“Berlinguer-Almirante. Gli incontri segreti negli anni del terrore”, testo di Antonio Padellaro pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di giugno ultimo: Il primo ad arrivare fu Berlinguer. Giungere in ritardo agli appuntamenti lo metteva a disagio, bastava una piccola negligenza a scombinargli la geometria dei pensieri. Da sempre si era abituato a programmare le giornate secondo un ordine prestabilito. Per esempio, il caffè mattutino, che sorbiva con un velo di latte, acquistato sempre la sera prima, sempre nel solito bar. Almirante si era fatto lasciare dall'autista in una viuzza poco distante dal Parlamento. Amava camminare, gli piaceva essere riconosciuto, ogni tanto sostava davanti a una vetrina quasi per sentire sul cappotto grigio spinato, che indossava con la lobbia, anch'essa grigia, gli sguardi curiosi dei passanti: "Lo hai visto? Sì, è proprio lui". La stanza di Montecitorio era abbastanza spaziosa da contenere un divano e due poltrone di cuoio rosso, un tavolino basso con le gambe di legno intagliato e il ripiano di cristallo con un piccolo portacenere senza cenere. Sulle pareti, due stampe di contenuto risorgimentale. Appeso al soffitto, un lampadario dai tre bracci di vetro soffiato. Una scrivania addobbata con una lampada dal paralume verde e un completo da scrittoio dello stesso colore del divano. La porta si aprì, Enrico Berlinguer andò incontro a Giorgio Almirante e per la prima volta si accorse che aveva pupille immobili, glacialmente azzurre. È tutto accaduto, più o meno. Conosciamo i loro nomi. Sappiamo che si incontrarono per quattro o sei volte tra il 1978 e il 1979- Sappiamo. Che il luogo prescelto era una stanza, accanto alla Commissione Lavoro, all'ultimo piano di palazzo Montecitorio, a Roma. Sappiamo che si vedevano preferibilmente il venerdì pomeriggio quando, con i deputati ripartiti verso i collegi di appartenenza, il palazzo era semideserto. Sappiamo che soltanto quattro uomini sapevano. Sappiamo che tre di essi sono morti. Sappiamo di non sapere altro. Ma anche molto di più. È rimasto un solo testimone. Si chiama Massimo Magliaro. All'epoca era il portavoce di Almirante e il capo dell'ufficio stampa del Msi. Antonio Tatò (detto Tonino), il secondo testimone, ricopriva lo stesso incarico nel Pci, ma con maggiore visibilità. È morto nel 1992. Berlinguer nel 1984. Almirante nel 1988. Di questa storia Magliaro ne accennò la prima volta al giornalista Sebastiano Messina (durante un viaggio in aereo, ha raccontato) agli inizi del 1998. Dopo un successivo incontro, Messina ne ricavò un articolo pubblicato su Repubblica nel marzo dello stesso anno, dal titolo: "Almirante e Berlinguer quegli incontri segreti". Uno scoop, come si dice in gergo, che tuttavia non ebbe la risonanza che meritava. Il tema fu ripreso nel 2017 nel libro Destra senza veli del giornalista e scrittore Adalberto Balboni. Il perché di questi incontri? Almirante e Berlinguer avevano deciso di scambiarsi informazioni riservate sui "terroristi rossi e neri che tenevano l'Italia sotto una cappa di terrore e di sangue". Parole queste, come si ricava dall'articolo di Messina, frutto presumibilmente dei ricordi di Magliaro. Che, tuttavia, disse al collega "di non avere ricevuto una sola confidenza sul contenuto dei colloqui". Eppure, Almirante, di cui egli era l'ombra, qualcosa ebbe a riferirgli a proposito di quei terroristi rossi e neri. È anche possibile che sia stata l'ombra stessa a capire (e carpire) l'indicibile sulla base di qualche traccia lasciata cadere dal suo leader di ritorno dalle segrete missioni, come si fa con la cenere di una sigaretta. Forse fu soltanto un filo di fumo, almeno a dare retta all'unica confidenza che Magliaro dice di aver ricevuto dal segretario missino dopo il primo incontro. Questa: "Ricordo solo che quella volta Almirante mi confidò: 'Quell'uomo è un avversario leale e corretto'. Non precisò neppure se ci sarebbero stati altri incontri". Questo e molto altro su quegli incontri segreti ho raccontato nel mio libro Il gesto di Almirante e Berlinguer. Sei anni più tardi. Fu in via del Tritone, fermi al semaforo che segna il rosso. L'autista sa che al verde procederà per la salita di via delle Quattro Fontane verso la sede del partito con il portone elettrico ancora chiuso, di questi tempi non si sa mai. È in quel preciso istante che Almirante decide: "Prendi il traforo" dice all'autista. L'ombra non capisce e chiede: "Dove stiamo andando?" Almirante non risponde. Nell'oscurità del tunnel sente che deve farlo, e anche che non deve farlo. Prima ha telefonato a qualcuno, gli hanno risposto che: "Va bene, venga pure, la stiamo aspettando all'ingresso". Sa che sarà accolto con rispetto, ma teme la folla, la tensione che c'è nell'aria, qualche gesto sconsiderato. L'auto procede fino a piazza Venezia, a passo d'uomo tra la folla di uomini e donne che camminano in silenzio. Almirante dice: "Scendo qui". Si rivolge all'ombra: "Tu non venire". L'ombra pensa: lo linceranno. Lo segue a