"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 28 febbraio 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 65 Massimo Colaiacono: «È la democrazia che si vergogna di se stessa la più grande minaccia alla democrazia».

Nella foto. 1933: parata militare della gioventù hitleriana a Norimberga davanti a Baldur von Schirach che fa il saluto nazista, pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 26 di febbraio 2024.


(…). Non credo che il fascismo sia stato una fase “inevitabile” della storia italiana. È stata una risposta violenta e locale ai moti socialisti e poi comunisti di inizio secolo, ben foraggiata da agrari e industriali. Ha potuto prevalere per la grande gracilità della nostra borghesia, incapace di costruire, come in Francia, un’idea di Nazione laica e democratica. Dovremmo qui risalire, forse, al micidiale impedimento, in funzione anti-moderna, costituito dal secolare potere temporale della Chiesa, (…). Al netto della grande fatica ideologica che tutti condividiamo, il confine tra democrazia e dittatura, tra libertà e costrizione, mi sembra ancora molto chiaro. Prima e dopo il fascismo l’Italia è stata una democrazia, con tutti i suoi evidenti limiti. Durante il ventennio no, e tanto basta per dirmi antifascista. Di più, e forse di peggio, c’è la “forma” specifica del fascismo. La sua etica e la sua estetica. Il mito grottesco dell’Impero, la retorica bellica e ginnica, la virilità da parata, la boria di cartapesta, e su tutto il mascherone tragicomico del Duce. La prima volta che lo vidi in televisione non la dimenticherò mai. Avrò avuto dieci anni. Gigioneggiava, mani sui fianchi, fez in testa, petto in fuori, sguardo roteante. In quegli anni si era abituati alle meste grisaglie e ai pallori dimessi dei democristiani. Chiesi a mio padre: ma chi è quel matto? (testuale) Mio padre (cinque anni di guerra alle spalle, tre anni di prigionia in Africa) allargò le braccia e mi rispose: purtroppo è Mussolini. Come per dire: incredibile ma vero, è da lui che è dipeso il mio destino e quello del mio Paese. E mio padre non era certo di sinistra: votava Malagodi, che era un po’ il Calenda dell’epoca. (…), le mie due scuole di formazione (la borghesia liberale nella quale sono nato, il partito della classe operaia, il Pci, nel quale mi sono formato) sono entrambe sconfitte. Ha stravinto la piccola borghesia massificata che fu l’ossatura sociale del fascismo ed è la base elettorale della nuova destra. Sempre tenendo fede alla spericolata sintesi che mi sono ripromesso: io sono dunque doppiamente antifascista, lo sono al cubo. Come borghese e come ex comunista. (…). (Tratto da “Antifascista al cubo” di Michele Serra pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di febbraio 2024).

