"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 22 giugno 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 85 Vito Teti: «Il luogo da cui si fugge spesso è un inferno, segnato da miseria, prepotenze, violenze, controllo sociale, invidie, pettegolezzi, ma l'approdo non è un paradiso, anzi spesso diventa il posto del disincanto».

       Sopra. Immagine di Catanzaro pervenutami dalla cara amica Agnese A.

(…). Cura dei luoghi significa anche farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere o edulcorare, nascondere o rifiutare in ogni modo. Cura è saper fare i conti con il dolore. L'avere cura è un paradigma etico, morale, estetico. Cura significa avere attenzione per le persone, per i rapporti, per i legami. La cura ha una visione globale del corpo, del corpo-paese, del corpo-comunità e dell'alterità che al corpo si accosta. L'alternativa fuggire-restare è raccontata da tutti i grandi autori meridionali e spesso costituisce un lacerante dilemma che segna la loro esistenza e le loro opere. Il luogo da cui si fugge spesso è un inferno, segnato da miseria, prepotenze, violenze, controllo sociale, invidie, pettegolezzi, ma l'approdo non è un paradiso, anzi spesso diventa il posto del disincanto. In una lettera del 12 dicembre del 1937 a Mario La Cava, inviata da Roma, Seminara scrive: «Ma io non mi do ancora per vinto. e mi batterò come un leone per non essere costretto a tornare nell'inferno del mio paese; sebbene sappia [fino ad ora] che la vittoria, se riuscirò a conseguirla, mi costerà lacrime e sangue» (La Cava e Seminara 202 r, p. 54). Restare in nessun caso può essere accostato all'immobilità, alla scelta di non confrontarsi con l'alterità o di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio. Restare non significa arroccarsi e comporta perfino una maniera spaesante di abitare, i cui esiti possono essere più scioccanti di un viaggio, più rivoluzionari di un'esperienza in una terra sconosciuta. Restare può fare paura, perché i paesi disabitati possono diventare specchio della nostra frammentazione interiore. Ma restare è anche un'arte, un'invenzione; un esercizio critico che si oppone allo sguardo oggettivante, retorico, a quella visione angusta che impedisce di pensare, ancor prima di tentare, qualsiasi cambiamento. Come ha scritto Mario La Cava: «Non è necessario lasciare la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più delle gambe degli uomini» (Malafarina 1988). Da bambino, mia madre mi ripeteva: «non hai ricetto» («non hai pace», «non riesci a star fermo»). Ero irrequieto, instancabile, forse già in fuga in mille posti reali e mentali. Questo tratto del mio carattere è durato una vita e dura ancora. Ho, però, ricordo vivo, già da quel tempo, del proverbio che ammoniva: «La pietra che non ha lippu si la porta la fiumara» (La pietra che non ha un buon appiglio se la porta via la fiumara). Anche questa necessità di sosta, di radicamento, di solidità ha fatto parte della mia esistenza. Radicamento e fuga, stanzialità e viaggio, abbandono e ricostruzione dei luoghi, sono sempre le parti di un intero. Non si resta o si fugge: si resta e si fugge. Di necessità, forse, ho fatto un mestiere intellettuale che necessitava di radicamento e di viaggio. Negli anni ho modificato il contenuto che portavo nella mia "casse tra degli attrezzi dell'antropologo", ho lavorato sul mio etnocentrismo, alla costruzione di uno sguardo presbite, ma tutte le volte che ho parlato di terre "inquiete" sapevo che il racconto era, inevitabilmente, autobiografico. E ancora così, anche in questo libro. (…). (Tratto da “La restanza” di Vito Teti – capitolo 13°, “Un’etica del restare”, pagg. 136/137 – pubblicato da Giulio Einaudi Editore, 2022). 

