"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 9 febbraio 2024

CosedalMondo. 10 Yasmin Eran Vardi, attivista ebrea israeliana: «La pace si fa tra due Stati e io non credo negli Stati. Ma se penso a cosa voglia dire per me vivere in pace in questa terra, significa vivere insieme».


Il negoziato non decolla. E così noi palestinesi vediamo allontanarsi la tregua. Delusi e impauriti, temiamo che a breve Israele invada perfino Rafah. Sarebbe il colpo finale, l’ultimo e definitivo proiettile nella testa del popolo palestinese. Rafah è la cittadina al confine con l’Egitto dove l’esercito israeliano, l’Idf, ci ha costretto a rifugiarci perché potesse bombardare prima Gaza City e poi Khan Yunis alla ricerca dei miliziani di Hamas. Ora pare che voglia entrare con i carri armati anche qui, e sarebbe un inferno ancora peggiore di quelli che abbiamo vissuto fin qui. Immaginate più di un milione di persone costrette di nuovo a correre dalle bombe, dai tank e dai cecchini. Una marea di disperati stanchi, senza speranza e spesso malati, perché le condizioni igieniche e alimentari in cui viviamo sono disumane (anche le mie figlie si sono ammalate, ora stanno un po’ meglio). L’ipotesi è così realistica che in tanti hanno già abbandonato la parte orientale di Rafah, da dove dovrebbero entrare gli israeliani. Anche noi che viviamo nella parte centrale, dove si hanno più possibilità di trovare un po’ di cibo, dovremo all’improvviso correre nella parte occidentale. Ci accalcheremo tutti lì, e comunque senza alcuna garanzia di venire risparmiati. Non ci avevano infatti detto che Rafah era sicura? E invece anche ieri notte due case sono state colpite e i morti sarebbero almeno 40. Bisogna capire che molte famiglie condividono la stessa abitazione. Quindi ogni volta che l’Idf mira un presunto terrorista uccide, con lui, decine di innocenti. Per questo tanti residenti di Rafah ormai respingono i profughi: non conoscendoli, temono che tra loro ci siano sospetti miliziani di Hamas e non li vogliono nelle proprie case. A breve ci aspettiamo dunque di veder calare dal cielo un volantino con cui l’Idf ci ordina di evacuare perché sta per iniziare l’invasione. Noi siamo abituati – già 7 volte abbiamo traslocato dall’inizio di questa guerra – e ci porteremo le solite cose: documenti, vestiti pesanti e cibo in scatola. Ma tanti non si muoveranno: preferiscono rischiare di morire dove sono piuttosto che fuggire sotto la pioggia in un posto insicuro dove ritengono di avere le stesse possibilità di rimetterci la vita. L’altro giorno gli aerei dell’Idf hanno sganciato un volantino, sì, ma di altro tenore. Una specie di giornale di due pagine in cui ci dicevano di “svegliarci” ed elencavano i crimini di Hamas. Ma noi palestinesi non abbiamo bisogno che il nostro nemico ci spieghi chi è Hamas, li conosciamo benissimo, da 17 anni. Questi volantini ci fanno solo rabbia, e ci spingono paradossalmente a negare gli errori dei miliziani. Sembra quasi che Israele e Hamas si sostengano a vicenda. E nel mezzo, ci siamo noi. (Tratto da “Aspettando la fine: l’invasione di Rafah” corrispondenza di Sami al-Ajrami pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 4 di febbraio 2024).

