Sopra. "Note musicali", matita (2024) di Anna Fiore.
“ViteaConfronto”. 2 “Cronache di un’infanzia marziana”, testo di Andrew Sean Greer pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 9 di giugno ultimo: Mia madre era di una timidezza incredibile. Mio nonno, giardiniere, si era messo in testa di portarla alla fioritura come faceva nel suo lavoro con i vari tulipani e narcisi: ossia tenendola chiusa nella frescura buia della sua camera da letto per un mese e poi, all'arrivo della primavera, portandola fuori e lasciandocela. Con i fiori aveva sempre funzionato. Con mia madre, però, non funzionò. Il fatto era che la sua timidezza scaturiva da varie paure. Come la sua vita fuori presto rivelò. Tanto per cominciare aveva paura dell'altezza, cosa che costituiva un problema, dato che vivevano a Maratea, sulla scogliera. Il famoso panorama della statua di Cristo le dava la sensazione di precipitare in un vuoto senza fine, e lei a fatica si avventurava fino ai margini dell'abitato senza un brivido di terrore. Ma peggio di tutto, comunque, era la sua paura più grande: quella delle chiese e Maratea ne ha quarantaquattro. Non riusciva ad andare e tornare dal mercato senza una paura tremenda; mi racconta che si schermava il viso con un velo, non per nasconderlo agli altri, ma per riparare la vista dalle chiese che la circondavano in ogni lato. Era una vita di terrore, e lei avrebbe voluto starsene sempre chiusa in casa. Anche mio padre era timidissimo, ma con paure diverse. Era nato dall'altro lato della Basilicata, a Matera. Aveva paura del buio. E delle scale. Ma il suo vero terrore era quello della storia. Aver paura della storia è terribile in qualunque parte del mondo, ma se abiti a Matera ancora di più. Ogni mattina si svegliava nello stesso sasso in cui i suoi antenati avevano vissuto per novemila anni. Sentiva nelle narici il fumo dei loro fuochi e nelle orecchie il chiacchiericcio delle loro lingue sconosciute, che si depositavano una sull'altra come gli strati di terra sopra una bara, e mio padre, sdraiato nel buio, si sentiva sepolto vivo dai suoi parenti. Così saltava fuori dal letto e correva dalla madre intenta a preparare il caffè nella sua cucina immacolata; correva fuori al sole. Il suo desiderio sarebbe stato stare sempre fuori. Ma là si trovava ad affrontare truppe romane e bizantine che arrancavano su per le scale, con le spade che lampeggiavano nel sole, e frecce che gli sibilavano accanto alla testa, e emiri musulmani baresi, e invasori normanni dai lunghi capelli biondi, longobardi e tramontani e napoleoni con i loro stendardi che sbatacchiano nel vento. Non c'era dove scappare, e nessuno lo capiva. Si incontrarono, mia madre e mio padre, in rete, su un sito di incontri che si chiamava LA TIMIDEZZA; un sito per le persone timide. All'inizio, racconta mio padre, divideva con lui l'amore per i cani e i libri, ma poi si era accorto di qual era la sua bestia nera: l'acqua. «Era troppo,» mi disse, «è ridicolo, aver paura dell'acqua». Ed era venuto fuori che aveva paura anche dei ponti. Ah, che creature disgraziate, quelli nati nel posto sbagliato! Mio padre disperava di poter mai incontrare qualcuno che lo capisse, finché capitò su una fotografia della mia bella mamma, nella sua casa, con fuori dalla finestra il giardino di suo padre tutto in fiore. Mio padre fuori, mia madre dentro. Si parlavano online; condividevano l'amore per i libri, per le storie d'avventura, per la scienza e l'astronomia, per le nuove tecnologie che adesso portavano le persone sulle stelle, a vivere su altri pianeti. Lui le chiese se potevano incontrarsi. Passarono molte settimane a decidere dove, dato che doveva essere un posto scarso di chiese e pieno di luce, e per mio padre più scevro possibile di tracce della storia. Così si trovarono a Potenza. E si innamorarono. Ma ovviamente lì non riuscirono a costruirsi una vita. Ci provarono; trovarono una casetta nella parte bassa della città dove mia madre avrebbe potuto creare il suo giardino, all'interno, e mio padre avrebbe potuto vendere i suoi libri, all'esterno. Ma la vita per i timidi non è facile. Anche se non è appollaiata su una scogliera, Potenza è pur sempre una delle città più alte d'Italia, e non è che ci si possano evitare le chiese, né tantomeno la storia. Mia madre tornò a mettersi il velo per andare e venire dal mercato. E a poco a poco per mio padre le ombre tornarono a riempirsi di saraceni e spagnoli e barboni, e delle bombe degli aerei alleati; la testa gli si riempiva del clangore di spade e motori. E così ritornarono tutte le loro paure, e loro tornarono a essere timidi, anche non l'uno con l'altra. Erano d'accordo sul fatto di dover lasciare Potenza, e la Basilicata, e proprio l'Italia, per sfuggire alle loro tante paure. Ma per andare dove? Dove avrebbero scovato un posto basso e piatto per una donna terrorizzata dall'altezza e libero da chiese e religioni? Un posto luminoso e aperto, senza scale in vista, e privo anche dalla minima traccia di storia? Libero dalla memoria del passato. Erano preoccupati che non esistesse un posto al mondo, per loro due. E non esisteva. Così fecero domanda per il nuovo programma per le famiglie desiderose di ignoto, famiglie che venivano viste come le più coraggiose del mondo, ma tra cui in realtà c'erano anche le più paurose. La domanda fu accolta, e loro partirono per un viaggio lunghissimo, e poco dopo il loro arrivo nacqui io. Ed è la ragione, questa, per cui io vivo su Marte.
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