"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 10 giugno 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 82 Giacomo Matteotti: «Non esiste per noi una sola patria, ma noi siamo per la libertà di tutte le patrie, a cominciare da quelle che noi abbiamo violate: la Tripolitania e la Cirenaica».


10 di giugno dell’anno 1924. L’omicidio Matteotti”. Cento anni fa veniva assassinato Giacomo Matteotti. Non da alcuni "squadristi fascisti" (…), ma dal fascismo come sistema della violenza, e (moralmente, se non direttamente) da Benito Mussolini. L'anno prima, il Popolo d'Italia di Mussolini aveva avvertito: "Quanto al Matteotti volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregevolissimo ruffiano - sarà bene che egli si guardi. Che se dovesse capitargli di trovarsi con la testa rotta (ma proprio rotta) non sarà certo in diritto di dolersi dopo tanta ignobiltà (…), che ci restituisce tutto intero e, purtroppo, attualissimo, non il martire, ma il politico di altissima levatura e l'intellettuale veramente libero. Né Giorgia Meloni ha detto una parola sulla rivendicazione esplicita di quel delitto: avanzata da Mussolini nell'aula stessa di Montecitorio dove è andata a celebrarlo, facendolo certo rivoltare nella tomba: "Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto... Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi". Una delle rare volte che quel "funesto ciarlatano iracondo" (così lo definì Piero Calamandrei) disse la pura e semplice verità. Non esiste una figura paragonabile a Matteotti, oggi, nella politica italiana: se non altro perché nel fare politica egli ebbe tutto da perdere, davvero nulla da guadagnare. Non in termini di ricchezza: ché anzi egli cercò costantemente come di punirsi, proponendo leggi che in ogni modo avrebbero colpito e decurtato la sua notevole ricchezza personale, e dunque limitato e non già accresciuto il suo potere personale. Tre tratti del pensiero di Matteotti appaiono oggi rivoluzionari: l'antimilitarismo radicale e la contrarietà viscerale alla guerra; la considerazione somma per la scuola come strumento di liberazione; il culto per il Parlamento come vertice e culmine del sistema democratico. Tre idee oggi tragicamente minoritarie. Nel marzo del 1915 Matteotti è tra i pochissimi che sappia dire lucidamente no all'inutile strage della Grande Guerra. E lo fa rigettando la retorica patriottica che dilagava anche a sinistra, in nome di un'idea altissima di umanità senza confini nazionali e di giustizia sociale come unica bussola: "Per noi patria ha esclusivamente significato se equivalga a libertà, ad autonomia di un popolo che vuole dettarsi proprie leggi. Perciò ci è indifferente se vuol dire semplicemente sostituire un padrone a un altro eguale per la classe lavoratrice [...] non esiste per noi una sola patria, come sembra a voi, ma noi siamo per la libertà di tutte le patrie, a cominciare da quelle che noi abbiamo violate: la Tripolitania e la Cirenaica". Della scuola, Matteotti ha un'idea diametralmente opposta a quella, per dire, della 'buona scuola' renziana, con la sua atroce alternanza-scuola lavoro: "Vogliamo noi veramente che la scuola sia preparazione per l'officina, pel lavoro? - scrive - No, assolutamente; la scuola deve essere qualche cosa" per cui, almeno per quattro o cinque anni, la gente del popolo non pensi alla preparazione del lavoro manuale, impari qualche cosa che sia fuori del lavoro immediato, impari anche delle astrazioni. Non dobbiamo essere di quelli che vogliono la preparazione del ragazzo all'abilità tecnica. Vogliamo che questo insegnamento sia libero, poetico, astratto, perché ne godano per una piccola parte di tempo, e ne portino con sé il ricordo per qualche anno. Non capitale umano, insomma: ma persone. Infine, quando il Parlamento era ormai travolto dal tradimento dei liberali e del re, dal colpo di Stato e dalla violenza fascista, a un presidente della Camera indegno che lo minacciava, esortandolo a parlare con prudenza, rispose così, in quel suo ultimo, memorabile discorso: "Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!" Oggi, cento anni dopo, il senso comune dell'establishment italiano considera la guerra un male necessario, la scuola un avviamento al lavoro e il Parlamento un inutile impaccio. Quanto ci manca, oggi, un Giacomo Matteotti. (Tratto da “Pace, scuola e Parlamento: le lezioni del leader socialista” di Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, lunedì 10 di giugno 2024).

