"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 10 febbraio 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 58 Antonio Scurati: «Novembre 1918, quel balzo grazie al quale Mussolini sale sul camion degli Arditi: la violenza, la violenza ideologicamente orientata di una milizia armata per la prima volta identificata con un partito politico, la minaccia della violenza omicida».


(…). 19 novembre 1919: Mussolini è ritenuto da tutti, a cominciare da se stesso, un politico finito. 28 ottobre 1922: due anni e undici mesi più tardi, Mussolini, dopo aver minacciato la rivoluzione violenta con i suoi squadristi accampati alle porte di Roma ma viaggiando comodamente in vagone letto da Milano perché convocato ufficialmente dal re d'Italia Vittorio Emanuele III, sale le scale di marmo del Quirinale - una reggia - e riceve, lui, figlio di un fabbro, nato in una frazione di uno sperduto paese della provincia italiana, a soli trentanove anni, riceve da Sua Maestà l'incarico legale di formare il suo primo governo. Ciò accade, è bene ribadirlo, al culmine della cosiddetta marcia su Roma - una insurrezione armata che l'esercito avrebbe potuto agevolmente stroncare se soltanto il Re glielo avesse ordinato - a fine ottobre del 1922, quindi soltanto tre anni dopo le disastrose elezioni del 1919, l'arresto di quel cialtronesco agitatore fallito e la certificazione quasi unanime del suo decesso politico. La questione sollevata da questa seconda origine del fascismo è, dunque, la seguente: come è stato possibile che un uomo piuttosto rozzo e ignorante, giovane per quei tempi - nell'ottobre del 1922 Mussolini aveva trentanove anni e questo faceva di lui il più giovane capo di governo d'Europa, forse del mondo -, figlio di un fabbro, cioè figlio del popolo, con quasi niente alle spalle, venuto dal nulla, espulso dal Partito socialista, ritenuto da tutti un politico fallito soltanto tre anni prima, come è stato possibile, dunque, che si sia issato al potere, un potere ricevuto ufficialmente e legalmente dalle mani auguste del re d'Italia? La risposta si potrebbe trovare nell'aneddoto del novembre 1918, in quel balzo grazie al quale Mussolini sale sul camion degli Arditi: la violenza, la violenza ideologicamente orientata di una milizia armata per la prima volta identificata con un partito politico, la minaccia della violenza omicida. E si tratta sicuramente di una risposta pertinente che non va mai dimenticata né sottovalutata. Eppure io credo che non sia sufficiente per spiegare cos'è accaduto, per spiegare l'inspiegabile. Se vogliamo davvero capire, non dobbiamo, come dicevo, guardare soltanto al Mussolini stupratore dell'Italia, ma anche al Mussolini suo seduttore. E il Mussolini seduttore non si specchia nella grinta terrificante dello squadrista, non coincide con il fascista in senso stretto, ma con il suo volto populista. È solo ritrovando, al di sotto delle espressioni marziali della maschera fascista, anche i tratti suadenti del populista, che giungeremo a spiegarci, oggi come allora, la fulminea scalata nei consensi che conduce l'emarginato di ieri alla travolgente conquista del potere di oggi, o di domani. (Tratto da “Fascismo e populismo” di Antonio Scurati, edizioni Bompiani, 2023).

