"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 26 febbraio 2024

Lavitadeglialtri. 25 26.02.2023 Cutro. «La sinfonia del Legno venuto dal mare».

1. Vediamo se riuscite a

riconoscermi: puzzavo di

salsedine e di vomito quando

sono approdato a questa terra...

Non so se mi credete...io sono il

Legno venuto dal mare. Ero

sfinito, a pezzi, ricordate? Ma

in principio ero Dio e la mia

fibra, forte come il ferro.

Forse per questo, immagino, i

mercanti mi chiamano “Iron

Wood”. Loro non sanno che è

l’armonia la mia forza

segreta, e che il mio nome vero

è A-ZO-BE’.

Così mi ha battezzato la

Foresta in una notte piena di

tamburi…

In quei tempi felici

rombavano i torrenti del mio sangue,

le termiti temevano

la voce del mio tronco.

La mia ombra pesante

tracciava un cerchio sacro nella giungla.

Avevo per fratello l’Ippopotamo…

vivi e morti cercavano rifugio

dentro di me e le scimmie

tenevano assemblee sugli alti rami.

Ascoltavo in preghiera

lo scroscio delle piogge equatoriali

e il canto delle donne

sulla fiaba di Songo, il re dei pesci,

che sposa una ragazza

di pelle liscia e bruna come l’ebano.

Che notti! Vedo tutto come allora…

denti d’avorio che mordono il buio

scintille di bracieri

che se ne vanno nel cielo stellato

e la Dea Luna, enorme, che mi sfiora

allungando le dita sul mio corpo.

E quando usciva l’astro del mattino

sentivo fermentare nelle vene

il canto del Malimbe

come la schiuma di birra di sorgo.

Ma un pomeriggio tacquero i tamtam.

Veniva il malaugurio,

veniva gente di razza padrona.

E subito ringhiò una motosega

con denti acuminati che squarciarono

il silenzio, scalfendomi la carne.

Diedi ai bastardi del filo da torcere

il bosco emise cori di protesta,

e quelli si fermarono, allibiti

tracannarono rum, si detersero

il sudore. Pensai che se ne andassero

ma no: tra le bestemmie e le zanzare

la sciabola dentata ripartì.

Si ribellarono ragni e formiche…

ma non servì. Ci fu uno scricchiolio,

sangue nero schizzò

e sprofondai con un tuono tremendo

assieme agli antenati

abbarbicati al mio tronco possente.

La luna piena si fece di ruggine,

l’onda sonora cinse l’equatore

e gli anelli del ceppo, denudati

svelarono i miei anni

pari alla vita di dodici uomini.

2. E traversai il grande mare di dune

un viaggio interminabile

fino a una terra nuda

che non donava il conforto dell’ombra.

Più non udivo il grido del Malimbe

ma solo lo sciacquio della risacca.

E restai solo, mentre i miei fratelli

viaggiavano nel vento e nella neve

per essere umilianti traversine

sotto i bisonti di ferro dei Bianchi.

Ma accadde che un mattino

un pescatore mi tastò la pelle

con alfabeto Braille di polpastrelli

e sussurrò: “Azobè, diventa barca!”.

Conosceva il mio nome,

così lo lasciai fare, docilmente.

E lui, seguendo ogni nervatura,

trasse da me le costole ricurve

mi cinse di fasciame resinato

poi mi piallò con cura

e mi coprì di vernice a colori.

Ebbi per nome una sillaba sola:

“Oud”, sì, proprio così,

una parola cava e musicale

che il mare ripeteva

dalla Fenicia fino a Gibilterra.

Ero una chiglia, ero un grembo materno

che ricalcava la linea perfetta

della barca degli Umili.

Volai sul mare rigato di schiume…

Il vento costruiva sinfonie

creava turbolenze nelle scotte…

e io con la mia fibra sostenevo

la grandiosa portanza della vela

che cantava in tre tempi

su lunga linea verde di palmeti.

Nel ruggito del mare

l’uomo alla barra doveva artigliare

la mia criniera d’Africa

con tutte due le mani per frenarmi.

Feci man bassa di alici e di sgombri,

spesso abbordavo le navi dei ricchi

con pentole fumanti di frittura.

Pescai finché morì il mio capitano.

E lì rimasi solo, senza vela,

sotto stelle straniere.

Mi tormentavano il sale e le raffiche

e Tramontana, ululando instancabile,

diceva che quel mare

era una tomba, una trappola infame

dove i poveri andavano a spiaggiarsi

in una bianca linea di dolore.

3. Molti anni passarono…

la sabbia smerigliava le ferite

ma una sera funesta

vennero bestie con denti di cane

mi palparono i muscoli

dissero: “Vecchio, il tuo ultimo viaggio

sarà di sola andata”.

Mi piantarono chiodi nella carne

legarono una gomena alla prua

urlando “muovi il culo, barca schifa”

poi mi stiparono dentro creature

terrorizzate, anche donne e bambini,

più di cinquanta in sette metri e mezzo.

Mi trascinava un motore impaziente

là dove non avevo mai osato:

verso l’immenso deserto di sale.

Per far coraggio ai miseri, un ragazzo

si erse a prua e gridò: “Ricordate!

Il nostro nome è Hariq, gli incendiari,

capaci di bruciare le distanze!

