“IldelittoMatteotti”. 6 “La banda di Dumini uccide a Parigi” di Claudio Fracassi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di venerdì 16 di febbraio 2024: L’importante compito strategico affidato da Mussolini ad Amerigo Dumini - organizzare e comandare la banda che assassinò Matteotti, quella che veniva definita, al vertice del partito, la "Ceka fascista" - non era una sorta di perverso diversivo propagandistico, come alcuni degli stessi antifascisti, parzialmente increduli, sembravano pensare. Prima e dopo la caduta del fascismo, in migliaia di pagine di interrogatori, confessioni, verbali, acquisizioni processuali, l'esistenza e l'operatività di quel nucleo banditesco organizzato sono state confermate e acquisite agli atti della malavita e della storia. La formazione della cosiddetta "Ceka" (sigla tratta dalla lingua russa) doveva essere per Mussolini - si appurò attraverso una miriade di confessioni - una concreta applicazione di quella "violenza chirurgica, intelligente" di cui l'uomo aveva parlato apertamente in un suo famoso discorso parlamentare ("Scritti e discorsi, 1924). Insieme ideologico e molto concreto era stato l'argomento usato dal futuro duce all'inizio di quell'anno, quando il progetto aveva preso forma nel suo programma, ma doveva divenire operativo: "I governi allo stato di transizione hanno bisogno di organi illegali. Con possesso degli organi ufficiali dello Stato il fascismo ha poi il modo di mettere lo spolverino su tutte le violenze". A Roma - alla vigilia dell'omicidio Matteotti - il nucleo della Ceka aveva anche un punto di riferimento operativo, una sorta di sede non ufficiale, press l'hotel Dragoni, in via del Tritone a pochi passi da Palazzo Chigi. Si trattava, due stanze: la 64 bis, destinata ai mutevoli ma affidabili gregari-picchiatori provenienti da città del Nord, e l'ampia e lussuosa camera 76 dove si svolgevano abitualmente le riunioni plenarie della banda. A capo dell'organismo segreto era stato designato il brillante, affidabile e privo di scrupoli Amerigo Dumini che in aggiunta aveva nella Capitale anche una sua autonoma e ben pagata residenza in un appartamento di via Cavour. La nomina "era stata approvata con pieno favore da Mussolini". Gli "arditi" furono sperimentati in lodevoli, azioni di violenza. Come fu poi accertato sulla base di confessioni e testimonianze, nelle settimane che avevano preceduto e seguito la vittoria elettorale mussoliniana del 1924, l'attività della cosiddetta Ceka si era sviluppata e intensificata. Ma nell'opposizione, intimidita, non pochi stentavano ancora a rendersi pienamente conto che ci si trovava di fronte a una organizzata e irreversibile strategia mussoliniana. Ha ricordato una voce autorevole e informata del regime (Cesare Rossi, Trentatré vicende mussoliniane): "La versione che Mussolini fosse del tutto irresponsabile dell'illegalismo fascista (…) non soltanto trovò credito presso il Re, la maggioranza ministeriale, il Senato, il grosso pubblico e la maggioranza dei fascisti che non avevano dimestichezza col loro Duce, ma anche presso parlamentari dell'opposizione...''. È interessante ricordare la vicenda delle "prove generali di assassinio" che il gruppo della Ceka fascista organizzò nella fase precedente il delitto Matteotti, come "esperimento pratico" di efficaci azioni omicide. Si trattò di due missioni segrete parigine di vendetta, contro gruppi antifascisti italiani e contro esponenti di sinistra francesi, capeggiate da Amerigo Dumini. Nel primo caso, il fedele toscano, al suo ritorno in patria, compilò diligentemente una relazione in cui raccontava tra l'altro come aveva assassinato un attivista di sinistra.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 18 febbraio 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 60 Benito Mussolini: «I governi allo stato di transizione hanno bisogno di organi illegali. Con possesso degli organi ufficiali dello Stato il fascismo ha poi il modo di mettere lo spolverino su tutte le violenze».
(…). …il populismo mussoliniano porta con sé
una accanita polemica antiparlamentare. L’attacco retorico alla democrazia passa
attraverso la propaganda contro il parlamento. contro il parlamentarismo.
