"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 25 giugno 2024

Piccolegrandistorie. 78 Daniel Mendelsohn: «La declinante resilienza degli adolescenti».

 

                  Sopra. "Ragazza alla finestra", matita (2024) di Anna Fiore.

StoriediDonne”. 1 “Desideri di silicone”, testo di Massimo Giannini pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 22 giugno 2024: (…). …pare che rifare il seno alle diciottenni sia diventata una moda dettata dai socia! Molte ragazze ricevono l'intervento di mastoplastica addirittura come regalo di compleanno, appena raggiunta la maggiore età. Non sapevo (…) ma una circolare del Ministero della Sanità del 2012 ha stabilito che operare al seno ragazze minorenni per fini esclusivamente estetici è illegale, e che per i medici che violano le regole è prevista una multa di 20 mila euro e la sospensione dalla professione per tre mesi. Per questo tante ragazze si fanno operare un minuto dopo aver spento le candeline del diciottesimo. Il problema (…) è che il numero delle neo-maggiorenni che si fanno ingrandire il seno sta aumentando vistosamente, fino ad equiparare le operate nella fascia d'età tra i 20 e i 24 anni, che sono il 10 per cento del totale. E il problema nel problema, a quanto sembra, è che mai, o molto raramente, a insistere per le protesi sono fidanzati o mariti (il che è curioso, perché da inesperto del ramo - la chirurgia estetica - ma da esperto del genere - il maschio italiano - mi sarei aspettato l'esatto contrario). E invece dal racconto (…) dei chirurghi estetici scopro che nella maggior parte dei casi queste ragazze ansiose di abbellire il proprio corpo per la festa d'ingresso nella maggiore età vengono quasi sempre con la mamma, e di solito è proprio la mamma a insistere di più, di fronte a tutti i tentativi di dissuasione. Segue la giusta indignazione deontologica (…). "La medicina non deve diventare una moda dettata dai social, non è possibile sottoporsi a un intervento chirurgico per poter postare il selfìe del prima e del dopo". Ha ragione. Ma io, a sorpresa, non riesco più a indignarmi. Né per le mamme, né per i selfie. Il pianto greco sugli adolescenti insicuri e irrisolti sta diventando quasi stucchevole. Come ho già scritto (…) per l'uso dello smartphone, che vorremmo vietare ai marmocchi dodicenni perché, signora mia questi ragazzi, mentre stiamo lì a riprenderci al concerto di Vasco: siamo noi adulti che scarichiamo sui giovani i nostri vezzi e i nostri vizi. Siamo noi che li soverchiamo con le nostre insicurezze. Le mamme che portano la figlia diciottenne in clinica per rifare il seno lo fanno non perché vogliono la felicità della loro "bambina". Ma perché - senza ammetterlo - chiedono mani libere per se stesse. Sono loro che faticano a fare i conti col corpo che invecchia, la ruga che scava, la pelle che avanza, la tetta che pende. Per questo si tagliano, si cuciono e si nutrono di botulino. Donne e anche uomini, sia chiaro. Vi ricordate La grande bellezza del divino Sorrentino, quando Massimo Popolizio nei panni del più venerato chirurgo plastico della civiltà contemporanea dispensa punturine a go-go come fossero ostie sacre a frotte di signore tumefatte, adoranti e cadenti? L'ha raccontato lui stesso: "Sul set avremo avuto almeno settanta comparse, e io non ho mai visto settanta persone più rifatte di quelle in tutta la mia vita". Ecco, quello è lo Zeitgeist. Io non ho nulla contro la chirurgia estetica, anche dai diciotto in poi. Certo, per stare bene con se stessi non dovrebbe servire un bisturi: meglio una solida autocoscienza. Ma se a questa umanità fragile e vacua bastano quattro etti di silicone per campare meglio, allora mi arrendo. Senza lamentarvi per i tempi che corrono, ma fatelo pure. (…).