distanza. Almirante si gira e gli fa segno di no. È mezzogiorno, siamo a giugno, fa molto caldo. Almirante procede tra la folla del popolo comunista. Lo riconoscono: lui che ci fa qui? Lo lasciano passare. Nessuno fiata. Varca il portone delle Botteghe Oscure. Gli fanno strada i dignitari del grande partito in lutto. Ritto, con il suo abito grigio, sosta al centro della camera ardente. Si fa il segno della croce e leggermente si inchina di fronte alla cassa di legno chiaro. Dirà: "Sono venuto a rendere omaggio a un uomo da cui mi ha diviso tutto ma che ho sempre apprezzato e stimato". Forse Enrico Berlinguer è ricordato più per la sua morte che per la sua vita. Onestamente, oggi che cosa ricordiamo (che cosa ricordo) della sua storia politica? Del comunista? Del segretario del Pci? Dei suoi discorsi? Dei suoi articoli? Nella memoria è rimasto qualcosa dei suoi scontri con Mosca ai tempi del Pcus. E forse anche rammentiamo l'istantanea di Roberto Benigni che lo prende in braccio: qualcosa di sorprendente e quindi di straordinario. In fondo è ciò che chiediamo tutti: essere sorpresi da ciò che pure pensiamo di conoscere bene. Sarà una rivelazione che resterà impressa per sempre nella nostra memoria se avrà fatto vibrare la corda sensibile che ci diverte, ci commuove, ci emoziona.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 15 giugno 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 84 Giorgio Almirante ai funerali di Berlinguer: «Sono venuto a rendere omaggio a un uomo da cui mi ha diviso tutto ma che ho sempre apprezzato e stimato».
(…), la tormentata stagione di Berlinguer è
stata segnata dalla volontà di dare al suo Pci una diversa collocazione
internazionale fino a portarlo su una strada europea del tutto autonoma da
Mosca; ma questa strategia ha a sua volta pesato sulle questioni di politica
nazionale e nei rapporti con gli altri partiti, costringendo il segretario a
fare i conti all’interno del Pci con la coriacea ala restia a rompere del tutto
con Mosca, ma anche con quella altrettanto robusta che invocava amicizia con il
Psi del Midas e una svolta decisamente socialdemocratica che forse Berlinguer
non ha mai avuto in animo di fare. Spesso, insomma, il più amato dei leader del
Pci è stato nelle sue scelte tanto coraggioso quanto solo. Da subito. È ancora
il vice di Luigi Longo quando nel 1969, un anno dopo il «vivo dissenso e
riprovazione» per i carri armati a Praga, parlando alla conferenza
internazionale dei partiti comunisti osa respingere l’idea di un unico modello
di società socialista: per la ferrea legge della guerra fredda era come
dichiararsi nemico dell’Urss. Nel settembre del 1973, segretario da un anno,
scrive per “Rinascita” il primo dei tre articoli con i quali lancia la
strategia del compromesso storico: ma la possibilità che il Pci entri nell’area
di governo preoccupa sia Mosca sia Washington, mette in discussione delicati
equilibri. Pochi giorni dopo, su un viadotto alla periferia di Sofia, un camion
si lancia contro la Chaika di Berlinguer, che ne esce vivo per miracolo.
Convinto si tratti di un attentato, quando torna a Roma confessa i suoi
sospetti solo alla moglie e a Emanuele Macaluso: una pubblica denuncia avrebbe
portato come conseguenza la rottura definitiva con Mosca che non tutto il
partito condivideva. Addirittura vent’anni dopo, nel 1991, quando Macaluso
svela il giallo bulgaro in un’intervista a Fasanella, i big del partito – Natta
Galluzzi Bufalini – non vogliono crederci. Berlinguer in fondo è solo anche
quando nel 1976 confessa a Giampaolo Pansa di sentirsi più tranquillo sotto
l’ombrello della Nato o quando un anno dopo, il 31 ottobre 1977, a Mosca,
dinanzi ai big del Pcus rivendica il valore universale della democrazia. Fino
al crescendo finale e al fatidico 1981: la «seconda svolta di Salerno»
(copyright Macaluso), cioè l’abbandono del compromesso storico per
l’alternativa democratica (novembre 1980); l’intervista a Scalfari sulla
questione morale, la denuncia in tv su «l’esaurirsi della spinta propulsiva
dell’Urss» (dicembre 1981). La prima irrita l’ala migliorista che vede
allontanarsi il dialogo con i socialisti, la seconda preoccupa i più
conservatori. È di nuovo solo, tanto che a ottobre, in una drammatica riunione
della direzione del partito in cui propone la nomina di una squadra più
coerente con la svolta, Berlinguer va in minoranza, addirittura con un voto,
prassi assai rara. Alla fine la spunterà, ma gli ultimi anni saranno
travagliati assai e vedranno un Pci tutto nuovo, dilaniato da insanabili
contrasti interni e dal volto più radicale: scala mobile, diritti, pacifismo,
scontro feroce con i socialisti di Bettino Craxi (che poi lo accoglieranno al
loro congresso di Verona con una salva di fischi). Un altro Pci, un altro
Berlinguer. Già, ma quale stiamo commemorando? (Tratto da “La solitudine di Berlinguer” di Bruno
Manfellotto pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 7 di giugno 2024).
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