Ha scritto Antonello Caporale in «La “Restanza fa la Resistenza: un successo, almeno in libreria» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, sabato 22 di giugno 2024: “La restanza” è un libro vincente scritto da un "perdente": è il titolo del saggio che Vito Teti, raffinato studioso calabrese, chiuso a San Nicola da Crissa, nella Calabria perduta e sconosciuta, ha consegnato a Einaudi due anni fa. Era un modo per continuare nel suo interminabile, commovente cammino attraverso il sentimento dei luoghi (…). Invece il successo. Non partire ma restare, non fuggire ma combattere. Einaudi non avrebbe potuto immaginare di mandare in tipografia sei ristampe e avere tra le mani un long-seller: due anni dopo e circa ventimila copie vendute, numeri che oggi sono considerati strabilianti per uno scritto in controtendenza rispetto al moto ondoso della grande fuga dal Sud intesa, purtroppo, come la sola soglia di salvezza e di speranza per un futuro in cui la dignità non sia considerata pezza da piedi, strascico inutile, coda di paglia di un orgoglio inopportuno. Miracolo. Il fenomeno è dunque straordinariamente lontano da ogni principio della logica a cui stiamo abituandoci e va oltre i brevi e sapidi consumi culturali del nostro tempo. Ottocentomila giovani sono infatti negli ultimi anni già partiti. Hanno lasciato il Mezzogiorno, l'area - il dato è ufficiale - a maggior debito di sviluppo dell'Unione europea. I paesini stanno rinsecchendo fino a quasi scomparire, allineando le pietre davanti al ricordo di una vita che fu "e anche dove mi ostino ad abitare - dice Teti - siamo rimasti in ottocento poveri cristi dai quattromila che eravamo". Diciamolo subito però: "la restanza" non è una compassionevole forma di riconoscimento delle amate pietre, ma "una chiamata alle armi di una nuova generazione di combattenti". La chiamata alle armi? "Senza treni, senza strade, senza ospedali, restare è un gioco perso, un'attività neoromantica, un processo unicamente nostalgico. Mi infervoro, grido che questa voglia di tornare nei luoghi in cui si è nati o restare dove hai il tetto, la mamma, i nonni, dev'essere l'esito di un fatto straordinario. Deve muoversi la politica e cambiare i connotati, il volto perduto dei mille che hanno sprecato, sperperato, distrutto, mangiato il cuore del Sud. Io spingo il carretto della memoria con le mie sole forze e sogno la rivoluzione: un atto di ribellione democratico, pacifico ma corale. Una insubordinazione consapevole e collettiva frutto di una indignazione misurata ma comunitaria. Dev'esserci ragione e sentimento nell'atto di ribellione che auspico". Nessun partito pare però interessato a coltivare la voglia taciuta di un territorio che offrirebbe il meglio solo se potesse: "Mi scrivono in tanti, ritornerebbero in tanti se solo potessero liberare il proprio talento, misurare le capacità, valorizzare equamente le proprie competenze. Ho due figli, uno dei quali vive a Zurigo, l'altro a Roma. Chiedo anch'io: devono tornare ma devono sapere cosa fare". Il Sud si sta spegnendo nella trascuratezza del potere pubblicò. C'è chi vagheggia l'estetica delle rovine nell'idea che il muro sbrecciato diventi il fondale della speranza e il vuoto di anime l'orizzonte di chi lascia la periferia caotica per respirare - magari per mezza giornata - l'aria di queste terre perdute. Invece il senso nuovo della chiamata alle armi da parte di Teti: per restare bisogna lottare, ma lottare per vincere. Piegare le vecchie abitudini, mescolare le carte, trasformare questo ospizio a cielo aperto che oggi è il Mezzogiorno nel teatro di scena di una guerra finalmente giusta.