Quando saremo oltre

daremo fuoco anche a questa chiglia

faremo come Tariq Bin Ziyad

che conquistò la Spagna

dopo avere incendiato le sue navi!

Noi bruceremo pure la miseria

e questa morte lenta

che giorno dopo giorno ci sfinisce”.

Le madri da lontano li imploravano:

“Guardatevi dal gorgo senza fondo!

Attenti agli spietati zabaniyyah,

che con corone di spine vi aspettano

e con calici colmi di erbe amare!”.

Ma i padri senza cuore li incitavano:

“La vostra è l’ordalia dell’età adulta...

in questo mondo sei uomo o sei preda…

piuttosto che esser prede, meglio morti”.

E appena le mascelle

del mare nero morsero il fasciame

e fulmini si videro a distanza,

i demoni del dubbio si svegliarono

e si levò una triste litania:

“Dio dove sei, insostenibile assenza,

schiaccia col piede il malvagio serpente”.

La prua saliva al cielo e sprofondava

mentre una rete a strascico dragava

anime perse in mare che avvertivano:

“State passando Ginan al-gahimstate

passando i giardini d’inferno,

noi siamo i trentamila senza nome

che ingrassano gli abissi

con carni bianche di donna e bambino.”

“Ahi!”, gridarono i miseri

se lo spietato mare ci tradisce

sii tu, oh Terra Madre, a trarci in salvo!

Tu che hai milioni di figli nel grembo

porgici ancora i tuoi dolci capezzoli!”

E quando l’Orsa Maggiore affondò

la barra del timone all’orizzonte,

si vide come un’ombra accovacciata

ferma nella tempesta

poi una linea di luci lontane.

E proprio allora i mercanti di schiavi

ci lasciarono soli

e furono inghiottiti dalla notte.

Sentii gridare: “Dio,

salva mio figlio, che ha solo tre anni!”

Ma io fui molto più svelto di Dio

io, schiavo figlio dell’Africa Nera,

e senza più catene, liberato,

gridai forte nel buio:

“Non voglio che il mio legno sia una bara!”

e proprio in quel momento

vennero in sogno i miei legni fratelli

con un machete, a sfoltire le schiume.

Rimasi per un attimo sospeso

al vertice dell’ultimo frangente

finché un rullio crescente di tamburi

riuscì a precipitarmi nella tenebra...

…e mi spiaggiai con le ultime forze

sulla battigia di Terra Promessa.

Puzzavo di sentina e cherosene

vomitai stracci, ciabatte, forchette

poi fui marchiato a fuoco con un numero

e, come me, altri legni fratelli

legni sfiniti di madre lontana

che ripetevano “OUD” nella notte,

e il lungo monosillabo vibrava

pareva “WOOD”, il legno degli Inglesi.

4. Pensavo mi bruciassero

come in Spagna le barche

di Tariq Bin Ziyad conquistador:

e invece no, fui portato lontano,

sentii di nuovo motori ruggire

ruote rullare su nastri d’asfalto.

Alla fine del viaggio

fui sprangato da sbarre

sentii eco di ferri e chiavistelli

e grida rauche, in fondo a corridoi.

Pensai che fosse vicina la fine...

… e invece mi toccarono altre mani.

Mani infelici, forse, mani sporche,

ma anche benedette dal dolore.

E quelle dita, come di sciamano,

con infinita cura

pulirono la morchia e le vernici

chiusero le ferite una per una

e vollero scompormi,

indovinando ogni nervatura,

fino al mio nucleo radiante segreto.

Quando ho sentito tendersi le corde,

la chiglia diventare cassa armonica

e la prua un bel manico ricurvo,

quando mi sono accorto

che OUD suonava concavo di nuovo…

e le lacrime e il sale

rendevano più morbido il mio canto,

lì ho risentito i tamburi di un tempo

e ho risvegliato il brivido

di quand’ero felice tra le schiume

e il vento mi arpeggiava nelle sartie.

E ora, in questa conca venerabile

è tempo che la musica si spanda

e scorra come vino

per gli invitati alle nozze di Caana,

tempo che l’umile barca da pesca

suoni per voi la “Sinfonia del mare”

canti con voce dei mille più mille

rimasti sui fondali senza nome

urli, per quelli che avete respinto

e per quelli buttati sulla strada

ma chieda anche perdono

per aguzzini, negrieri, necrofili

e anche per i tanti indifferenti

che han dimenticato

i padri con valigia di cartone.

La vecchia barca venuta dal mare

si carica anche Giuda sulle spalle

e fa questa promessa:

“Non sarò più sarcofago, ma culla.

Nella sua terza vita

il mio legno sonoro non si limiti

a distillarvi una... “furtiva lacrima”

ma rompa finalmente i catenacci

che tengono in prigione il vostro cuore”.

E così sia.

(Sopra, “La sinfonia del Legno venuto dal mare”, “Ode” di Paolo Rumiz letta dall’Autore il 12 di febbraio ultimo alle ore 20.30 nel teatro alla Scala di Milano in concomitanza al concerto dell’”Orchestra del mare” ad archi fondata da Arnoldo Mosca Mondadori, gli strumenti della quale sono stati realizzati dai detenuti del carcere di Opera con i resti delle barche naufragate, “Ode” riportata alla stessa data sul quotidiano “la Repubblica”).

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