicuri, hanno operato negli ultimi anni sui
derivati, chiamati in gergo “futuri”. Si tratta di contratti che in origine
obbligavano una parte a vendere, e la controparte ad acquistare, una certa
quantità di prodotto – detto sottostante – a una data e a un prezzo
prestabiliti. In realtà, essi si sono sviluppati in modo tale che, al presente,
meno del 5% delle due parti vende o compra qualcosa: la grandissima maggioranza
si limita a scommettere sull’aumento o sulla riduzione di prezzo del
sottostante. (…). È la nuova finanza che, a detta di Marco Panara, “si
mangia l’economia”. La Sua – di Marco Panara - interessante riflessione
è stata pubblicata sul settimanale Affari&Finanza del 23 di gennaio
dell’anno 2012. Titolo della riflessione, che di seguito trascrivo in parte: “Se la finanza si mangia l'economia”. Lascio
ai tecnici discettare sul problema. Mi preme ben altro. Mi preme pensare
all’uomo della strada, a quell’uomo della strada che forma il popolo sovrano.
Sovrano di che cosa? Cosa ne sa l’uomo della strada dei “derivati”? Cosa ne sa l’uomo
della strada dei “future”? Nulla, il resto del nulla. In questo modo falliscono
gli stati ma fallisce irrevocabilmente la democrazia. In nome di quell’uomo
della strada, reso volutamente cieco, che fa parte del popolo sovrano ignorato,
anche tante, tantissime realtà locali del bel paese, intendo dire le tante,
tantissime amministrazioni comunali, hanno giocato su quel mercato della
finanza che si mangia l’economia reale, investendo su quei titoli di pura
speculazione. In nome del cieco uomo della strada, dell’ignorato popolo
sovrano. Una prova ancora che la democrazia del capitalismo rampante è fallita.
In un’altra pagina della citata pubblicazione – pag. 12 – sostiene il professor
Gallino: “(…). La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra
epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da
considerare i vincitori – (…) – sta conducendo una tenace lotta di classe
contro la classe dei perdenti. È ciò che intendo per lotta di classe dopo la
lotta di classe”. Una lotta di classe al rovescio. I ricchi, gli
speculatori, contro quel 99% - secondo i ragazzi del movimento di Zuccotti Park
- che brancola nel buio più assoluto e che la “crisi” da altri creata
spinge alla disperazione. Ha detto – il 31 di maggio dell’anno 2011 - prima di
lasciarci per sempre Theo Angelopoulos: “Forse
è l’Europa che ha fallito. Forse è l’Occidente che è entrato in crisi. Dovremmo
reinventare un modello di sviluppo ma non abbiamo idea di come farlo”. Ecco,
appunto: non si sa “come farlo”. Si vive, o si sopravvive solamente, nella cecità
più assoluta. La democrazia nell’Occidente è fallita.
Alla fine, il nocciolo della
questione è lo scontro tra economia reale ed economia finanziaria. I grandi
vecchi non c'entrano, i fili sono troppo intricati perché ci sia un burattinaio
che possa tirarli, c'entrano i sistemi di interesse o, se vogliamo volare alto,
le logiche e le visioni del mondo. La finanza è più forte, detta i tempi e
giudica le scelte, e la sua potenza ha basi solidissime. La prima è la dimensione,
cresciuta enormemente: nel 2003 per ogni dollaro di prodotto globale ce n'erano
9 di finanza; oggi, per ogni dollaro di prodotto globale, di finanza ce ne sono
14. In
valori assoluti le cifre sono queste: 37 mila miliardi di prodotto globale e
321 mila miliardi di attività finanziarie nel 2003 e 63 mila miliardi di
prodotto e 851 mila miliardi di attività finanziarie nel 2010. La massa delle
attività finanziarie è quindi soverchiante, non c'è al mondo soggetto pubblico
che possa contrastarla. Interessante è anche la composizione, perché di quegli
851 mila miliardi, solo 250 mila sono di attività finanziarie tradizionali
(quattro dollari per ognuno di prodotto) mentre il grosso, 601 mila miliardi,
sono derivati, ovvero le attività finanziarie meno trasparenti e meno
regolamentate che esistano. Ma non è la dimensione la sola forza. Perché la
finanza, a differenza dell'economia reale, è mobilissima, supera i confini
degli stati e i poteri delle autorità di vigilanza, ed è velocissima,
infinitamente più veloce e reattiva di qualsiasi attività economica reale, di
qualsiasi processo legislativo o decisione amministrativa. La forza
soverchiante della finanza è una novità. È sempre stato un potere
condizionante, ma fino al 'big bang' che all'inizio degli anni '90 aprì i
mercati finanziari nazionali era il capitalismo industriale a prevalere, tra
General Electric o General Motors e Golman Sachs erano le prime a contare di
più. E anche dopo il 'big bang' e fino al 2007 economia reale e finanza sono
andate a braccetto, alimentandosi a vicenda con mutua opportunistica
convenienza. La finanza alimentava il debito e con il debito si tenevano alti i
consumi i quali a loro volta gonfiavano i fatturati e i profitti delle imprese.
La crisi ha rotto quella alleanza e oggi le logiche e gli interessi dell'una e
dell'altra sono diventati confliggenti. Per la finanza gli orizzonti sono
brevi, spesso brevissimi, a volte istantanei, il medio periodo non conta, il
lungo non esiste. Per l'economia la logica del breve periodo è devastante. Ma
non finisce qui. La finanza compete con l'economia reale per le risorse, e
promette molto di più con assai minore fatica. Tra mettere su un'impresa,
conquistare un mercato, lottare con le regole, il fisco e i debitori e mettere
i soldi in un hedge fund o in un private equity e incassare la rendita non c'è
partita. Infine c'è il fatto che molto poco e sempre meno dell'enorme massa
della ricchezza finanziaria filtra nell'economia reale, il grosso veleggia tra
le nuvole e si alimenta di se stessa, come testimonia la montagna di miliardi
investiti in derivati. Il problema è che in questo strano conflitto all'interno
del capitalismo le vittime non sono astratte. Siamo noi, i cittadini, la gente
comune, che vive di economia e non di finanza. E il problema diventa più grosso
se allarghiamo l'obiettivo alle società e alle democrazie. Perché in questo
scontro la politica sta in mezzo: a votarla sono i cittadini che vivono di
economia, ma a dettare i tempi e i modi e a tenere di fatto la politica in
ostaggio è la finanza. Che giudica con le sue logiche basate sui tempi brevi e
determina i costi (quello del denaro innanzitutto). Senza rispondere a nessuno
se non ai suoi interessi, che sono di fare profitti, subito, incurante dei
prezzi economici e sociali che questa fretta predatoria comporta. «La libertà
di una democrazia non è più sicura se il popolo tollera la crescita di un
potere privato fino al punto in cui esso diventa più forte del loro stesso
stato democratico», parole di Franklin Delano Roosvelt al Congresso di
Washington nel 1938. Siamo di nuovo lì, ed è il momento che la politica si
svegli, per restituire alla democrazia il suo primato. Non c'è bisogno di
demonizzare nessuno, la finanza se regolata serve a tutti, e di regole ne
basterebbero due: una Tobin Tax e l' obbligo di trattare i derivati compresi i
famigerati cds (credit default swaps) su mercati regolati. La montagna si
ridimensionerebbe e il suo rapporto con l'economia reale, e quindi la vita di
ciascuno di noi, diventerebbe un poco più virtuoso. Un po' di coraggio e ci
guadagneremmo tutti, compresi quegli Stati Uniti e quella Gran Bretagna che
all'avidità della finanza hanno pagato un prezzo altissimo.
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