LetterAperta”. “Meloni e Schlein andate a San Luca”, testo di Stefano Massini pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi: Cara Giorgia Meloni, cara Elly Schlein, è a voi che mi rivolgo, insieme, chiamando a testimoni i lettori di Repubblica. Lo faccio per raccontarvi una storia, e al tempo stesso per chiedervi un impegno che investe il senso stesso dello Stato e delle sue fondamenta democratiche. La sopravvivenza della democrazia, spesso data per scontata, diventa infatti un capitale a rischio se la paura prende il sopravvento. Ed è ciò che sta accadendo a San Luca, in Calabria. Il comune sull’Aspromonte che diede i natali a Corrado Alvaro è più tristemente noto per le vicende di criminalità organizzata, culminate con la strage di Duisburg che affondò nel sangue e nei cadaveri un’antica guerra fra famiglie e cosche, per l’esattezza i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio. La chiamano la capitale della droga, ma ancora prima lo era stata dei sequestri, e negli ultimi anni la magistratura ha ricostruito che da San Luca passava anche il traffico dei rifiuti tossici, in una rete ramificata di corruzioni e di favori, omertà e raid paramilitari, con quell’icona potente della nave Jolly Rosso misteriosamente arenata sul lido di Amantea. Un fiume travolgente di denaro e di morte, che inebria le famiglie di questa cittadina montanara trascinandole in una Gomorra feroce, la cosiddetta Faida di San Luca iniziata ben trentatre anni fa, e da allora fonte di violenza non solo alle latitudini locali, come dimostra la mattanza ferragostana del 2007. E dire che tutto iniziò da un lancio di uova. Sembra di stare dentro “Romeo e Giulietta”, con i Montecchi e i Capuleti che con licenza di Shakespeare si insultano in lingua calabra. Era dunque il Carnevale del 1991, quando alcuni ragazzotti gettarono le suddette contro la facciata di un circolo Arci controllato dai rivali, colpendo l’automobile di un pezzo grosso del clan, e da lì in poi è stato un precipitare, di cui hanno fatto le spese ovviamente tutti, fino ad approdare a questo nostro Anno Domini 2024, nel cui Election Day San Luca avrebbe dovuto eleggere un nuovo sindaco. Risultato? Urne vuote, seggi deserti. E non perché l’astensione abbia colpito duro, bensì per l’incredibile ragione che non c’era nessuno da votare, nessun candidato, nessuna lista. Si è già insediato l’ennesimo commissario, che qui è un’abitudine e al tempo stesso il simbolo di una resa, quella resa che si contrappone alla normale dialettica democratica che voi due, Giorgia ed Elly, incarnate in quanto rappresentanti dei due maggiori partiti italiani. Avete vinto le elezioni europee dell’8-9 giugno, ma in quel rito laico che si è tenuto in tutto il continente, c’era la minuscola macchia di un municipio su cui sventola la bandiera nazionale senza che nessun cittadino (su 3500 all’anagrafe) abbia voglia di indossare la fascia di primo cittadino. È una sconfitta, ed è una ferita non solo per San Luca, ma per l’intero Mezzogiorno e per l’Italia tutta, credo. Sì, sono convinto che l’abisso della democrazia stia tutto nelle parole rassegnate del sindaco uscente Bruno Bartolo, che al termine dei cinque anni di mandato ha espresso lo sconforto dell’abbandono, l’inutilità dello sforzo, la “pesantezza” della missione, e quindi la decisione di non ripresentarsi. E non si può non restare attoniti quando Bartolo ribadisce che a San Luca ci sarebbero, in teoria, professionisti in gamba a cui rimettere il progetto di un Rinascimento locale, e parliamo di insegnanti, di medici, di ingegneri. Peccato che nessuno abbia il coraggio di mettere nome e faccia su quella che a tutti gli effetti pare un’utopia, cioè far vincere il sistema democratico sulla liturgia tribale del ricatto e del controllo criminale del territorio. Nel 2024, in Italia, c’è ancora una porzione di Stato in cui lo Stato non riesce, non c’è, non convince, al punto tale che “cercasi sindaco disperatamente”, e ahimè inutilmente. L’esito è sotto gli occhi di tutti, e dunque in queste ore c’è da scommettere che a San Luca qualcuno starà festeggiando, proprio come Giorgia ed Elly hanno festeggiato il loro alloro elettorale. Nessuno si candida? È la loro vittoria, se ripensiamo alle parole di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che indicavano l’humus della criminalità proprio nella latitanza o nell’assenza dello Stato, in una forma implicita di abdicazione al potere delle cosche o in questo caso delle ‘ndrine. E poi, come non bastasse, racconto questa storia perché è anche una storia di donne umiliate e schiacciate, che a San Luca colgono i frutti più nefasti del pregiudizio ma cercano tuttavia di rialzarsi, tenacemente, sull’esempio di Rosy Canale che qui aprì un’eroica bottega di saponi e di ricami per le sanluchesi disoccupate. Un fiore dentro il fango, che le cosiddette Istituzioni dovrebbero tutelare, perché in fondo la politica è la scienza del migliorare un popolo, assecondandone le vocazioni. Per questo vi scrivo, Giorgia ed Elly, per proporvi un gesto importante, che demarchi con chiarezza la presenza dello Stato e la sua volontà di non lasciare indietro nessuno. Sarebbe bellissimo se le due donne leader del principale partito di destra e di sinistra accettassero di candidarsi a sindaco di San Luca, portando proprio lì il confronto fra idee diverse e l’impegno per una società che riparta dalla scuola, dalla cultura, dalle infrastrutture e da tutto ciò che in quel lembo di terra ci appare un miraggio. Talvolta lanciare un segnale è indicativo di una rotta. Mi piace crederlo, e per questo vi lancio la sfida.

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