“Ma poi mi rendo conto che il problema della
Stupidità ha la stessa valenza metafisica del problema del Male, anzi di più:
perché si può persino pensare (gnosticamente) che il male si annidi come possibilità
rimossa del seno stesso della Divinità; ma la Divinità
non può ospitare e concepire la Stupidità, e pertanto la sola presenza degli
stupidi nel Cosmo potrebbe testimoniare della Morte di Dio”. Umberto Eco
Colloquio di Umberto Eco con lo studioso e
traduttore Thomas Stauder contenuto nel volume “Colloqui con Umberto Ecco” – “La nave di Teseo” editrice, pagg. 336,
euro 25 – riportato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica”
dell’11 di febbraio 2024 con il titolo “La felicità era un baule pieno di libri”:
Ebbi
un'infanzia assolutamente normale in una famiglia della piccola borghesia, di
quelle che venivano però da una famiglia di artigiani: nonno materno sarto,
nonno paterno tipografo. Quest'ultimo
l'ho conosciuto pochissimo, perché è morto quando io avevo sei anni. Però
doveva essere un tipo molto curioso; era un tipografo socialista, di quei
socialisti umanitari. Per esempio organizzava degli scioperi, ma poi portava a
mangiare a casa sua i crumiri per paura che gli scioperanti li picchiassero.
Quindi ogni tanto i suoi figli vedevano arrivare a casa dei tipi tristissimi
che mangia-vano e allora i figli si dicevano: «I crumiri, i crumiri, c'è lo sciopero».
Era un grande atto di generosità, perché mio nonno aveva avuto tredici figli;
due erano morti - per l'epoca era un buon record-, quindi doveva mantenerne
undici, che era una cosa molto difficile. E gli ultimi li ha fatti - questo è
un aneddoto curioso - quando mio padre, il primo dei tredici, con un suo
fratello, il secondo dei tredici, combatteva sul Piave durante la Grande
Guerra. Lì, mio padre ha ricevuto la notizia che erano nati gli ultimi due
gemelli Giulietta e Romeo. Allora, rischiando il cannoneggiamento nemico, è
riuscito a raggiungere in un'altra trincea suo fratello, e, una volta insieme,
hanno detto: «Tiriamo la monetina per chi chiede la licenza. Bisogna andare a
casa e bloccare i nostri genitori; sennò, alla fine della guerra avremo anche
Paolo e Francesca». Dunque, questo mio nonno riusciva a portare avanti una
famiglia enorme; solo non trovavano mai un appartamento, perché i padroni di
casa, quando sentivano che lui aveva tanti figli, non lo volevano. Lui si
arrabbiava e diceva a mia nonna: «Oggi strangolo il primo figlio, poi il
secondo e così via. Quando saremo in tre, ci prenderà». Poi mio nonno ha
scoperto che la chiesa - credo che si chiamasse San Bernardino - aveva una
confraternita e che tra le proprietà della chiesa c'era una casa con
appartamenti in affitto. Era la confraternita che doveva decidere a chi si
davano questi appartamenti, però la confraternita era ormai deserta, non ci
andava più nessuno. Allora ci ha fatto iscrivere tutti i suoi figli di età
superiore ai quattordici anni e a San Bernardino erano felici che la
confraternita rifiorisse così. Quando si dovette votare a chi si dava
l'appartamento, la maggioranza votò per lui. Questo nonno, sulla fine della sua
vita, quando era già in pensione e non lavorava più come tipografo, faceva il
rilegatore di libri. Poco prima della sua morte andavamo a trovarlo e vedevo su
un bancone questi vecchi libri ottocenteschi ancora slegati - Dumas ecc., con
delle incisioni -, che hanno quindi cominciato ad alimentare la mia fantasia.
Poi, quando avevo circa dieci anni, ho scoperto in cantina una enorme cassa con
dei libri che nessuno aveva richiesto. C'erano intere annate di una rivista che
si chiamava Giornale illustrato dei viaggi. e delle avventure di terra e di
mare, quasi tutta di origine francese, con pagine a colori, con scene di orrore
e di guerra; c'erano molte vecchie edizioni, e c'era persino Darwin. Quindi ho
passato anni e anni a rovistare in questo cassone. Questo per dire che da
questo nonno, che praticamente non ho conosciuto, ho ricevuto un'eredità
immaginaria che è stata molto forte per la mia vita. Probabilmente senza questa
influenza non avrei scritto il tipo di romanzi che ho scritto, non avrei avuto
le mie curiosità per la letteratura popolare, la Trivialliteratur. Non ho
conosciuto neanche mio nonno materno, perché è morto nel 1918 durante la grande
epidemia dell'influenza spagnola, in cui morivano come mosche tante persone.
