1. Vediamo se riuscite a
riconoscermi: puzzavo di
salsedine e di vomito quando
sono approdato a questa terra...
Non so se mi credete...io sono il
Legno venuto dal mare. Ero
sfinito, a pezzi, ricordate? Ma
in principio ero Dio e la mia
fibra, forte come il ferro.
Forse per questo, immagino, i
mercanti mi chiamano “Iron
Wood”. Loro non sanno che è
l’armonia la mia forza
segreta, e che il mio nome vero
è A-ZO-BE’.
Così mi ha battezzato la
Foresta in una notte piena di
tamburi…
In quei tempi felici
rombavano i torrenti del mio sangue,
le termiti temevano
la voce del mio tronco.
La mia ombra pesante
tracciava un cerchio sacro nella giungla.
Avevo per fratello l’Ippopotamo…
vivi e morti cercavano rifugio
dentro di me e le scimmie
tenevano assemblee sugli alti rami.
Ascoltavo in preghiera
lo scroscio delle piogge equatoriali
e il canto delle donne
sulla fiaba di Songo, il re dei pesci,
che sposa una ragazza
di pelle liscia e bruna come l’ebano.
Che notti! Vedo tutto come allora…
denti d’avorio che mordono il buio
scintille di bracieri
che se ne vanno nel cielo stellato
e la Dea Luna, enorme, che mi sfiora
allungando le dita sul mio corpo.
E quando usciva l’astro del mattino
sentivo fermentare nelle vene
il canto del Malimbe
come la schiuma di birra di sorgo.
Ma un pomeriggio tacquero i tamtam.
Veniva il malaugurio,
veniva gente di razza padrona.
E subito ringhiò una motosega
con denti acuminati che squarciarono
il silenzio, scalfendomi la carne.
Diedi ai bastardi del filo da torcere
il bosco emise cori di protesta,
e quelli si fermarono, allibiti
tracannarono rum, si detersero
il sudore. Pensai che se ne andassero
ma no: tra le bestemmie e le zanzare
la sciabola dentata ripartì.
Si ribellarono ragni e formiche…
ma non servì. Ci fu uno scricchiolio,
sangue nero schizzò
e sprofondai con un tuono tremendo
assieme agli antenati
abbarbicati al mio tronco possente.
La luna piena si fece di ruggine,
l’onda sonora cinse l’equatore
e gli anelli del ceppo, denudati
svelarono i miei anni
pari alla vita di dodici uomini.
2. E traversai il grande mare di dune
un viaggio interminabile
fino a una terra nuda
che non donava il conforto dell’ombra.
Più non udivo il grido del Malimbe
ma solo lo sciacquio della risacca.
E restai solo, mentre i miei fratelli
viaggiavano nel vento e nella neve
per essere umilianti traversine
sotto i bisonti di ferro dei Bianchi.
Ma accadde che un mattino
un pescatore mi tastò la pelle
con alfabeto Braille di polpastrelli
e sussurrò: “Azobè, diventa barca!”.
Conosceva il mio nome,
così lo lasciai fare, docilmente.
E lui, seguendo ogni nervatura,
trasse da me le costole ricurve
mi cinse di fasciame resinato
poi mi piallò con cura
e mi coprì di vernice a colori.
Ebbi per nome una sillaba sola:
“Oud”, sì, proprio così,
una parola cava e musicale
che il mare ripeteva
dalla Fenicia fino a Gibilterra.
Ero una chiglia, ero un grembo materno
che ricalcava la linea perfetta
della barca degli Umili.
Volai sul mare rigato di schiume…
Il vento costruiva sinfonie
creava turbolenze nelle scotte…
e io con la mia fibra sostenevo
la grandiosa portanza della vela
che cantava in tre tempi
su lunga linea verde di palmeti.
Nel ruggito del mare
l’uomo alla barra doveva artigliare
la mia criniera d’Africa
con tutte due le mani per frenarmi.
Feci man bassa di alici e di sgombri,
spesso abbordavo le navi dei ricchi
con pentole fumanti di frittura.
Pescai finché morì il mio capitano.
E lì rimasi solo, senza vela,
sotto stelle straniere.
Mi tormentavano il sale e le raffiche
e Tramontana, ululando instancabile,
diceva che quel mare
era una tomba, una trappola infame
dove i poveri andavano a spiaggiarsi
in una bianca linea di dolore.
3. Molti anni passarono…
la sabbia smerigliava le ferite
ma una sera funesta
vennero bestie con denti di cane
mi palparono i muscoli
dissero: “Vecchio, il tuo ultimo viaggio
sarà di sola andata”.
Mi piantarono chiodi nella carne
legarono una gomena alla prua
urlando “muovi il culo, barca schifa”
poi mi stiparono dentro creature
terrorizzate, anche donne e bambini,
più di cinquanta in sette metri e mezzo.
Mi trascinava un motore impaziente
là dove non avevo mai osato:
verso l’immenso deserto di sale.
Per far coraggio ai miseri, un ragazzo
si erse a prua e gridò: “Ricordate!
Il nostro nome è Hariq, gli incendiari,
capaci di bruciare le distanze!
Quando saremo oltre
daremo fuoco anche a questa chiglia
faremo come Tariq Bin Ziyad
che conquistò la Spagna
dopo avere incendiato le sue navi!