“L’uomo che smascherò i fascismi”, testo di Massimo Colaiacono pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del lunedì 26 di febbraio 2024: (…). Il fascismo è nato il 23 marzo 1919, a piazza San Sepolcro, oppure il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, o ancora il 10 giugno 1924 con l’assassinio di Giacomo Matteotti? La storia funziona un po’ come uno specchio retrovisore. Chi la scrive dispone di date, eventi, protagonisti e può allineare tutto e ricostruire circostanze, contestualizzare atti politici e coglierne il significato alla luce delle conseguenze da essi prodotte. È attorno a queste domande che la storiografia si è arrovellata per decenni a cercare risposte, trovandole ogni volta in misura più o meno soddisfacente, ma sempre parziali. Fino al 1974, cioè mezzo secolo fa, quando George Lachmann Mosse, docente di storia nelle Università di Madison e di Gerusalemme, erede di una ricca famiglia di editori tedeschi, ha impresso una svolta dimostrando l’assoluta inutilità della fatica di cercare un certificato che rechi la data di nascita del “fascismo” e dei “fascismi” europei del Novecento. Il secolo (…) ha avuto, nell’analisi di Mosse, una gestazione lunga, addirittura secolare. (…). Le radici dei “fascismi” europei affondano (…) in quella parte del Settecento in cui la rousseauiana “volontà generale” ha finito per intorbidare le acque, faticosamente rese chiare da Montesquieu con la sua divisione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Mosse individua due fattori all’origine dei totalitarismi: la manipolazione della tradizione, attraverso il recupero di simboli, lessico, favole popolari e liturgie che laicamente si sovrappongono alla tradizione religiosa cristiana; l’esigenza di rompere tutti i filtri formali, procedurali e istituzionali che impediscono il rapporto diretto fra il capo e il popolo, fino allora impedito dalle élite in quanto custodi dei valori “borghesi”. Le origini del totalitarismo sono in parte comuni alle sue varianti fascista e comunista. Con alcune differenze significative: il fascismo, per esempio, puntava a recuperare la simbologia del potere della Roma antica, e la partecipazione delle masse alle adunanze “oceaniche” di Piazza Venezia, come pure l’inquadramento capillare della popolazione, per fasce di età, nelle manifestazioni pubbliche e negli eventi sportivi, erano i canali privilegiati per costruire il rapporto diretto fra il capo e il popolo. «Milioni di persone videro nelle tradizioni di cui parlava Mussolini - scrive Mosse - una possibilità di partecipazione politica più vitale e più significativa di quella offerta dall’idea “borghese” di democrazia parlamentare, e questo poté succedere solo perché esisteva una lunga tradizione rappresentativa non solo dei movimenti di massa nazionalisti, ma anche dei movimenti di massa dei lavoratori». Da questa forma di sedazione collettiva delle coscienze si arriva agevolmente all’annullamento dell’identità individuale. (…). Mosse ha indagato il totalitarismo con una ricchezza di strumenti mai prima impiegati: dall’antropologia, al teatro, alle organizzazioni sportive, dalla sociologia alla religione alla danza. Senza schematismi né pregiudizi che ne avrebbero infiacchito l’analisi, ci mette in guardia su un punto: guai a pensare che i “fascismi” non avessero matrice e tendenze democratiche. Mussolini e Hitler, (…), hanno distrutto la democrazia parlamentare per via democratica, attraverso libere elezioni. Quanto al livello di dispotismo via via sviluppato, esso è esattamente in rapporto al grado di adesione manifestato dalle masse, alla loro capacità di assorbimento di quei valori “borghesi” sui quali era stata costruita la Nazione. La massificazione di simboli e liturgie in cui riconoscersi ha poi completato il processo di nazionalizzazione. Sterilizzata la coscienza individuale e soffocata ogni capacità di giudizio critico, il potere autoritario si ritrova titolare degli strumenti necessari per reprimere ogni forma di dissenso sulla base di una legalità “di massa”. Perché, e qui Mosse devia e innova rispetto al giudizio fino ad allora diffuso, se è vero che il nazionalsocialismo ha anche usato il terrore, è altrettanto vero che il suo uso è stato limitato alla luce «della genuina popolarità della letteratura e dell’arte naziste». È possibile filtrare gli eventi del nostro tempo alla luce delle analisi di Mosse? Se è vero, come affermava Croce, che la storia è sempre storia al presente, nelle pagine del grande studioso ci sono indizi importanti seguendo i quali le turbolenze di questi anni trovano una loro collocazione storica e ci chiamano a nutrire una sana e robusta inquietudine per le sorti della democrazia parlamentare, sempre meno attrattiva e resa tale da quelle forze che vivono il Parlamento come un inutile ingombro, a memoria dell’aula “sorda e grigia” che Mussolini avrebbe voluto fare, e poi fece, “bivacco di manipoli”. La democrazia totalitaria, studiata nella sua genesi da Jacob Talmon, non è necessariamente il punto di approdo per l’Occidente. L’Europa, più degli Stati Uniti, è circondata da regimi autoritari, da “democrature”, secondo un neologismo orrifico, come può essere la Turchia di Erdogan e, sull’altra sponda del Mediterraneo, l’Egitto o la Tunisia. L’aggressione di Putin all’Ucraina ha risvegliato demoni che generazioni spensierate, venute su a pace e benessere, avevano frettolosamente sepolto nel pozzo della storia. Le stesse generazioni sfilano per le vie di Londra, Roma, Parigi, New York agitando bandiere palestinesi, invocano la fine del conflitto a Gaza e la condanna di Israele per “genocidio”. Confermando così che è la democrazia che si vergogna di se stessa la più grande minaccia alla democrazia.

Nessun commento:

Posta un commento