"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 13 giugno 2024

Piccolegrandistorie. 76 Andrew Sean Greer: «Ma la vita per i timidi non è facile».

 

                          Sopra. "Note musicali", matita (2024) di Anna Fiore.

ViteaConfronto”. 1 Da “La cecità” (anni ’70 n.d.r.) di Jorge Luis Borges, testo riportato su “il Fatto Quotidiano” - con il titolo “Il giallo mi è fedele, il rosso no” – martedì 11 di giugno 2024: Nel corso delle mie molte, troppe conferenze, ho osservato che si preferisce il personale al generale, il concreto all'astratto. Perciò comincerò riferendomi alla mia modesta personale cecità. Modesta, in primo luogo, perché è totale a un occhio e parziale all'altro. Posso ancora riconoscere alcuni colori, posso ancora riconoscere il verde e il blu. C'è un colore che non mi è stato infedele, il giallo. Ricordo che da bambino (se mia sorella è qui lo ricorderà) mi trattenevo davanti a certe gabbie del giardino zoologico del barrio Palermo, precisamente quelle della tigre e del leopardo. Mi fermavo davanti all'oro e al nero della tigre; ancora oggi il giallo mi accompagna. Ho scritto una poesia intitolata L'oro delle tigri nella quale mi riferisco a questa amicizia. Voglio precisare una cosa che tendenzialmente si ignora, ma non so se sia generalizzata. La gente immagina il cieco chiuso in un mondo nero. C'è un verso di Shakespeare che giustificherebbe tale opinione: "Looking on dark ness which the blind do see", "Guardando l'oscurità che vedono i ciechi". Se per oscurità intendiamo il colore nero, il verso di Shakespeare è falso. Uno dei colori che i ciechi (o almeno questo cieco) rimpiangono è proprio il nero; l'altro è il rosso. Le rouge et le noir sono i colori di cui sentiamo la mancanza. Io, che ero abituato a dormire in completa oscurità, ho sofferto a lungo di dover dormire in questa specie di foschia, di foschia verdognola o azzurrina e vagamente luminosa che è il mondo del cieco. Avrei voluto adagiarmi nell'oscurità, appoggiarmi all'oscurità. Il rosso lo vedo come un vago marrone. Il mondo del cieco non è la notte che la gente immagina... Il cieco vive in un mondo abbastanza scomodo, un mondo indefinito dal quale emerge qualche colore: nel mio caso ancora il giallo, ancora il blu (anche se il blu può essere verde), ancora il verde (anche se il verde può essere blu). Il bianco è sparito o si confonde col grigio. Quanto al rosso, è sparito del tutto, ma spero prima o poi (sto seguendo una terapia) di migliorare e di poter vedere questo straordinario colore, questo colore che risplende in poesia e che ha nomi così belli in molte lingue. Pensiamo al tedesco scharlach, all'inglese scarlet, al nostro escarlata, al francese écarlate. Termini degni di questo straordinario colore, il rosso. Per il giallo, invece, lo spagnolo amarillo ha invece un che di debole, ma abbiamo il francese jaune, che ha la stessa origine, l'inglese yellow, così simile ad amarillo - che in spagnolo antico credo fosse amariello... Per le finalità di questa conferenza bisogna che cerchi un momento patetico. Diciamo, quello in cui mi resi conto di avere ormai perduto la vista, la mia vista di lettore e di scrittore. Perché non precisare la data, così degna di memoria? Il 1955... Nel corso della vita ho ricevuto molti onori immeritati, ma uno mi ha rallegrato più d'ogni altro, la direzione della Biblioteca Nacional. Ne fui incaricato, per motivi più politici che letterari, dal governo della Revolucion Libertadora (il golpe militare che destituì Per6n nel '55, ndr)... Non avevo mai sognato di poter diventare direttore della Biblioteca. I miei ricordi erano diversi. Ci andavo con mio padre, di sera. Lui, che era professore di psicologia, chiedeva qualche libro di Bergson o di William James, i suoi autori preferiti, o di Gustav Spiller. Io, troppo timido per chiedere un libro, cercavo un volume della Encyclopaedia Britannica o delle enciclopedie tedesche di Brockhaus o di Meyer. Ne sceglievo uno a caso, lo estraevo dagli scaffali laterali, e leggevo. Ricordo una sera in cui mi sentii ricompensato perché avevo letto tre voci: sui druidi, sui drusi e su Dryden, un dono delle lettere DR... Ottenni l’incarico alla fin del 1955; presi servizio, chiesi quanti fossero i volumi, mi dissero che erano un milione. Verificai in seguito che erano novecentomila, un numero più che sufficiente. A poco a poco mi resi conto della strana ironia degli eventi Io avevo sempre immaginato il Paradiso sotto la specie di una biblioteca. Altri pensano a un giardino, altri a un palazzo. Io stavo lì. Ero, in qualche modo, il centro di novecentomila volumi scritti in lingue diverse Constatai che a stento riuscivi a decifrarne i frontespizi e i dorsi. Fu allora che scrissi la Poesia dei doni, che inizia: "Nessuno a lacrime riduca o accuse/ questo attestato dell'alta maestria, di Dio, che con magnifica ironia/ mi ha destinato insieme libri e notte". Due doni che si contraddicono: i molti libri e la notte, l'incapacità di leggerli. Immaginai che l'autore della poesia fosse Groussac, perché anch'egli era stato direttore della Biblioteca, e anch'egli era cieco. Groussac fu più coraggioso di me; tacque. Ma pensai che c'erano momenti in cui le nostre vite coincidevano, giacché entrambi eravamo diventati ciechi e entrambi amavamo i libri. Lui aveva onorato la letteratura con opere certo superiori alle mie. Ma in fondo eravamo tutti e due uomini di lettere e percorrevamo la stessa biblioteca di libri proibiti.

