Sopra. "L'Afgano" (2024), matita e pastelli di Anna Fiore.
Testo tratto da “L’omaggio tardivo al mullah Omar” di Massimo Fini pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 29 di maggio 2024: (…). Durante l’occupazione occidentale
dell’Afghanistan la produzione dell’oppio riprese in grande stile. Non solo:
erano gli stessi contingenti occidentali, che in teoria avrebbero dovuto
limitarla, ad alimentarla favorendo gruppi criminali ben incistati in
insospettabili Paesi occidentali. Questo è uno dei motivi, forse il principale,
per cui gli Stati Uniti e i suoi alleati aggredirono nel 2001 l’Afghanistan. Il
pretesto era che i Talebani avevano partecipato all’attentato delle Torri
Gemelle, anche se, abbastanza presto, fu chiaro che i Talebani non c’entravano
nulla: non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nel commando che abbatté
le Torri Gemelle, né c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nelle cellule
scoperte successivamente di al Qaeda: c’erano arabi sauditi, marocchini,
egiziani, yemeniti, non afghani, tantomeno talebani. Anche perché gli afghani
non sono arabi, sono un antico popolo ‘tradizionale’ che ha un fortissimo senso
della propria indipendenza, tanto che viene definito “la tomba degli imperi”,
quello inglese nell’Ottocento, e ci misero trent’anni, quello sovietico del
Novecento (1979-1989) e ci hanno messo dieci anni, quello americano e dei suoi
fedeli cani occidentali, tra cui l’Italia (2001-2021) e ci hanno messo
vent’anni. Né si può credere che una resistenza di vent’anni non abbia avuto
l’appoggio della grande maggioranza della popolazione, anche femminile. Il
Mullah Omar era nel mirino degli Stati Uniti anche a causa del grande gasdotto
che avrebbe dovuto trasportare il gas dal Tagikistan al Pakistan, e quindi al
mare, attraversando tutto l’Afghanistan. Omar non era contrario, era un
tradizionalista, non un cretino, ma lo insospettiva che in questa operazione
fosse interessata la Unocal, americana, dove erano presenti Condoleezza Rice e
Dick Cheney. Omar capiva bene che la Unocal non era semplicemente la Unocal,
era il cappello che gli americani volevano mettere sull’Afghanistan. Così
decise di affidare l’opera alla Bridas argentina, dell’italiano Carlo
Bulgheroni. Al Mullah Omar veniva anche addebitato che l’Afghanistan ospitasse
Bin Laden. Ma non ce l’aveva certo portato lui, ce l’aveva portato Massoud
perché lo aiutasse a combattere Hekmatyar, uno di quei “signori della guerra”,
insieme a Dostum e a Ismael Khan, che avevano fatto dell’Afghanistan terra di
abusi, stupri e ogni genere di soprusi ai danni della povera gente, e che il
Mullah avrebbe poi sconfitto nel 1996, ponendo fine a una sanguinosa guerra
civile. Omar non aveva nessuna stima di Bin Laden, lo chiamava “un piccolo
uomo”. Ma poiché Bin Laden era ritenuto responsabile degli attentati del 1998
alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, gli americani bombardavano
l’Afghanistan alla sua ricerca, facendo le consuete stragi di civili, senza
cavare un ragno dal buco. Allora Clinton propose al Mullah Omar che fossero i
Talebani a far fuori Bin Laden. Omar mandò a Washington il suo ministro degli
Esteri, Wakil Muttawakil, che si disse d’accordo. Disse che avrebbe dato agli
americani l’esatta posizione di Bin Laden. Ma pose una condizione: che fossero
gli americani ad attribuirsi la responsabilità dell’uccisione. Per due motivi.
Il primo era che Bin Laden, foraggiato dagli americani in funzione
antisovietica, aveva aiutato gli afghani, non ancora talebani, non battendosi
sul campo ma con aiuti economici, a sbarazzarsi degli invasori. Il secondo era
che, sempre con queste risorse, Bin Laden aveva partecipato alla ricostruzione
dell’Afghanistan distrutto da dieci anni di guerra e vi aveva fatto costruire
edifici, ospedali, strade e, eh sì, scuole. Cioè quello che avremmo dovuto fare
noi, in Afghanistan abbiamo costruito una chiesa. Ma all’ultimo momento Clinton
si ritirò (documento del Dipartimento di Stato dell’agosto 2005). Adesso i “new
talibans” hanno rinnovato il bando della produzione di oppio, bando che era
stato fatto proprio dal Mullah Omar quasi un quarto di secolo prima. Quando, ai
primi di ottobre del 2001, gli americani si preparavano all’invasione
dell’Afghanistan, dopo essersi assicurati l’appoggio del dittatore pachistano
Musharraf e dell’Alleanza del Nord, cioè dei tagiki che non tolleravano di
essere stati sconfitti dai “soldati di Dio”, chiesero la consegna di Bin Laden,
il governo talebano rispose come avrebbe fatto qualsiasi governo: dateci delle
prove o almeno degli indizi che Bin Laden sia effettivamente alle spalle degli
attacchi alle Torri Gemelle e alle ambasciate Usa del 1998, perché noi non
possiamo consegnare, senza alcuna garanzia, un uomo che sta comunque nel nostro
territorio. Gli americani risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date
ai nostri alleati”. Allora Omar si rifiutò di consegnare Bin Laden. Così, per
una questione di principio, che sarebbe stata valida in qualunque Paese
occidentale, il Mullah Omar si giocò il potere e in un certo senso la vita. L’Afghanistan
di oggi ha un grave problema: l’Isis. I Talebani sono stati gli unici a
combattere seriamente l’Isis, ma dovendo battersi contemporaneamente contro gli
occupanti occidentali non sono riusciti a stoppare del tutto la loro
penetrazione in Afghanistan. Proprio di recente due poliziotte afghane sono
state uccise in un attentato Isis. In quell’occasione abbiamo appreso che nel
comparto giudiziario afghano operano 200 donne, spesso in posizioni apicali,
con tanti saluti a chi afferma che in Afghanistan le donne non hanno accesso al
lavoro. Fu il Mullah Omar a proibire l’uso delle “mine antiuomo”, prodotte
soprattutto da industrie italiane. Fu sempre Omar a proibire i combattimenti
fra animali. Ma di queste lodevoli iniziative non si è sentito platus sui media
occidentali. (…). Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar.
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