"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 15 febbraio 2024

Piccolegrandistorie. 66 Umberto Eco: «La Divinità non può ospitare e concepire la Stupidità, e pertanto la sola presenza degli stupidi nel Cosmo potrebbe testimoniare della Morte di Dio».


“Ma poi mi rendo conto che il problema della Stupidità ha la stessa valenza metafisica del problema del Male, anzi di più: perché si può persino pensare (gnosticamente) che il male si annidi come possibilità rimossa del seno stesso della Divinità; ma la Divinità non può ospitare e concepire la Stupidità, e pertanto la sola presenza degli stupidi nel Cosmo potrebbe testimoniare della Morte di Dio”. Umberto Eco

Colloquio di Umberto Eco con lo studioso e traduttore Thomas Stauder contenuto nel volume “Colloqui con Umberto Ecco” – “La nave di Teseo” editrice, pagg. 336, euro 25 – riportato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” dell’11 di febbraio 2024 con il titolo “La felicità era un baule pieno di libri”: Ebbi un'infanzia assolutamente normale in una famiglia della piccola borghesia, di quelle che venivano però da una famiglia di artigiani: nonno materno sarto, nonno paterno tipografo.  Quest'ultimo l'ho conosciuto pochissimo, perché è morto quando io avevo sei anni. Però doveva essere un tipo molto curioso; era un tipografo socialista, di quei socialisti umanitari. Per esempio organizzava degli scioperi, ma poi portava a mangiare a casa sua i crumiri per paura che gli scioperanti li picchiassero. Quindi ogni tanto i suoi figli vedevano arrivare a casa dei tipi tristissimi che mangia-vano e allora i figli si dicevano: «I crumiri, i crumiri, c'è lo sciopero». Era un grande atto di generosità, perché mio nonno aveva avuto tredici figli; due erano morti - per l'epoca era un buon record-, quindi doveva mantenerne undici, che era una cosa molto difficile. E gli ultimi li ha fatti - questo è un aneddoto curioso - quando mio padre, il primo dei tredici, con un suo fratello, il secondo dei tredici, combatteva sul Piave durante la Grande Guerra. Lì, mio padre ha ricevuto la notizia che erano nati gli ultimi due gemelli Giulietta e Romeo. Allora, rischiando il cannoneggiamento nemico, è riuscito a raggiungere in un'altra trincea suo fratello, e, una volta insieme, hanno detto: «Tiriamo la monetina per chi chiede la licenza. Bisogna andare a casa e bloccare i nostri genitori; sennò, alla fine della guerra avremo anche Paolo e Francesca». Dunque, questo mio nonno riusciva a portare avanti una famiglia enorme; solo non trovavano mai un appartamento, perché i padroni di casa, quando sentivano che lui aveva tanti figli, non lo volevano. Lui si arrabbiava e diceva a mia nonna: «Oggi strangolo il primo figlio, poi il secondo e così via. Quando saremo in tre, ci prenderà». Poi mio nonno ha scoperto che la chiesa - credo che si chiamasse San Bernardino - aveva una confraternita e che tra le proprietà della chiesa c'era una casa con appartamenti in affitto. Era la confraternita che doveva decidere a chi si davano questi appartamenti, però la confraternita era ormai deserta, non ci andava più nessuno. Allora ci ha fatto iscrivere tutti i suoi figli di età superiore ai quattordici anni e a San Bernardino erano felici che la confraternita rifiorisse così. Quando si dovette votare a chi si dava l'appartamento, la maggioranza votò per lui. Questo nonno, sulla fine della sua vita, quando era già in pensione e non lavorava più come tipografo, faceva il rilegatore di libri. Poco prima della sua morte andavamo a trovarlo e vedevo su un bancone questi vecchi libri ottocenteschi ancora slegati - Dumas ecc., con delle incisioni -, che hanno quindi cominciato ad alimentare la mia fantasia. Poi, quando avevo circa dieci anni, ho scoperto in cantina una enorme cassa con dei libri che nessuno aveva richiesto. C'erano intere annate di una rivista che si chiamava Giornale illustrato dei viaggi. e delle avventure di terra e di mare, quasi tutta di origine francese, con pagine a colori, con scene di orrore e di guerra; c'erano molte vecchie edizioni, e c'era persino Darwin. Quindi ho passato anni e anni a rovistare in questo cassone. Questo per dire che da questo nonno, che praticamente non ho conosciuto, ho ricevuto un'eredità immaginaria che è stata molto forte per la mia vita. Probabilmente senza questa influenza non avrei scritto il tipo di romanzi che ho scritto, non avrei avuto le mie curiosità per la letteratura popolare, la Trivialliteratur. Non ho conosciuto neanche mio nonno materno, perché è morto nel 1918 durante la grande epidemia dell'influenza spagnola, in cui morivano come mosche tante persone. C'era però mia nonna materna, che era una donna di nessuna cultura - credo che avesse fatto solo cinque anni di scuola elementare-, ed era una furibonda lettrice. Era abbonata alle biblioteche circolanti e leggeva tutti i libri senza discriminazione; poteva leggere dei narratori molto popolari, ma leggeva anche Balzac e Dostoevskij e me li passava. Per cui ho avuto delle letture come Le père Goriot, ho letto questo romanzo a dodici anni, non capivo neanche bene cosa succedeva in tutte queste storie di adulterio. Mia nonna me lo aveva passato, come ugualmente faceva con opere che si collocavano più nel filone della letteratura giovanile, come per esempio Il piccolo alpino. Queste due influenze, di mio nonno paterno e di mia nonna materna, di cui mi sono reso conto solo quando ero adulto, le ho subite senza accorgermene, ma hanno lasciato un segno. Come accennato prima, la mia famiglia apparteneva alla piccola borghesia e i miei nonni erano degli artigiani. Il che voleva dire che era la prima generazione con il cappello: mio papà andava col cappello e la cravatta e mia mamma col cappellino. Il mondo si divideva tra signore - col cappellino - e donne, che non lo avevano; tra signori - col cappello - e uomini, che non lo avevano. Se suonava qualcuno col cappello, dicevo «Mamma, c'è un signore»; se era senza cappello, dicevo «Mamma, c'è un uomo». I bambini dovevano parlare soltanto italiano e non dialetto, per cui capisco il mio dialetto di Alessandria, ma non l'ho mai parlato. E quando lo parlo, lo confondo col francese. Il mio maestro elementare - che era fascista fervente e ci parlava della marcia su Roma - all'epoca prendeva ancora a schiaffoni i bambini che non avevano imparato la lezione, ma solo se erano figli di uomini, non se erano figli di signori; questi ultimi li trattava invece con maggiore rispetto. E, ripeto, per essere signore, bastava avere il cappello; poteva andare da chi prendeva mille lire al mese a chi prendeva un milione al mese. Ho citato questo perché era l'epoca in cui furoreggiava la canzone Se potessi avere mille lire al mese, che dà un'immagine dell'Italia di quel tempo, in cui mille lire al mese era considerato un grande stipendio. Ma in realtà la somma non doveva essere così enorme, perché mi ricordo che mio papà - che era un tipo molto silenzioso - un giorno arrivò a casa e, dopo aver mangiato, disse a mia mamma: «Rita, l'avvocato mi ha regalato mille lire». L'avvocato era il padrone dell'azienda in cui lui lavorava; in Piemonte tutte le persone laureate in giurisprudenza venivano chiamate "avvocato", così come c'è ancora oggi l'avvocato Agnelli. Io non so se mille lire era più del suo stipendio o meno del suo stipendio, ma mi ricordo che mia mamma disse: «Giulio, allora possiamo comperare la radio». Ammettendo che una radio non costasse pochissimo come oggi, ma costasse come un televisore, questo era il valore del regalo che l'avvocato gli aveva fatto. Fu una infanzia normalissima, in una famiglia non ricca, ma neanche una famiglia in cui si pativa la fame. Evidentemente, ho attraversato tutte le fasi dell'educazione fascista; sono stato "figlio della lupa", "balilla" e "balilla moschettiere". Io sono uscito dalla dittatura verso i dodici anni, quando c'è stata la caduta del fascismo; anche se poi, durante l'ultimo anno e mezzo di guerra, c'era ancora la propaganda fascista e dall'altra parte c'erano i partigiani. Sono il tipico esempio di un giovane nato dieci anni dopo la presa del potere di Mussolini e cresciuto sotto una educazione totalitaria pesante, che non ha lasciato nessuna traccia, perché credo di essere un buon democratico. Posso capire quelli