ViteaConfronto”. 2 “Cronache di un’infanzia marziana”, testo di Andrew Sean Greer pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 9 di giugno ultimo: Mia madre era di una timidezza incredibile. Mio nonno, giardiniere, si era messo in testa di portarla alla fioritura come faceva nel suo lavoro con i vari tulipani e narcisi: ossia tenendola chiusa nella frescura buia della sua camera da letto per un mese e poi, all'arrivo della primavera, portandola fuori e lasciandocela. Con i fiori aveva sempre funzionato. Con mia madre, però, non funzionò. Il fatto era che la sua timidezza scaturiva da varie paure. Come la sua vita fuori presto rivelò. Tanto per cominciare aveva paura dell'altezza, cosa che costituiva un problema, dato che vivevano a Maratea, sulla scogliera. Il famoso panorama della statua di Cristo le dava la sensazione di precipitare in un vuoto senza fine, e lei a fatica si avventurava fino ai margini dell'abitato senza un brivido di terrore. Ma peggio di tutto, comunque, era la sua paura più grande: quella delle chiese e Maratea ne ha quarantaquattro. Non riusciva ad andare e tornare dal mercato senza una paura tremenda; mi racconta che si schermava il viso con un velo, non per nasconderlo agli altri, ma per riparare la vista dalle chiese che la circondavano in ogni lato. Era una vita di terrore, e lei avrebbe voluto starsene sempre chiusa in casa. Anche mio padre era timidissimo, ma con paure diverse. Era nato dall'altro lato della Basilicata, a Matera. Aveva paura del buio. E delle scale. Ma il suo vero terrore era quello della storia. Aver paura della storia è terribile in qualunque parte del mondo, ma se abiti a Matera ancora di più. Ogni mattina si svegliava nello stesso sasso in cui i suoi antenati avevano vissuto per novemila anni. Sentiva nelle narici il fumo dei loro fuochi e nelle orecchie il chiacchiericcio delle loro lingue sconosciute, che si depositavano una sull'altra come gli strati di terra sopra una bara, e mio padre, sdraiato nel buio, si sentiva sepolto vivo dai suoi parenti. Così saltava fuori dal letto e correva dalla madre intenta a preparare il caffè nella sua cucina immacolata; correva fuori al sole. Il suo desiderio sarebbe stato stare sempre fuori. Ma là si trovava ad affrontare truppe romane e bizantine che arrancavano su per le scale, con le spade che lampeggiavano nel sole, e frecce che gli sibilavano accanto alla testa, e emiri musulmani baresi, e invasori normanni dai lunghi capelli biondi, longobardi e tramontani e napoleoni con i loro stendardi che sbatacchiano nel vento. Non c'era dove scappare, e nessuno lo capiva. Si incontrarono, mia madre e mio padre, in rete, su un sito di incontri che si chiamava LA TIMIDEZZA; un sito per le persone timide. All'inizio, racconta mio padre, divideva con lui l'amore per i cani e i libri, ma poi si era accorto di qual era la sua bestia nera: l'acqua. «Era troppo,» mi disse, «è ridicolo, aver paura dell'acqua».  Ed era venuto fuori che aveva paura anche dei ponti.  Ah, che creature disgraziate, quelli nati nel posto sbagliato! Mio padre disperava di poter mai incontrare qualcuno che lo capisse, finché capitò su una fotografia della mia bella mamma, nella sua casa, con fuori dalla finestra il giardino di suo padre tutto in fiore. Mio padre fuori, mia madre dentro. Si parlavano online; condividevano l'amore per i libri, per le storie d'avventura, per la scienza e l'astronomia, per le nuove tecnologie che adesso portavano le persone sulle stelle, a vivere su altri pianeti. Lui le chiese se potevano incontrarsi. Passarono molte settimane a decidere dove, dato che doveva essere un posto scarso di chiese e pieno di luce, e per mio padre più scevro possibile di tracce della storia. Così si trovarono a Potenza. E si innamorarono. Ma ovviamente lì non riuscirono a costruirsi una vita. Ci provarono; trovarono una casetta nella parte bassa della città dove mia madre avrebbe potuto creare il suo giardino, all'interno, e mio padre avrebbe potuto vendere i suoi libri, all'esterno. Ma la vita per i timidi non è facile. Anche se non è appollaiata su una scogliera, Potenza è pur sempre una delle città più alte d'Italia, e non è che ci si possano evitare le chiese, né tantomeno la storia. Mia madre tornò a mettersi il velo per andare e venire dal mercato. E a poco a poco per mio padre le ombre tornarono a riempirsi di saraceni e spagnoli e barboni, e delle bombe degli aerei alleati; la testa gli si riempiva del clangore di spade e motori. E così ritornarono tutte le loro paure, e loro tornarono a essere timidi, anche non l'uno con l'altra. Erano d'accordo sul fatto di dover lasciare Potenza, e la Basilicata, e proprio l'Italia, per sfuggire alle loro tante paure. Ma per andare dove? Dove avrebbero scovato un posto basso e piatto per una donna terrorizzata dall'altezza e libero da chiese e religioni? Un posto luminoso e aperto, senza scale in vista, e privo anche dalla minima traccia di storia? Libero dalla memoria del passato. Erano preoccupati che non esistesse un posto al mondo, per loro due. E non esisteva. Così fecero domanda per il nuovo programma per le famiglie desiderose di ignoto, famiglie che venivano viste come le più coraggiose del mondo, ma tra cui in realtà c'erano anche le più paurose. La domanda fu accolta, e loro partirono per un viaggio lunghissimo, e poco dopo il loro arrivo nacqui io. Ed è la ragione, questa, per cui io vivo su Marte.

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