“Un-acre-odore-di-guerra-si-respira”. “I salmi dell’ucraino: le letture del Papa”, testo della scrittrice Veronica Tomassini pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 21 di giugno ultimo: (…). "Mi è stato regalato (sostiene il vescovo di Roma Bergoglio n.d.r.) il libro dei salmi di un soldato ucraino". I salmi sono il paradigma di ogni invocazione. Tuonano, o talvolta si arrotano in versetti che esplicano il Tremendo; la Vendetta e la pietà è solo del Tremendo, o l'Onnipotente, o l'Eterno. Il soldato ucraino pregava al fronte e poi è morto. Perché in fondo è la guerra. Sono mesi che viviamo sul ciglio dell'apocalisse, mesi e mesi, la guerra diventa una questione aleatoria, mondana, con i sette convenuti, la foto del premier italiota (non riesco a usare il pronome possessivo "nostro", al limite vostro, di chi lo vuole) in Puglia, gli occhi sgranati, roteanti e un po' istupiditi nella congiura di pixel impietosa che circola sul web. La guerra è il cranio che ti esplode mentre forse stai pensando ancora una volta al sentiero da percorrere a ritroso, alla sostanza di un logorio che si chiama casa, e solo pronunciarla "casa" ti fa male il cuore, o una certa spina conficcata sulla fronte, la spina del Crocifisso, come tutti i crocifissi il cui sacrificio non è stato mai - può darsi - uno spirito gettato a restituirlo, l'amor di patria, stupidità spacciate per eroismi da diffondere, utili e collettivi; nel mentre esplodono detonazioni di efficiente crudeltà, ferocia militare e avveniristica e esalano singhiozzi e afrori di carne putrida. Perché in fondo è la guerra. E il soldato ucraino poteva chiamarsi Daniil, Bodhan, Ihor. Poteva avere vent'anni, o cento anni. Da dove veniva? Da quale periferia o sobborgo, o piccolo pezzo di terra al confine con la Crimea? L'amor di patria. Il meme con la Meloni al G7 mentre saluta il presidente francese è una parodia già di per sé, nello scatto originale. Una perfidia che il terzo occhio di una digitale con un senso dell'humour nero e avventuroso ha astretto nella sua memoria, di sua sponte. Hanno sostituito il presidente francese con Rocco Siffredi in versione Adone, un adone adamitico. La guerra nel frattempo esiste malgrado la nostra idiota mondanità. Il soldato ucraino ha avuto il tempo di morire in modo convenzionale, il cervello esploso come una corolla, librato verso un sole turgido di uno scambio di brillii mortiferi, nel sepolcreto che tiene i morti sulle dita, come scriveva Malaparte in alcune pagine memorabili de La pelle. Oppure è morto tenendosi le viscere tra le mani, sussurrando la parola madre, nel singhiozzo già consolato sul palmo dell'Eterno. Il tragitto di uomini crocifissi lungo le trincee, ora da una parte ora dall'altra; non sappiamo nemmeno chi siano, o il miasma dei cadaveri ammontati su camion scalcinanti, il loro terribile lezzo quale paura dolciastra revochi a noi. Nessuna. Non sappiamo non vediamo. La guerra per noi è ancora un fatto di neologismi, amenità da rimbambiti su un palco a rimirare la parola "pace", ordendo o eseguendo diktat che esprimono con tutta evidenza l'esatto contrario. La parola pace si installa nelle tradotte ferroviarie apposite, bellicose, convergono nell'ogiva delle trincee, a noi tornano vagamente con nomi esotici, città di frontiera. Le tradotte attraversano i nostri paesaggi, sazi e festaioli. Noi guardiamo più in là, il meme del premier italiota con gli occhi roteanti. E ridiamo di quelle risate che risalgono, sembra, da sotterra, glaciali similmente alle notti irrorate dalla polvere da sparo, notti livide, che nascondono gli uomini crocifissi narrati da Malaparte, appesi alla rugosità dei cipressi, le bocche buie o digrignanti, i lamenti, le pupille sbarrate nel buio, in attesa dell'angelo del giudizio, le membra contorte. I soldati russi muoiono alla stessa stregua. Periferia di spostati, la recluta si nutre delle molteplici disperazioni. Tanto morirebbero comunque di qualche orribile sentenza, l'overdose da crack o di krokodil. Il soldato russo sarà stato un imberbe, nel video che l'antagonista aveva spedito alla madre del nemico. Soltanto che del soldato imberbe non restavano altro che tranci di carne in bocca a un branco di cani rabbiosi. "È tuo figlio" scrive il soldato alla madre dell'antagonista. La madre osserva il cane violento masticare la polpa esosa, giocarvi, spaventosamente placido. Il figlio morto al fronte, tutto sommato sì, morto al fronte in bocca di un cane rabbioso. Cos'era, un rottweiler? Un personaggio di Malaparte crocifisso lungo il sentiero della notte urla: "Coloro che ci hanno messo in croce non sono forse cristiani?". La voce urla: "Chi muore laggiù?". Per chiosare mestamente nella lamentazione dei chiodi conficcati nelle mani e nei piedi nudi: "Era ancora un ragazzo". È la guerra, si muore tradizionalmente in guerra. A noi toccherà un risveglio nucleare, nel male rimbambito che non intende retrocedere. I grandi sette (come i sette nani, ma meno disciplinati) esprimono protocolli in grande soirée. Noi ridiamo dei video in Rete sfuggiti all'ilarità mefistofelica: il presidente degli Stati Uniti è vigile altroché, mentre non teme la detonazione di un suo solennissimo e plateale meteorismo. Il suo "sorry" emana in platea. "Ecco, i tuoi nemici, Signore, i tuoi nemici periranno".
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 24 giugno 2024
Uomininiedio. 50 Veronica Tomassini: «La guerra è il cranio che ti esplode mentre forse stai pensando ancora una volta al sentiero da percorrere a ritroso, alla sostanza di un logorio che si chiama casa».
(…). Per quelli della mia generazione le
commemorazioni belliche, dal Risorgimento in poi, sono pervase di stendardi al
vento, sciabole sguainate, valor militare. Non ho memoria, né alle elementari
né alle medie né al liceo, di immagini o parole che riportassero la guerra alla
sua sostanza materiale, che è quella della morte violenta e dei cadaveri
esposti alle mosche. È possibile che la mia prima percezione non retorica della
guerra sia una poesia di Ungaretti: “Un’intera nottata buttato vicino a un
compagno massacrato, con la sua bocca digrignata”. Si chiama Veglia, è
ambientata sul Carso nella Prima Guerra Mondiale, forse era in un’antologia
ginnasiale meno imbalsamata delle altre (parlo degli anni Sessanta del secolo
scorso), forse ce la fece leggere un/una prof più irrequieta della norma. Mi è
sempre rimasta impressa. Poi venne la Guerra di Piero di De André, con i
cadaveri dei soldati “portati in braccio dalla corrente”. La guerra è fonte
secolare di retorica, non si contano i monumenti a generali o militi che
grondano baldanza e patriottismo. È un passo avanti questo piegarsi su migliaia
di giovani uomini freddati da un proiettile (i più fortunati) o sventrati e
riversi nella sabbia, poi ricomposti in quelle distese di uguali che sono i
cimiteri militari. La guerra è morte e fanfara, in questo caso la memoria della
morte è stata più forte della fanfara. Segno di civiltà. (Tratto da “La morte e la fanfara” di Michele
Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di giugno 2024).
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento