“Il nuovo
Umanesimo”, testo di Edgar Morin pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
dell’11 di febbraio 2024: Siamo in moltissimi, anche se dispersi, a
sopportare con sempre maggiore difficoltà l’egemonia del profitto, del denaro,
del calcolo (statistico, di crescita, pil, sondaggi), che ignora i nostri veri
bisogni come le nostre legittime aspirazioni a una vita, al tempo stesso,
autonoma e comunitaria. Siamo moltissimi, ma separati e divisi in
compartimenti, a desiderare che la trinità “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”
diventi la nostra norma di vita personale e sociale e non la maschera che copre
l’aumento delle servitù, delle disuguaglianze e degli egoismi. Negli ultimi
decenni, con l’egemonia dell’economia liberale globalizzata, il profitto è
cresciuto oltre misura a detrimento delle solidarietà e delle convivenze; le
conquiste sociali sono state in parte annullate; la vita urbana si è degradata;
i prodotti hanno perso la loro qualità (obsolescenza programmata, ossia vizi
nascosti); gli alimenti hanno perso le loro virtù: sapore e gusto. Certo,
moltissime oasi di vita amorosa, familiare, fraterna, amicale, solidale, ludica
testimoniano la resistenza del voler vivere bene. La civiltà dell’interesse e
del calcolo non potrà mai annientarle. Ma queste oasi sono ancora troppo
disperse e senza legami tra loro. Tuttavia si sviluppano, e la loro connessione
abbozza il profilo di un’altra civiltà possibile. La coscienza ecologica, nata
dalla scienza che porta lo stesso nome, ci indica la necessità di sviluppare
non solo le fonti di energia pulite e di eliminare progressivamente le altre,
compresa la nucleare così pericolosa, ma anche di devolvere una parte
importante dell’economia alla pulizia delle città inquinate e alla sanità
dell’agricoltura, riducendo di conseguenza l’agricoltura e gli allevamenti
industrializzati – a favore dell’agricoltura da fattoria e della agroecologia. Un formidabile rilancio dell’economia fatto in questo senso, stimolato dagli
sviluppi di un’economia sociale e solidale, consentirebbe un notevole
riassorbimento della disoccupazione oltre a una sensibile riduzione della
precarietà del lavoro. Una riforma delle condizioni lavorative sarebbe
necessaria anche in nome di quella redditività che oggi produce la
meccanizzazione dei comportamenti, fino alla robotizzazione, il burn-out, le
malattie e la disoccupazione – il che diminuisce proprio la redditività tanto
ricercata. Di fatto, la redditività può essere ottenuta non con la
robotizzazione dei comportamenti ma con il pieno impiego della personalità e
della responsabilità dei lavoratori. La riforma dello Stato deve essere pensata
non come una riduzione o un aumento dei parametri di produttività, bensì come
una sburocratizzazione, ossia una comunicazione tra compartimenti, iniziative e
costanti interazioni tra i livelli direttivi e quelli esecutivi. La riforma del
consumo sarebbe d’importanza capitale. Permetterebbe una selezione consapevole
dei prodotti secondo le loro qualità reali e non quelle immaginarie vantate
dalla pubblicità o dagli influencer, portando così a una diminuzione delle
intossicazioni consumistiche (tra cui quella automobilistica o alimentare).
Sarebbero allora il gusto, il sapore, l’estetica a orientare i consumi, i
quali, sviluppandosi, ridurrebbero l’agricoltura industrializzata, il consumo
insipido e malsano e, con ciò, il dominio del profitto. Lo sviluppo delle
filiere corte, soprattutto per l’alimentazione, attraverso i mercati e le
associazioni, favorirebbe la nostra salute e frenerebbe l’egemonia delle grandi
aree e dei prodotti ultralavorati. D’altra parte, la resistenza contro i
prodotti a obsolescenza programmata (automobili, frigoriferi, computer,
cellulari, calze ecc.) favorirebbe un neoartigianato. L’incoraggiamento dei
commerci di prossimità umanizzerebbe poi, considerevolmente, le nostre città.
Il che farebbe, al tempo stesso, regredire quella formidabile forza
tecno-economica che spinge all’anonimato, all’assenza di relazioni cordiali con
gli altri, spesso all’interno di un medesimo edificio. I consumatori, ossia
l’insieme dei cittadini, hanno anche acquisito un potere che, in mancanza di un
affidamento reciproco, risulta loro invisibile, ma che, una volta chiarito e
reso a sua volta illuminante, potrebbe determinare non solo un nuovo
orientamento dell’economia (industria, agricoltura, distribuzione), ma indicare
possibili vie verso una crescente convivialità. Un nuovo processo di
civilizzazione tenderebbe a restaurare forme di solidarietà locali o a
istituirne di nuove – come la creazione di case della solidarietà nelle piccole
città o nei quartieri delle grandi città. Stimolerebbe la convivialità, bisogno
umano primario, che inibisce la vita razionalizzata, cronometrata, votata
all’efficienza. Possiamo ritrovare le virtù del ben vivere attraverso la strada
di una riforma esistenziale. Dobbiamo riconquistare un tempo adeguato ai nostri
ritmi, che ubbidisca solo parzialmente alla pressione cronometrica. Potremmo
alternare periodi (snervanti) di velocità a periodi (sereni) di lentezza.
Ritroviamo il gusto di una vita resa poetica dalla festa e dalla comunione
nelle arti, nel teatro, nel cinema, nella danza. Al di là della sfera della
vita quotidiana, aspiriamo a far parte del mondo, prendiamo coscienza della
nostra appartenenza all’umanità, oggi interdipendente. Crediamo, come già
diceva Montaigne nel XVI secolo, che “ogni uomo è mio compatriota” e che
l’umanesimo si dà in quanto rispetto di ogni essere umano. Le nostre patrie,
ognuna singolarmente, fanno parte della comunità umana. I problemi e i pericoli
vitali conseguenti alla globalizzazione legano ormai tutti gli esseri umani in
una comunità di destino. Dobbiamo riconoscere la nostra patria terrena (che ha
fatto di noi dei figli della Terra), la nostra patria terrestre (che integra le
nostre diverse patrie), la nostra cittadinanza terrena (che riconosce la nostra
responsabilità nel destino terrestre). Ciascuno di noi è un momento, una
particella della gigantesca e incredibile avventura dell’Homo sapiens-demens.
Questa avventura, iniziata con la nascita, la grandezza e la caduta di imperi e
civiltà, ha avuto la meglio in un divenire in cui tutto ciò che sembrava
impossibile è diventato possibile, nel peggio come nel meglio. Un umanesimo
approfondito e rigenerato è necessario se vogliamo anche riumanizzare e
rigenerare i nostri Paesi, i nostri continenti, il nostro pianeta. La
globalizzazione, con le sue possibilità e soprattutto i suoi pericoli, ha
creato una comunità di destino per tutti gli umani. Dobbiamo affrontare, tutti,
il degrado ecologico, la proliferazione delle armi di distruzione di massa,
l’egemonia della finanza sui nostri Stati e i nostri destini, il crescere di
fanatismi ciechi, il ritorno della guerra in Europa. Paradossalmente, proprio
nel momento in cui si dovrebbe prendere coscienza in modo solidale della
comunità di destino di tutti i Terrestri, sotto l’effetto della crisi
planetaria e le angosce che suscita, ci si rifugia ovunque nei particolarismi
etnici, nazionali, religiosi. Chiamiamo ognuno alla presa di coscienza
necessaria e aspiriamo alla sua generalizzazione affinché i grandi problemi
siano trattati finalmente su scala planetaria.
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