Sopra. "Ragazza alla finestra", matita (2024) di Anna Fiore.
“StoriediDonne”. 2 “Il nostro unicorno”, testo di Elena Stancanelli sullo stesso numero editoriale del settimanale “d”: Moana Pozzi, nata a Genova il 27 aprile 1961, era affamata di bellezza. (…). Moana era una donna brillante, che desiderava veder brillare tutto quello che teneva intorno a sé. Uomini, oggetti, persino la professione di pornostar, che era riuscita a rendere elegante come mai prima di lei. Questa brillantezza è anche una definizione abbastanza esatta di carisma, la dote di chi entrando in una stanza o inaugurando una conversazione attira immediatamente tutti gli sguardi. Doveva essere il 1990 o il 1991 e io frequentavo l'Accademia d'arte drammatica a Roma. Che ha una sede, un teatrino, in una piccola e acciottolata via del centro. Un giorno io e la mia classe di talentuosi aspiranti artisti, eravamo in pausa sfumacchiando e discorrendo di Beckett e altre facezie da attori con le schiene poggiate contro il muro. Di colpo, come un vento ci avesse portato via la facoltà di parola, ci azzittiamo, a bocca aperta. Davanti ai nostri occhi di ventenni presuntuosi passa la donna più bella del mondo. Ancheggiava sui tacchi alti, dentro un tailleur che mi ricordo rosso, ma potrebbe essere anche l'alone, lo scintillio che produceva nell'attrito con quel corpo stupefacente. Di certo i lunghi capelli biondi le ballavano sulle spalle, perfettamente acconciati e perfettamente naturali. Lo avete capito: quella donna era Moana Pozzi e io non credo di aver mai più visto niente di simile. Era sovrannaturale, fendeva l'aria, veleggiava miracolosamente sui tacchi a spillo, sorrideva al mondo intorno. Sono passati tanti anni e quella sensazione in me è intatta. (…). Moana era una donna di luce e aveva un dono, "era alimentata da una doppia corrente che ne collegava l'anima e la sensualità, il suo io sessuale e quello spirituale. Possedeva un polo primario dove il corpo, il sesso, la bellezza fisica erano indistinguibili dall'impronta dell'interiorità". Quanto ha a che fare tutto questo con la felicità, o almeno la capacità di vivere bene? Daniel Mendelsohn è uno studioso di lettere classiche americano, ma anche critico letterario e traduttore che scrive libri di irresistibile bizzarria, colti e divertenti. L'ultimo si intitola Estasi e terrore. Dai greci a Mad Men ed è pubblicato (…) da Einaudi. Uno dei capitoli è dedicato a un romanzo che fece scalpore, anche per la sua mole, 1.094 pagine: Una vita come tante, di Hanya Yanagihara (Sellerio). Un libro che è stato un gigantesco successo editoriale, un po' sorprendente per un mélo queer che intreccia le vite di quattro personaggi non simpaticissimi. Mendelsohn si avventura nella difficilissima arte di cercare di capire, sia pure a posteriori, le ragioni del successo di qualcosa. E per farlo tira fuori questa frase, apparsa in un articolo uscito su Newsweek: "La declinante resilienza degli adolescenti". Una studente aveva chiesto il sostegno psicologico perché la sua compagna di stanza le aveva dato della puttana, un altro perché aveva visto un topo nel suo appartamento... in· somma, dice Mendelsohn "molti lettori sono arrivati all'età adulta in istituzioni educative dove un senso generalizzato di smarrimenti e una grave forma d'ansia sono la norma". A tutti loro il libro di Yanagihara, con la sua interminabile sequela di violenza punitiva senza giustificazione estetica, appare confortante. "Questo libro e i suoi sostenitori", scrive, "sembrano legati da un disgusto e una disagio reciproci". Vi chiederete cosa c'entra Moana con Hanya Yanagihara. Niente di niente, ed è proprio questo il punto. Esausti e tremanti guardiamo ormai alla dea del sesso come al miraggio di una felicità non più alla nostra portata. Amiamo Moana per la sua bellezza, il coraggio, il carisma, la libertà, la luccicanza che sprigionano tutte dallo stesso centro: il piacere. Il nostro unicorno.
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