"Il delitto Matteotti" 5. “Il soprabito del Duce copre le violenze”, testo di Claudio Fracassi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, venerdì 9 di febbraio 2024: La scelta di affidare ad Amerigo Dumini - grande esperto di ricatti, intimidazioni politiche e persino omicidi - la messa a tacere del pericoloso Giacomo Matteotti (e di quelli come lui, che si ostinavano a polemizzare col vincente fascismo) fu direttamente di Benito Mussolini. Non si trattava più ormai - spiegò con convinzione ai collaboratori - di adeguarsi passo dopo passo al nuovo vincente clima politico, accompagnandolo via via ad affermarsi. La svolta nel Paese doveva essere evidente e immediata. Bisognava - riferì poi il braccio destro del duce Cesare Rossi (cit. in Trentatré vicende Mussoliniane) - "spennare la gallina senza farla strillare". Dumini era l'uomo adatto per l'operazione, che doveva essere organizzata e portata a termine con rapidità, determinazione e anche ferocia, naturalmente senza toccare, in un primo tempo, le prerogative della Monarchia. Gran parte dell'opposizione non aveva capito. Lo si coglie dallo stato d'animo di molti tra coloro che divennero poi con coraggio, durante il Ventennio delle persecuzioni e dell'esilio, i pilastri dell'antifascismo o le vittime del fascismo. Dalle lettere di Anna Kuliscioff, l'intraprendente compagna del socialista Turati: "La disgregazione fascista procede a passi da gigante... Lo sfacelo è evidente; ma bisogna avere pazienza ed aspettare il crollo... Il duce è in cerca del nemico... Voi altri adesso, più che mai, dovete rimanere compassati e poco battaglieri". Anche nell'ala antiriformista del Psu prevaleva l'attesismo: "Quale sia la soluzione, compromesso o dittatura, noi continueremo la nostra propaganda". Il sindacato, che già non aveva colto il senso, nel 1922, della cosiddetta "Marcia su Roma", continuava penosamente a destreggiarsi, provocando l'ira di Turati: "I nostri, spettacolo desolante. Ce n'era che applaudivano. Tutti quasi ridacchiavano... Idioti politico-morali... Prepariamo le valigie, non più per salvare la pelle (anzi!), ma per salvarci dal vomito" (Carteggio Turati-Kuliscioff). Il più stretto collaboratore di Mussolini così spiegò la situazione e i suoi prevedibili sviluppi, per informare e indottrinare un autorevole resocontista parlamentare del Corriere della Sera (Cesare Rossi a Carlo Silvestri): "Questa gente si illudono se credono che, quando Mussolini fa delle minacce, si compiaccia di frasi retoriche; se sapessero quello che passa nell'animo di Mussolini in certi momenti, si placherebbero subito. Il Presidente è ben deciso a mettere in atto le sue minacce: se non si desiste da questa opposizione sabotatrice, egli farà funzionare i plotoni di esecuzione. Quelli che lo conoscono dovrebbero sapere che ogni tanto Mussolini ha bisogno di sangue, e non sempre i consigli di moderazione avranno effetto". La condizione dell'Italia uscita dalla guerra era quasi disperata, soprattutto a causa dei prezzi correnti. C'era bisogno di uno choc dei salari e dei costi, che era di là da venire. Le paghe operaie non superavano le cinquecento lire al mese, la carne costava quasi nove lire al chilo. Il viaggio in uno scompartimento di terza classe da Milano a Genova portava via 32 lire, l'acquisto di una cucina economica valeva un intero stipendio impiegatizio, una saponetta Palmolive costava L. 1, 75, la breve prestazione, denominata "marchetta", di una prostituta si pagava tre lire nei bordelli popolari e venticinque in quelli di lusso. Per uscire dalla routine e dalle crescenti lamentele - era la convinzione di Mussolini - "ci voleva uno choc". In questo clima prese corpo l'idea del ricorso al terrore, di una "sveglia" all'intera società a opera di una organizzazione ben addestrata al servizio diretto di Mussolini, in grado di intimidire gli avversari, neutralizzare i nemici politici e piegarli al servizio di un "nuovo ordine" ormai irreversibile. Si trattava, all'uopo, di creare un gruppo specializzato "a difesa del regime e funzionante sotto la responsabilità della direzione del partito" (Documenti inediti sul caso Matteotti, a cura di M. Canali). L'argomento tutto politico usato dal duce è stato così riassunto dal molto informato Cesare Rossi in un memoriale (agli atti processuali): "Tutti i governi allo stato di transizione hanno bisogno di organi illegali che mettano a posto gli avversari... Con il possesso degli organi ufficiali dello Stato il fascismo ha poi il modo di mettere lo spolverino a tutte le violenze”.  Capo della speciale organizzazione era stato designato Amerigo Domini, che il duce conosceva bene e in cui aveva illimitata fiducia. Nel vertice ristretto che attorniava Mussolini il nuovo organismo fu denominato riservatamente la "Ceka fascista" (il termine un po' oscuro era particolarmente caro al fantasioso dittatore). La proposta, "ìnsistentemente avanzata in ogni occasione dal duce", era stata ufficializzata dal vertice mussoliniano nel gennaio del 1924. Lo stesso nome incomprensibile era stato coniato quasi a dispetto, utilizzando le iniziali dell'espressione russa Chrezvychajnaja Komissija, il termine che a Mosca, dopo la rivoluzione, designava la "Commissione straordinaria" della polizia politica capeggiata da Dzerzhinskij. Persino trai dirigenti antifascisti delle forze politiche italiane il tenebroso nome "Ceka fascista", che cominciava a circolare in accompagnamento alle aggressioni e alle spedizioni punitive, fu preso in considerazione con diffidenza. L'esistenza di quella struttura e dei suoi metodi è stata poi, durante e dopo il fascismo, pienamente ufficializzata nelle inchieste di polizia e nelle indagini della magistratura. Si trattava, in quei giorni di fascismo vincente ma non soddisfatto, di mettere in atto azioni illegali - per minacciare o eliminare gli avversari - utilizzando un gruppo ristretto di uomini fidati e strategicamente capaci, senza divisa ma di sicura obbedienza (l'esempio per tutti era Domini). Si trattava di aggredire con azioni chiaramente riconoscibili ma "senza mettere la firma", agendo poi, attraverso insabbiamenti o deviazioni delle indagini, per intimidire le vittime ("mettere lo spolverino" all'impresa, era l'espressione cara al duce). Le aggressioni politiche che si moltiplicavano erano ormai, nelle prime settimane del 1924, diffuse nel territorio e significative: esemplare quella contro il democratico e liberale Giovanni Amendola, sanguinosamente bastonato in pieno centro di Roma davanti a numerosi testimoni. Così aveva descritto l'episodio, con furbo compiacimento, un collaboratore del duce: "La polizia era riuscita a imbrogliare bene le carte fino a far credere a quelli del Mondo l'influenza e l'intervento di interessi stranieri: Mussolini rideva molto sulla credulità in materia di Amendola e compagni". In questo clima politico fu deciso (…), sotto la regia dell'esperto Domini, l'attacco omicida a Giacomo Matteotti.

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