C'era però mia nonna materna, che era una donna di nessuna cultura - credo che
avesse fatto solo cinque anni di scuola elementare-, ed era una furibonda
lettrice. Era abbonata alle biblioteche circolanti e leggeva tutti i libri
senza discriminazione; poteva leggere dei narratori molto popolari, ma leggeva
anche Balzac e Dostoevskij e me li passava. Per cui ho avuto delle letture come
Le père Goriot, ho letto questo romanzo a dodici anni, non capivo neanche bene
cosa succedeva in tutte queste storie di adulterio. Mia nonna me lo aveva
passato, come ugualmente faceva con opere che si collocavano più nel filone
della letteratura giovanile, come per esempio Il piccolo alpino. Queste due
influenze, di mio nonno paterno e di mia nonna materna, di cui mi sono reso
conto solo quando ero adulto, le ho subite senza accorgermene, ma hanno
lasciato un segno. Come accennato prima, la mia famiglia apparteneva alla
piccola borghesia e i miei nonni erano degli artigiani. Il che voleva dire che
era la prima generazione con il cappello: mio papà andava col cappello e la
cravatta e mia mamma col cappellino. Il mondo si divideva tra signore - col
cappellino - e donne, che non lo avevano; tra signori - col cappello - e
uomini, che non lo avevano. Se suonava qualcuno col cappello, dicevo «Mamma,
c'è un signore»; se era senza cappello, dicevo «Mamma, c'è un uomo». I bambini
dovevano parlare soltanto italiano e non dialetto, per cui capisco il mio
dialetto di Alessandria, ma non l'ho mai parlato. E quando lo parlo, lo
confondo col francese. Il mio maestro elementare - che era fascista fervente e
ci parlava della marcia su Roma - all'epoca prendeva ancora a schiaffoni i
bambini che non avevano imparato la lezione, ma solo se erano figli di uomini,
non se erano figli di signori; questi ultimi li trattava invece con maggiore
rispetto. E, ripeto, per essere signore, bastava avere il cappello; poteva
andare da chi prendeva mille lire al mese a chi prendeva un milione al mese. Ho
citato questo perché era l'epoca in cui furoreggiava la canzone Se potessi
avere mille lire al mese, che dà un'immagine dell'Italia di quel tempo, in cui
mille lire al mese era considerato un grande stipendio. Ma in realtà la somma
non doveva essere così enorme, perché mi ricordo che mio papà - che era un tipo
molto silenzioso - un giorno arrivò a casa e, dopo aver mangiato, disse a mia
mamma: «Rita, l'avvocato mi ha regalato mille lire». L'avvocato era il padrone
dell'azienda in cui lui lavorava; in Piemonte tutte le persone laureate in
giurisprudenza venivano chiamate "avvocato", così come c'è ancora
oggi l'avvocato Agnelli. Io non so se mille lire era più del suo stipendio o
meno del suo stipendio, ma mi ricordo che mia mamma disse: «Giulio, allora
possiamo comperare la radio». Ammettendo che una radio non costasse pochissimo
come oggi, ma costasse come un televisore, questo era il valore del regalo che l'avvocato
gli aveva fatto. Fu una infanzia normalissima, in una famiglia non ricca, ma
neanche una famiglia in cui si pativa la fame. Evidentemente, ho attraversato
tutte le fasi dell'educazione fascista; sono stato "figlio della
lupa", "balilla" e "balilla moschettiere". Io sono
uscito dalla dittatura verso i dodici anni, quando c'è stata la caduta del
fascismo; anche se poi, durante l'ultimo anno e mezzo di guerra, c'era ancora
la propaganda fascista e dall'altra parte c'erano i partigiani. Sono il tipico
esempio di un giovane nato dieci anni dopo la presa del potere di Mussolini e
cresciuto sotto una educazione totalitaria pesante, che non ha lasciato nessuna
traccia, perché credo di essere un buon democratico. Posso capire quelli che
avevano sette, otto o dieci anni più di me - cioè, la generazione di Calvino -
che, mentre da un lato avevano all'università una educazione fascista, potevano
leggersi Benedetto Croce o avere notizia dell'esistenza di Marx. Questo spiega