StoriediDonne”. 2 “Il nostro unicorno”, testo di Elena Stancanelli sullo stesso numero editoriale del settimanale “d”: Moana Pozzi, nata a Genova il 27 aprile 1961, era affamata di bellezza. (…). Moana era una donna brillante, che desiderava veder brillare tutto quello che teneva intorno a sé. Uomini, oggetti, persino la professione di pornostar, che era riuscita a rendere elegante come mai prima di lei. Questa brillantezza è anche una definizione abbastanza esatta di carisma, la dote di chi entrando in una stanza o inaugurando una conversazione attira immediatamente tutti gli sguardi. Doveva essere il 1990 o il 1991 e io frequentavo l'Accademia d'arte drammatica a Roma. Che ha una sede, un teatrino, in una piccola e acciottolata via del centro. Un giorno io e la mia classe di talentuosi aspiranti artisti, eravamo in pausa sfumacchiando e discorrendo di Beckett e altre facezie da attori con le schiene poggiate contro il muro. Di colpo, come un vento ci avesse portato via la facoltà di parola, ci azzittiamo, a bocca aperta. Davanti ai nostri occhi di ventenni presuntuosi passa la donna più bella del mondo. Ancheggiava sui tacchi alti, dentro un tailleur che mi ricordo rosso, ma potrebbe essere anche l'alone, lo scintillio che produceva nell'attrito con quel corpo stupefacente. Di certo i lunghi capelli biondi le ballavano sulle spalle, perfettamente acconciati e perfettamente naturali. Lo avete capito: quella donna era Moana Pozzi e io non credo di aver mai più visto niente di simile. Era sovrannaturale, fendeva l'aria, veleggiava miracolosamente sui tacchi a spillo, sorrideva al mondo intorno. Sono passati tanti anni e quella sensazione in me è intatta. (…). Moana era una donna di luce e aveva un dono, "era alimentata da una doppia corrente che ne collegava l'anima e la sensualità, il suo io sessuale e quello spirituale. Possedeva un polo primario dove il corpo, il sesso, la bellezza fisica erano indistinguibili dall'impronta dell'interiorità". Quanto ha a che fare tutto questo con la felicità, o almeno la capacità di vivere bene? Daniel Mendelsohn è uno studioso di lettere classiche americano, ma anche critico letterario e traduttore che scrive libri di irresistibile bizzarria, colti e divertenti. L'ultimo si intitola Estasi e terrore. Dai greci a Mad Men ed è pubblicato (…) da Einaudi. Uno dei capitoli è dedicato a un romanzo che fece scalpore, anche per la sua mole, 1.094 pagine: Una vita come tante, di Hanya Yanagihara (Sellerio). Un libro che è stato un gigantesco successo editoriale, un po' sorprendente per un mélo queer che intreccia le vite di quattro personaggi non simpaticissimi. Mendelsohn si avventura nella difficilissima arte di cercare di capire, sia pure a posteriori, le ragioni del successo di qualcosa. E per farlo tira fuori questa frase, apparsa in un articolo uscito su Newsweek: "La declinante resilienza degli adolescenti". Una studente aveva chiesto il sostegno psicologico perché la sua compagna di stanza le aveva dato della puttana, un altro perché aveva visto un topo nel suo appartamento... in· somma, dice Mendelsohn "molti lettori sono arrivati all'età adulta in istituzioni educative dove un senso generalizzato di smarrimenti e una grave forma d'ansia sono la norma". A tutti loro il libro di Yanagihara, con la sua interminabile sequela di violenza punitiva senza giustificazione estetica, appare confortante. "Questo libro e i suoi sostenitori", scrive, "sembrano legati da un disgusto e una disagio reciproci". Vi chiederete cosa c'entra Moana con Hanya Yanagihara. Niente di niente, ed è proprio questo il punto. Esausti e tremanti guardiamo ormai alla dea del sesso come al miraggio di una felicità non più alla nostra portata. Amiamo Moana per la sua bellezza, il coraggio, il carisma, la libertà, la luccicanza che sprigionano tutte dallo stesso centro: il piacere. Il nostro unicorno.

lunedì 24 giugno 2024

Uomininiedio. 50 Veronica Tomassini: «La guerra è il cranio che ti esplode mentre forse stai pensando ancora una volta al sentiero da percorrere a ritroso, alla sostanza di un logorio che si chiama casa».


(…). Per quelli della mia generazione le commemorazioni belliche, dal Risorgimento in poi, sono pervase di stendardi al vento, sciabole sguainate, valor militare. Non ho memoria, né alle elementari né alle medie né al liceo, di immagini o parole che riportassero la guerra alla sua sostanza materiale, che è quella della morte violenta e dei cadaveri esposti alle mosche. È possibile che la mia prima percezione non retorica della guerra sia una poesia di Ungaretti: “Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato, con la sua bocca digrignata”. Si chiama Veglia, è ambientata sul Carso nella Prima Guerra Mondiale, forse era in un’antologia ginnasiale meno imbalsamata delle altre (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso), forse ce la fece leggere un/una prof più irrequieta della norma. Mi è sempre rimasta impressa. Poi venne la Guerra di Piero di De André, con i cadaveri dei soldati “portati in braccio dalla corrente”. La guerra è fonte secolare di retorica, non si contano i monumenti a generali o militi che grondano baldanza e patriottismo. È un passo avanti questo piegarsi su migliaia di giovani uomini freddati da un proiettile (i più fortunati) o sventrati e riversi nella sabbia, poi ricomposti in quelle distese di uguali che sono i cimiteri militari. La guerra è morte e fanfara, in questo caso la memoria della morte è stata più forte della fanfara. Segno di civiltà. (Tratto da “La morte e la fanfara” di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di giugno 2024).