Noi bruceremo pure la miseria
e questa morte lenta
che giorno dopo giorno ci sfinisce”.
Le madri da lontano li imploravano:
“Guardatevi dal gorgo senza fondo!
Attenti agli spietati zabaniyyah,
che con corone di spine vi aspettano
e con calici colmi di erbe amare!”.
Ma i padri senza cuore li incitavano:
“La vostra è l’ordalia dell’età adulta...
in questo mondo sei uomo o sei preda…
piuttosto che esser prede, meglio morti”.
E appena le mascelle
del mare nero morsero il fasciame
e fulmini si videro a distanza,
i demoni del dubbio si svegliarono
e si levò una triste litania:
“Dio dove sei, insostenibile assenza,
schiaccia col piede il malvagio serpente”.
La prua saliva al cielo e sprofondava
mentre una rete a strascico dragava
anime perse in mare che avvertivano:
“State passando Ginan al-gahimstate
passando i giardini d’inferno,
noi siamo i trentamila senza nome
che ingrassano gli abissi
con carni bianche di donna e bambino.”
“Ahi!”, gridarono i miseri
se lo spietato mare ci tradisce
sii tu, oh Terra Madre, a trarci in salvo!
Tu che hai milioni di figli nel grembo
porgici ancora i tuoi dolci capezzoli!”
E quando l’Orsa Maggiore affondò
la barra del timone all’orizzonte,
si vide come un’ombra accovacciata
ferma nella tempesta
poi una linea di luci lontane.
E proprio allora i mercanti di schiavi
ci lasciarono soli
e furono inghiottiti dalla notte.
Sentii gridare: “Dio,
salva mio figlio, che ha solo tre anni!”
Ma io fui molto più svelto di Dio
io, schiavo figlio dell’Africa Nera,
e senza più catene, liberato,
gridai forte nel buio:
“Non voglio che il mio legno sia una bara!”
e proprio in quel momento
vennero in sogno i miei legni fratelli
con un machete, a sfoltire le schiume.
Rimasi per un attimo sospeso
al vertice dell’ultimo frangente
finché un rullio crescente di tamburi
riuscì a precipitarmi nella tenebra...
…e mi spiaggiai con le ultime forze
sulla battigia di Terra Promessa.
Puzzavo di sentina e cherosene
vomitai stracci, ciabatte, forchette
poi fui marchiato a fuoco con un numero
e, come me, altri legni fratelli
legni sfiniti di madre lontana
che ripetevano “OUD” nella notte,
e il lungo monosillabo vibrava
pareva “WOOD”, il legno degli Inglesi.
4. Pensavo mi bruciassero
come in Spagna le barche
di Tariq Bin Ziyad conquistador:
e invece no, fui portato lontano,
sentii di nuovo motori ruggire
ruote rullare su nastri d’asfalto.
Alla fine del viaggio
fui sprangato da sbarre
sentii eco di ferri e chiavistelli
e grida rauche, in fondo a corridoi.
Pensai che fosse vicina la fine...
… e invece mi toccarono altre mani.
Mani infelici, forse, mani sporche,
ma anche benedette dal dolore.
E quelle dita, come di sciamano,
con infinita cura
pulirono la morchia e le vernici
chiusero le ferite una per una
e vollero scompormi,
indovinando ogni nervatura,
fino al mio nucleo radiante segreto.
Quando ho sentito tendersi le corde,
la chiglia diventare cassa armonica
e la prua un bel manico ricurvo,
quando mi sono accorto
che OUD suonava concavo di nuovo…
e le lacrime e il sale
rendevano più morbido il mio canto,
lì ho risentito i tamburi di un tempo
e ho risvegliato il brivido
di quand’ero felice tra le schiume
e il vento mi arpeggiava nelle sartie.
E ora, in questa conca venerabile
è tempo che la musica si spanda
e scorra come vino
per gli invitati alle nozze di Caana,
tempo che l’umile barca da pesca
suoni per voi la “Sinfonia del mare”
canti con voce dei mille più mille
rimasti sui fondali senza nome
urli, per quelli che avete respinto
e per quelli buttati sulla strada
ma chieda anche perdono
per aguzzini, negrieri, necrofili
e anche per i tanti indifferenti
che han dimenticato
i padri con valigia di cartone.
La vecchia barca venuta dal mare
si carica anche Giuda sulle spalle
e fa questa promessa:
“Non sarò più sarcofago, ma culla.
Nella sua terza vita
il mio legno sonoro non si limiti
a distillarvi una... “furtiva lacrima”
ma rompa finalmente i catenacci
che tengono in prigione il vostro cuore”.
E così sia.
(Sopra, “La sinfonia del Legno venuto dal mare”, “Ode” di Paolo Rumiz letta dall’Autore il 12 di febbraio ultimo alle ore 20.30 nel teatro alla Scala di Milano in concomitanza al concerto dell’”Orchestra del mare” ad archi fondata da Arnoldo Mosca Mondadori, gli strumenti della quale sono stati realizzati dai detenuti del carcere di Opera con i resti delle barche naufragate, “Ode” riportata alla stessa data sul quotidiano “la Repubblica”).
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