Perché? Perché il Parlamento rappresenta la moltitudine nella molteplicità: è
il luogo delle mille differenze, degli interessi contrastanti, delle tante
posizioni, una contro l'altra, avversarie, distinte, irriducibili. Il
Parlamento è il sacrario della lenta, lunga arte della democrazia, il tempio
della sua fragile bellezza. Ma, se io sono il popolo e il popolo sono io, il
Parlamento diventa, allora, una perdita di tempo, un luogo di corruzione, di
degenerazione patologica, di inadeguatezza, ruberie, privilegi di casta, il
centro di un inutile caos cronico. Lo attende il destino dei deboli, degli
inetti. Non a caso, la violenta polemica antiparlamentare, che dipinge il Parlamento
come un'inutile complicazione, un luogo di corruzione e inganno, un freno al
processo di decisione politica, si ritrova all'origine di tutti i movimenti
populisti, di ieri e di oggi, di destra e di sinistra. L'archetipo di ogni
successivo leader populista, Benito Mussolini, già nel 1919 definisce il
movimento neonato dei Fasci di combattimento un "antipartito", formula
che riecheggia identica a cento anni di distanza nel nostro presente; il
fondatore del fascismo dice di se stesso "io non faccio politica, io
faccio l'antipolitica", slogan di un secolo fa ancora ampiamente circolante
nel nuovo millennio; dipinge il Parlamento di Roma come lugubre edificio
funebre affollato dalle "mummie di Montecitorio", che lui
dichiaratamente si propone di "mettere in liquidazione" (altra espressione
riecheggiante nella nostra recente cronaca politica). Persino l'immagine della
classe politica liberale raffigurata come una "casta'; chiusa nei propri
privilegi, autoreferenziale e sorda al richiamo del popolo, che tanta fortuna
ha avuto in tempi recenti e continua ad avere, risale a cento anni fa. La
paternità di essa non spetta a Mussolini ma a Gabriele D'Annunzio (''una casta
di maraja indiani rinchiusi nei lussi dei loro palazzi"), alla cui
inventiva il futuro duce attinse a piene mani per allestire l'immaginario
fascista. (…). (Tratto da “Fascismo
e populismo” di Antonio Scurati, Bompiani editrice, 2023).
Al termine della seconda missione segreta, Dumini - che durante
l'impresa parigina, condotta da ben sette persone (“l’agguato al Bois del
Boulogne") era stato ferito alla coscia sinistra - spiegò di aver
"ucciso tre uomini" da lui definiti "comunisti". I nomi dei
componenti della banda" cekista" in missione parigina erano quelli di
Volpi, Putato, Poveromo, Panzeri e (quasi certamente) Malacria e Viola. Si
tratta - hanno poi notato gli studiosi - di coloro che l'opinione pubblica
imparerà a conoscere pochi mesi dopo in relazione al ritrovamento del cadavere
di Giacomo Matteotti. Non senza merito, infatti, dopo i due exploit banditeschi
parigini, l'intraprendente e meritevole Dumini era stato ufficialmente
incaricato di guidare l'importante operazione che avrebbe avuto per oggetto,
stavolta a Roma, l'insopportabile Matteotti. Il momento di svolta nella
strategia mussoliniana di eliminazione fisica del capo del Psu è stato
individuato nel primo dibattito in parlamento dopo le elezioni. Il discorso del
deputato Matteotti era stato implacabile nell'elencazione delle sopraffazioni,
dei brogli, delle violenze che regolarmente accompagnavano la politica
fascista. Come suo costume, le denunce non erano state generiche, ma riferite
ad atti concreti di minacce e sopraffazioni: "Nessun elettore italiano si
è trovato libero di decidere con la sua volontà (...). Vi è una milizia armata, composta di
cittadini di un solo partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un
determinato governo con la forza, anche se a esso il consenso mancasse".
Dopo un rabbioso dibattito in seno al gruppo parlamentare fascista, a 42
direttori di giornale il capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio
inviò un testo "riservato", in cui si sosteneva fra l'altro: "Le
odierne ed eccessive provocazioni culminate nel discorso Matteotti fanno parte
di un piano... Sarà perciò opportuno e veramente patriottico che il vostro
giornale sveli con energia di giudizio questi propositi destinati a seriamente
compromettere, per l'inevitabile e doverosa reazione che il regime fascista a
un bel momento opporrà, l'auspicata normalizzazione...". La linea da
seguire fu indicata per iscritto da Mussolini in un anonimo corsivo affidato al
Popolo d'Italia diretto dal fratello Arnaldo: nella nuova Camera - vi si
leggeva - "il milionario speculatore di socialismo e generi affini si è
dato alla funzione di agente provocatore". " Nei piani di Mussolini,
la sorte di Giacomo Matteotti era ormai segnata. Il mattino di lunedì 9 giugno
1924, Amerigo Dumini - l'abile e affidabile gestore della
"distruzione" dell'odioso parlamentare socialista - predispose gli
strumenti dell'operazione. Di buon mattino egli si presentò nella stanza del
fedele Filippelli, direttore del Corriere Italiano, e chiese (su ordine degli
autorevoli Rossi e Marinelli) di mettergli a disposizione un'automobile
"grande e chiusa, senza autista". Filippelli non si tirò indietro:
due giorni prima, in un garage del centro di Roma, il "Trevi" in via
dei Crociferi, aveva preso in affitto una macchina con quelle caratteristiche.
Quello stesso pomeriggio di lunedì 9 giugno, il garage consegnò l'auto scura e
scintillante all'autista di Filippelli. Calata la notte nella buia zona del
lungofiume, alcuni testimoni rimasero sorpresi nel vedere la lussuosa vettura
andare lentamente su e giù, come in prova, tra via Stanislao Mancini, la strada
che partiva dal lungotevere, e via Pisanelli, fermandosi spesso davanti al
numero 40. Nella tranquilla casa borghese di vai Pisanelli corrispondente a
quel numero civico abitava la famiglia Matteotti.
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