che avevano sette, otto o dieci anni più di me - cioè, la generazione di Calvino - che, mentre da un lato avevano all'università una educazione fascista, potevano leggersi Benedetto Croce o avere notizia dell'esistenza di Marx. Questo spiega come dai famosi gufi "Gruppi Universitari Fascisti" - siano venuti fuori anche tutti i dirigenti comunisti, così come quelli che sono morti per la Repubblica di Salò. Quella è un'altra generazione, ma dà qualche speranza pensare che all'epoca c'era anche una generazione come la mia, che dai tre ai dodici anni fu educata totalitariamente. Poi sono intervenuti altri elementi e non è rimasta nessuna traccia di quel periodo se non la nostalgia. Per cui adesso mi commuovo se trovo una pubblicazione fascista degli anni trenta, perché mi ricorda l'infanzia; tutto quello che è legato all'infanzia diventa magico, anche se fu doloroso o vissuto male. Appartengo all'ultima generazione che ha vissuto la guerra e questo vuol dire conoscere la fame, dover riuscire a trovare il cibo. Ricordo che quando c'era lo sfollamento e siamo andati ad abitare nel Monferrato - da cui tutto il clima del Pendolo di Foucault -, la mia povera mamma passava tutta la giornata a girare presso i contadini per comprare un chilo di farina o mezzo coniglio, e spesso tornava piangendo, perché non avevano voluto venderle niente. Abbiamo sempre mangiato qualcosa, ma molte serate solo pasta di semola; forse ha fatto benissimo alla salute, non ci è venuta l'ulcera, era un cibo sano e privo di grassi. Così ho vissuto la guerra, nei suoi tre aspetti: l'uno, da puro spettatore, attraverso i giornali e la radio. L'altro, da vittima specie durante la notte quando c'erano gli aerei che ci volavano sopra e l'antiaerea. Non ho mai subito un vero bombardamento, perché dopo una notte molto furiosa in cui i colpi dell'antiaerea cadevano anche in strada e quindi potevano ammazzare qualcuno, la famiglia ha deciso di portare noi bambini e la mamma nel Monferrato. Ma se lì ho evitato i bombardamenti, sono stato invece testimone della guerriglia tra fascisti e partigiani, imparando anche cosa si deve fare quando qualcuno comincia a sparare: devi saltare dentro un fosso. Racconto sempre un episodio che mi sembra esemplare. Nel 1968 ci trovavamo a Praga, quando sono arrivati i russi. Mia moglie, pur avendo qualche anno meno di me, essendo una tedesca che abitava a Berlino, aveva visto tutto della guerra. E c'erano anche altri due nostri amici, Nanni Balestrini con la sua ragazza di allora, che avevano circa quattro anni meno di me. Non è una grande differenza, ma significa che durante la guerra stavano più chiusi in casa e perciò avevano visto meno cose. Eravamo in questa Praga in piena rivolta, con i carri armati che passavano - non si sapeva che cosa sarebbe accaduto, forse lo scoppio della terza guerra mondiale -, e abbiamo girato due giorni e mezzo per la città aspettando notizie per sapere da quale frontiera si poteva uscire. A un certo punto sentimmo colpi di mitragliatrice e cercammo di capire da dove venivano. E mi sono accorto che i nostri amici più giovani andavano nel mezzo della piazza, mentre io e mia moglie - senza esserci messi d'accordo - stavamo con la schiena contro il muro dove c'era l'angolo di una casa. Cioè, avevamo imparato che bisogna sempre mettersi in posizioni con due vie di fuga. In un'altra situazione, in una stradina della città vecchia, quando passava un carro armato che praticamente occupava tutta quella stretta stradina, mentre i nostri amici si schiacciavano contro il muro, mia moglie si schiacciava contro una porta. Avevamo elaborato delle tecniche di sopravvivenza che le generazioni immediatamente posteriori non hanno appreso. Infatti, c'è un episodio che racconto nel Pendolo, una manifestazione a Milano con la polizia che caricava, e la maggior parte degli studenti scappava lungo la via principale, mentre quelli più adulti scappavano nelle vie secondarie. Nella via principale verrai sempre preso, mentre nelle vie più piccole puoi allontanarti. È una cosa banale, ma se non l'hai imparata da piccolo, non la sai.

Nessun commento:

Posta un commento