“Pace significa vivere insieme”, corrispondenza di Lidia Ginestra Giuffrida da At-Tuwani (Palestina) pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del 2 di febbraio ultimo: La strada avanza curva dopo curva da Hebron verso il villaggio di At-Tuwani, dentro la Cisgiordania occupata. Sulla sinistra, il filo spinato della colonia israeliana di Carme! si sovrappone al verde degli ulivi. I militari presidiano l'accesso al villaggio. Qualche metro più in là le sorelle di Sami Huraini si pettinano i capelli a vicenda sedute nel giardino di casa: dietro di loro, una grossa bandiera israeliana buca il terreno. La famiglia Huraini, storica leader del movimento di resistenza non violenta della zona, vive ad At-Tuwani, nell'area di Masafer Yatta che comprende diversi villaggi a Sud della città di Hebron, dal 1948. Dopo la Nakba, la nonna comprò un pezzo di terra. In contrasto con il diritto internazionale, all'inizio degli anni Ottanta l'esercito israeliano ha dichiarato l'area "Firing zone 918", con l'intento di espropriare delle loro terre i 2.800 palestinesi residenti e di rafforzare gli insediamenti israeliani. Da quel momento i palestinesi vivono sotto la minaccia quotidiana di demolizioni, sfratti ed espropri. Alle famiglie di Masafer Yatta viene negato, da ben prima dell'inizio di questo conflitto a Gaza, l'accesso alla terra, alle strade, alle fonti d'acqua, alle scuole, ai servizi medici e agli ospedali. A ciò si aggiunge la violenza quotidiana da parte dei coloni. «Fin dai primi giorni di guerra abbiamo capito che il progetto coloniale di Israele avrebbe tratto vantaggio dalla situazione, intensificando gli sfratti e velocizzando le demolizioni delle case dei palestinesi», racconta Sami, attivista venticinquenne e primogenito della famiglia Huraini, «una delle prime cose che hanno fatto i coloni è stata allestire delle tende, ne hanno allestite 110 sulla montagna di Tshwane. La bandiera israeliana che sta qui nel mio giardino è stata messa da un gruppo di coloni subito dopo il 7 ottobre». Dopo quella data più di diecimila armi sono state distribuite ai coloni in Cisgiordania e la maggior parte di loro si trova a Masafer Yatta. Le famiglie vivono in uno stato di perenne terrore. Molti dei villaggi a Sud e a Nord di Hebron si stanno velocemente spopolando, sei sono già completamente vuoti e gli abitanti sono sfollati. Centinaia di famiglie, dall'inizio della guerra, sono state costrette a fuggire dalle loro case a causa dei sempre più violenti attacchi dei coloni armati e in divisa militare. «In almeno cinque villaggi, nei primi giorni di combattimenti, i coloni hanno picchiato le persone con violenza: hanno sparato a mio cugino solo perché stava portando il gregge al pascolo», continua Sami: «Entravano nei villaggi, nelle case, iniziavano a picchiare le persone e a intimare loro di andarsene. In questi giorni, nuovi coloni hanno cominciato a lavorare le nostre terre. Si stanno appropriando illegalmente di centinaia di ettari di terra, nel silenzio della Corte di giustizia israeliana». E mentre l'occupazione delle terre procede inarrestabile, a Masafer Yatta l'economia è al collasso. Alle due del pomeriggio nelle strade di At-Tuwani i bambini tornano da scuola, le madri a casa preparano il pranzo e i padri giocano a carte sull'uscio della porta. Non sono al lavoro, sono tutti disoccupati. La maggior parte dei palestinesi di Masafer Yatta prima del 7 ottobre lavorava in Israele, grazie a dei visti lavorativi che, poche ore dopo l'attacco di Hamas, sono stati loro ritirati. Inoltre, con la guerra i palestinesi non possono più portare il gregge al pascolo o arare le loro terre a causa della presenza dei coloni. Gli ulivi sono spogli, a terra chili di olive mai raccolte. Da ottobre a fine dicembre, cioè nel periodo della raccolta, ai palestinesi è stato infatti vietato di avvicinarsi ai propri alberi. «Tutto ciò ha messo in ginocchio la popolazione, specialmente