Ha scritto Cinzia Sciuto
nell’ultimo numero della rivista MicroMega – pagg. 74/75 - dell’anno 2011 nel
Suo pezzo che ha per titolo Imparare
dalle anime belle: (…). Le grandi lotte collettive erano
possibili in tempi solidi, in cui l’identità individuale non era messa in
discussione e in cui, quindi, a partire da una precisa coscienza di sé
(costruita eventualmente anche in opposizione ai modelli sociali di
riferimento), era possibile condividere anche una coscienza di classe o di
gruppo. L’individuo, nella sua integrità e autonomia, è l’apriori di qualunque
azione collettiva e lavorare per ritrovare se stessi, lungi dall’essere il
contrario dell’impegno politico, ne è la condizione di possibilità. Quale
politica è possibile, infatti, in un mondo di meri consumatori, di clienti?
(…). C’è molto da riflettere sulle tragiche vicende di questi mesi.
Operai, lavoratori autonomi, piccoli e medi imprenditori che, nell’assoluta
solitudine delle loro coscienze, decidono di farla finita con la propria
esistenza. Non sfugge che l’impoverimento della propria condizione di vita sia
motivo di grandissima turbativa dello spirito e dell’equilibrio psichico dei
singoli che, per una azione di “effetto alone” riesce a
coinvolgere, nei tragici avvenimenti, numeri che suscitano legittimo allarme
sociale. Ma non minore forza, nei tragici avvenimenti di questi mesi, avrebbe
una coscienza di sé che fosse stata costruita su di una solida “coscienza
di classe o di gruppo” che rendesse tetragoni a fronte delle situazioni
difficili che la “crisi” dispiega nel suo irrefrenabile avanzare. Non
se ne viene fuori dalla “crisi” se non con i numeri
allarmanti dell’oggi solo perché la politica, quella delle idee e delle
idealità, non è più “possibile,(…), in un mondo di meri consumatori, di clienti”. Dei
fatti tragici che le cronache continuano a porre drammaticamente alle nostre
coscienze ne ha scritto sul quotidiano la Repubblica lo psicoanalista Massimo
Recalcati col titolo Lo specchio della
vita. Di seguito lo trascrivo in parte. (…). L'immagine di sé non è l'immagine
che restituisce lo specchio ma quella che restituisce il corpo sociale, le
persone che amiamo e che stimiamo; lo specchio che conta è lo specchio che ci
restituisce la dignità del nostro essere uomini. Coloro che decidono per il
suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato
uno specchio in frantumi. Non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati
spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del
lavoro come possibilità che umanizza e assegna valore alla vita. Il suicidio è
il tentavo disperato di trovare una dignità smarrita. (…). Non solo di pane
vive l'uomo, recita, com'è noto, la celebre massima evangelica. Gli
psicoanalisti non sono certo i soli a verificarne la verità: la vita umana non
si realizza solo attraverso l'appagamento dei bisogni primari, naturali,
istintuali. La vita si umanizza attraverso l'acquisizione di una dignità
simbolica che la rende unica e insostituibile. La vita si umanizza attraverso
il suo essere riconosciuta dalla propria famiglia e dal corpo sociale di
appartenenza. Di fronte alla tragedia dei suicidi causati dalla perdita del
lavoro, da fallimenti professionali o dall'angoscia di non riuscire a
sopportare l'aumento continuo dei debiti e l'onda sismica della crisi economica
che stiamo vivendo, torna alla mente la potenza della massima evangelica. Non
perché il pane non abbia importanza. E chi potrebbe negarlo, soprattutto in
tempi di crisi, dove la stessa sopravvivenza degli individui e delle loro
famiglie è messa a repentaglio? Eppure il dramma del suicidio è propriamente
umano - e solo umano - perché in gioco non c'è solo il pane. La mancanza del
pane può generare indignazione, lotta, contrasto, rivendicazione legittima di
giustizia sociale, anche disperazione, frustrazione, scoramento. Ma non è la
mancanza del pane in sé che può condurre una vita alla decisione di uscire dal
mondo. Cosa motiva davvero i suicidi che riempiono drammaticamente le cronache
di questi mesi? Marx aveva assolutamente ragione a rifiutarsi di considerare il
lavoro un mero mezzo di sostentamento. Egli pensava che l'uomo trovasse in esso
non solo il mezzo per guadagnare il pane necessario, ma anche e soprattutto la
possibilità di dare senso alla propria vita, di renderla diversa da quella
dell'animale, di renderla umana. È il lavoro che dà una forma al mondo, che
trasforma la materia, che realizza impresa, costruzione, progetto, che sa
generare futuro. È ciò che portava Marx a conferire al lavoro umano una dignità
fondamentale. Per questa ragione il lavoro non è innanzitutto fonte di
alienazione, ma possibilità di realizzazione della vita come umana. Non è ciò
che deruba la vita ma ciò che la costituisce. Eppure abbiamo conosciuto stagioni
culturali dove il lavoro in quanto tale - e non la sua espropriazione
capitalista secondo la tesi classica di Marx - veniva rigettato come fonte di
alienazione e di abbrutimento della vita. Parlo ovviamente del lavoro e non
delle sue condizioni materiali che possono effettivamente animalizzare la vita,
insultarla, sfruttarla barbaramente. La tesi del lavoro contrapposto alla vita
e non come condizione della sua umanizzazione attraversa un certa ideologia
marcusiana che ha condizionato il movimento del '68 e che è giunta sino a noi attraverso
gli anni Settanta. L'umanità dell'uomo non si esprime attraverso il lavoro ma
nel tempo della vita sottratto al lavoro. Il culto del tempo libero dall'oppressione
del lavoro avvia una nuova retorica, assai pericolosa, che finisce oggi - come
aveva indicato con chiaroveggenza il liberale-conservatore Jacques Lacan - per
colludere fatalmente con l'iperedonismo di cui si nutre il capitalismo
occidentale: il lavoro è solo un limite, un peso, un'afflizione, un male.
Meglio liberarsene, meglio fare soldi per altre vie, più rapide e meno
faticose. Meglio seguire la "via breve" di un'economia di carta,
finanziaria, speculativa, che non passare dalla "via lunga"e irta di
ostacoli come quella del lavoro. L'ideologia della liberazione del desiderio
conduce dritta dritta verso il rifiuto cieco del lavoro come forma di
abbrutimento dell'uomo. (…). Il rifiuto ideologico del lavoro come luogo di
mortificazione della vita contrasta oggi in tutta evidenza con la disperata
esigenza del suo diritto, della possibilità che vi sia e che si dia lavoro.
Mentre nel tempo che ha preceduto la crisi il lavoro era descritto come un
peso, l'esplosione della crisi rivela la centralità del lavoro nel processo di
umanizzazione della vita. Oggi le persone si ammazzano non per liberarsi dal
lavoro, ma per rivendicare - seppure in modo distruttivo - la loro dignità di
uomini, per poter realizzare la propria essenza umana attraverso il lavoro. È
questo - il diritto al lavoro - il solo specchio anti-suicidio efficace.
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