“Perché Matteotti è stato ucciso tante volte”, testo di Antonio Scurati pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di giugno ultimo: (…). Purtroppo, l’anniversario del crimine fascista induce a commemorare Matteotti prevalentemente come vittima. Anche il podcast che qui si annuncia verrà intitolato alla morte del leader socialista e non alla sua vita. È questa, infatti, una delle conseguenze secondarie, ma non minori, della violenza: gli uomini che la subiscono vengono declassati a vittime, la loro complessa identità tende a ridursi alla sola qualità puntiforme della vittimizzazione. Ciò da luogo a una forma di oblio, a un ulteriore annientamento: si viene considerati e ricordati non per ciò che si è fatto, pensato, scritto ma soltanto per ciò che si è subito. Matteotti andrebbe invece ricordato per le sue tante attività, per le sue qualità di rappresentante del miglior socialismo italiano e, dunque, di irriducibile antifascista; andrebbe ricordato per il suo ragionato eppure intransigente pacifismo (fu l’unico socialista riformista a scontare tre anni di confino); per il suo “gradualismo”, cioè per un’azione riformatrice tesa allo sviluppo graduale del capitalismo verso un socialismo democratico, sostanzialmente estraneo a i metodi violenti (il che fece di lui, in un’epoca di forsennati, sedicenti rivoluzionari di destra e di sinistra, un bersaglio dei contrapposti odi di fazioni polarizzate agli estremi); per l’estrema competenza, dedizione e tenacia con cui svolse suo dovere di parlamentare (esaminò a fondo il bilancio dello Stato e denunciò l’illegalismo fascista non soltanto in campo penale ma anche elettorale e amministrativo); andrebbe, infine, ricordato il suo profilo di uomo mite, di marito devoto, di padre condannato all’assenza dalla persecuzione (lo struggente carteggio con la moglie Velia rende testimonianza di fragilità, tormenti, perfino della sua intima disperazione). Poi, certo, non si deve dimenticare calvario e martirio del leader socialista. Il martirio fu atroce, il calvario fu lungo, sconsolante e sconsolato. Come avrebbe detto il poeta, Giacomo Matteotti fu ucciso molte volte prima di essere ammazzato. Fu ucciso dall’indifferenza degli ignavi, dal tradimento dei compagni inclini al compromesso o all’oltranzismo velleitario, soprattutto fu ucciso in vita dal vile accanimento dei fascisti che lo avevano eletto a nemico. Lo bandirono dalla sua casa, dalla sua terra, lo sequestrarono, lo torturarono, lo braccarono per anni con una persecuzione spietata. E, sopra ogni altra cosa, lo oltraggiarono, lui uomo integerrimo, nella reputazione prima che nel corpo, uccidendolo un poco ogni giorno con la calunnia, il discredito, la diffamazione. A lui, erede di una ricca famiglia di agrari che aveva sposato la causa dei miserabili, rimproveravano con meschini cenni di scherno di essere “il socialista impellicciato” (oggi lo taccerebbero di essere un radical chic). Soltanto in questo modo, mettendo la morte orribile di Giacomo Matteotti nella prospettiva della sua vita operosa, se ne comprende e riceve il lascito. Io credo che consista nel significato autentico, pieno e durevole della parola “antifascista”. Giacomo Matteotti ci insegnò che essere antifascista non significa abbandonarsi a un conato di mero contrasto, essere contro qualcosa o qualcuno, magari fino al punto di farsi ammazzare. Matteotti ci insegnò, piuttosto, che l’antifascismo dischiude un ampio ventaglio di valori positivi, di azioni propositive, di passioni creative. L’antifascismo, a dispetto del suo prefisso, è innanzitutto a favore, è per qualcosa, prima di essere contro; è per la democrazia, dunque contro il dispotismo (sia esso dittatura aperta oppure autocrazia, autoritarismo, intolleranza); è per la pace, dunque contro la guerra (salvo in rarissimi casi di necessità); è per il progresso, dunque contro la reazione; è per la ragione, dunque contro la violenza; è per la legalità, dunque contro l’illegalismo; è per il lavoro, dunque contro lo sfruttamento; è per la comunione internazionale tra i popoli, dunque i nazionalismi (in ogni declinazione, compreso quella sovranista); per la tenue speranza nel futuro contro la rabbiosa nostalgia del passato, per la fragile bellezza del Parlamento contro la seduzione dell’uomo forte, per i diritti di tutti contro l’arbitrio dei molti. «Vasto programma», commenteranno i cinici con il loro eterno ghigno di supponenza. Sì, vasto programma. Oggi come ieri. Ieri come oggi.

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