i contadini. Abbiamo resistito per tre mesi con i pochi soldi messi da parte, ma ora sono finiti. Molte persone stanno andando via anche per questo», continua Sami. Ma se in tanti se ne vanno, spinti dalla violenza dei coloni e dalla miseria, altri restano. Restare a Masafer Yatta significa resistere quotidianamente all'occupazione della terra. Per gli attivisti diventa quindi sempre più importante aiutare le famiglie a non partire. Poco distante dall'abitazione di Sami c'è la «casa degli israeliani». Loro non sono coloni. Sono attivisti e vivono, appunto, nella casa che il cugino di Sami, Basei Adra, ha adibito a guest house per attivisti palestinesi, internazionali e soprattutto israeliani. «In questa terra c'è qualcosa per cui vale la pena vivere», si legge sul muro accanto a cui siede Yasmin Eran Vardi, attivista ebrea israeliana di 23 anni: «Ho deciso di venire a Masafer Yatta dopo aver rifiutato il servizio militare perché non volevo prendere parte all'occupazione e al sistema di apartheid. Sono venuta qui per vedere con i miei occhi cosa accade nei territori occupati della Cisgiordania, ma dietro questa scelta c'era anche la necessità di fuggire da Israele, con cui non sentivo più nessun legame». La mattina Yasmin accompagna gli allevatori palestinesi mentre portano il gregge al pascolo o gli agricoltori mentre raggiungono le loro terre; la sera dorme dalle famiglie che a turno vengono attaccate dai coloni. L'esercito israeliano l'ha arrestata diverse volte per questo. «La presenza israeliana è molto importante qui. Quando siamo soli ad affrontare il soldato o il colono, è molto probabile che ci sparino. Quando siamo con gli israeliani, difficilmente accade. In più, sapere che ci sono molti israeliani che lottano con i palestinesi e rifiutano di arruolarsi nell'esercito ci dà speranza», riprende Sami accennando un sorriso. È una terra arida quella intorno al villaggio, un paesaggio lunare che alterna silenzi e muezzin. La vita qui è un miracolo e tale appare la quotidiana collaborazione tra ebrei israeliani e palestinesi. In questa natura desolata, si ha l'impressione di trovarsi in uno dei pochi lembi di terra tra Palestina e Israele dove ancora si può parlare di convivenza tra i due popoli. «Dopo il 7 ottobre in tanti, da entrambi i lati, si sono radicalizzati. A Masafer Yatta, però, non mi sono mai sentita in pericolo», ammette Yasmin, «nessuno di loro è diventata più radicale, come nessuno di noi attivisti israeliani. Capisco perfettamente i palestinesi che non vogliono più lavorare con gli israeliani, ma posso dire che, finché loro vorranno lottare con noi, noi ci saremo». Sono le cinque del pomeriggio quando squilla il telefono di Sami: serve presenza protettiva a una famiglia attaccata dai coloni. Nel villaggio di Al Rakeez, per il secondo giorno consecutivo, i coloni israeliani entrano nelle case. La famiglia che vive all'ingresso del villaggio sta fuori dall'uscio. Madre, padre e figli: la fatica non risparmia nessuno. Uno sguardo stanco e rassegnato caratterizza tutti. Accanto a loro, in piedi, Sami apre la fila degli attivisti. Di fronte a lui, le luci dei mirini si muovono senza lasciar capire se i coloni stanno realmente puntando per sparare o no. La situazione va avanti per un po', fino a quando, forse perché stanchi o forse perché hanno compreso che assieme alla famiglia c'è un gruppo di attivisti, i coloni vanno via. Il sole sta tramontando e con lui la sensazione di pace provata fino a qualche ora prima. «Non uso mai la parola pace», dice Yasmin prima di andare via, «la pace si fa tra due Stati e io non credo negli Stati. Ma se penso a cosa voglia dire per me vivere in pace in questa terra, significa vivere insieme. La pace che ci hanno insegnato e che continuano a imporci è una grande menzogna. Quella pace serve alla politica, non a noi, non alla vita reale, non alle nostre vite».

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