come dai famosi gufi "Gruppi Universitari Fascisti" - siano venuti
fuori anche tutti i dirigenti comunisti, così come quelli che sono morti per la
Repubblica di Salò. Quella è un'altra generazione, ma dà qualche speranza
pensare che all'epoca c'era anche una generazione come la mia, che dai tre ai
dodici anni fu educata totalitariamente. Poi sono intervenuti altri elementi e
non è rimasta nessuna traccia di quel periodo se non la nostalgia. Per cui
adesso mi commuovo se trovo una pubblicazione fascista degli anni trenta,
perché mi ricorda l'infanzia; tutto quello che è legato all'infanzia diventa
magico, anche se fu doloroso o vissuto male. Appartengo all'ultima generazione
che ha vissuto la guerra e questo vuol dire conoscere la fame, dover riuscire a
trovare il cibo. Ricordo che quando c'era lo sfollamento e siamo andati ad
abitare nel Monferrato - da cui tutto il clima del Pendolo di Foucault -, la
mia povera mamma passava tutta la giornata a girare presso i contadini per
comprare un chilo di farina o mezzo coniglio, e spesso tornava piangendo,
perché non avevano voluto venderle niente. Abbiamo sempre mangiato qualcosa, ma
molte serate solo pasta di semola; forse ha fatto benissimo alla salute, non ci
è venuta l'ulcera, era un cibo sano e privo di grassi. Così ho vissuto la
guerra, nei suoi tre aspetti: l'uno, da puro spettatore, attraverso i giornali
e la radio. L'altro, da vittima specie durante la notte quando c'erano gli
aerei che ci volavano sopra e l'antiaerea. Non ho mai subito un vero
bombardamento, perché dopo una notte molto furiosa in cui i colpi
dell'antiaerea cadevano anche in strada e quindi potevano ammazzare qualcuno,
la famiglia ha deciso di portare noi bambini e la mamma nel Monferrato. Ma se
lì ho evitato i bombardamenti, sono stato invece testimone della guerriglia tra
fascisti e partigiani, imparando anche cosa si deve fare quando qualcuno
comincia a sparare: devi saltare dentro un fosso. Racconto sempre un episodio
che mi sembra esemplare. Nel 1968 ci trovavamo a Praga, quando sono arrivati i
russi. Mia moglie, pur avendo qualche anno meno di me, essendo una tedesca che
abitava a Berlino, aveva visto tutto della guerra. E c'erano anche altri due
nostri amici, Nanni Balestrini con la sua ragazza di allora, che avevano circa
quattro anni meno di me. Non è una grande differenza, ma significa che durante
la guerra stavano più chiusi in casa e perciò avevano visto meno cose. Eravamo
in questa Praga in piena rivolta, con i carri armati che passavano - non si
sapeva che cosa sarebbe accaduto, forse lo scoppio della terza guerra mondiale
-, e abbiamo girato due giorni e mezzo per la città aspettando notizie per
sapere da quale frontiera si poteva uscire. A un certo punto sentimmo colpi di
mitragliatrice e cercammo di capire da dove venivano. E mi sono accorto che i
nostri amici più giovani andavano nel mezzo della piazza, mentre io e mia
moglie - senza esserci messi d'accordo - stavamo con la schiena contro il muro
dove c'era l'angolo di una casa. Cioè, avevamo imparato che bisogna sempre
mettersi in posizioni con due vie di fuga. In un'altra situazione, in una
stradina della città vecchia, quando passava un carro armato che praticamente
occupava tutta quella stretta stradina, mentre i nostri amici si schiacciavano
contro il muro, mia moglie si schiacciava contro una porta. Avevamo elaborato
delle tecniche di sopravvivenza che le generazioni immediatamente posteriori
non hanno appreso. Infatti, c'è un episodio che racconto nel Pendolo, una
manifestazione a Milano con la polizia che caricava, e la maggior parte degli
studenti scappava lungo la via principale, mentre quelli più adulti scappavano
nelle vie secondarie. Nella via principale verrai sempre preso, mentre nelle
vie più piccole puoi allontanarti. È una cosa banale, ma se non l'hai imparata
da piccolo, non la sai.
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