Di seguito “La
barca”, racconto “breve” di Andrea Camilleri recuperato dall’archivio del
quotidiano di Palermo “L’Ora del popolo”
– in seguito “L’Ora” – pubblicato l’11
di maggio dell’anno 1949 e riportato su "il Fatto Quotidiano" di oggi domenica 27 di giugno 2021: Con
un ultimo deciso strattone la barca fu tirata a riva e non appena giacque sulla
sabbia come un goffo e pesante animale sprofondato nel sonno, Carlo e Francesco
si asciugarono le mani strofinandole sui pantaloni, salutarono con un borbottio
indecifrabile e, stanchi per il faticoso lavoro durato tutto il giorno, si
avviarono verso la calda zuppa di pesce e il letto come verso un favoloso
paradiso. Matteo, rimasto sulla spiaggia con suo figlio, seguì con lo sguardo i
due che si allontanavano fino a quando li vide sparire inghiottito dal buio e
quindi si volse a guardare la barca. Era una notte serena, calda, neppure
increspata da un filo di vento e la luna che non si era ancora levata preannunziava
la sua prossima apparizione con un latteo chiarore al disopra dei monti, quanto
bastava a Matteo per poter distinguere le agili e perfette forme dello scafo,
l’albero dritto verso il cielo, il biancore soffice della vela arrotolata. Per
un poco egli stette immobile, lo sguardo fisso, mentre chiarissime, quasi
scandite gli tornavano alla memoria le beffarde parole che Francesco aveva
dette alla barca quando, dopo aver finito di pescare, stavano veleggiando verso
la costa: “addio, bella mia, sei diventata troppo vecchia per tenere ancora il
mare: domani stesso Matteo ti venderà come legna per ardere”: poi incerto, come
esitando, levò una mano di tasca e sfiorò con la punta delle dita il fianco
gelido dello scafo ancora gocciolante d’acqua. Subito quel freddo contatto gli
diede un brivido, una scossa che gli percorse tutto il corpo dalla testa ai
piedi e che, stordendolo, gli fece premere automaticamente con forza la palma
della mano aperta sul legno. E questa volta un languore estenuante s’impadronì all’improvviso
dei suoi muscoli, una tenerezza dolciastra lo strinse alla gola, lo fece
sprofondare in una intrattenibile commozione infantile. “Papà”. La voce del
figlio che lo richiamava alla realtà lo fece sobbalzare: ritirò di scatto la
mano come se si fosse bruciato, la rimise in tasca. “Ebbene?”. “Dicevo se non è
l’ora di andarcene anche noi”. “No”. Era stato troppo brusco, troppo deciso. Ma
che ne potevano capire gli altri? Domani la barca non sarebbe più esistita:
asce e seghe avrebbero spezzato, martoriato il legno… E quella sera era come
quando si veglia un agonizzante, un moribondo che non si può lasciare solo ad
attendere la morte. “No”, ripeté e indovinando nel buio lo sguardo stupito del
figlio aggiunse ancora: “Senti, io domattina mi devo alzare all’alba perciò
tanto vale che resti qui. Ma tu puoi andartene”. “Va bene. E per cenare come
fai?”. “Ho qualcosa che n’è rimasto da oggi”. “Allora buona notte”. “Buona
notte …”. Era finalmente solo: si avvicinò ancora di più alla barca, sedette
sulla sabbia, trasse dalla tasca un involto, l’aprì, prese il pane e il
formaggio che vi trovò dentro e si mise a mangiare distrattamente, di mala
voglia. L’intensa commozione di prima lo aveva abbandonato con la stessa
rapidità con la quale era venuta ed ora si sentiva svuotato dentro, con il
cervello restio a formulare dei pensieri come nelle afose giornate di scirocco.
Poi quando ebbe finito di mangiare si distese supino, guardò per un attimo nel
cielo le stelle che vi brillavano e, chiudendo gli occhi, stese adagio una mano
fino ad incontrare la chiglia della barca. Rimase fermo così sperando che il
ritmico e monotono rumore del mare accelerasse la venuta del sonno. Lo svegliò
un colpo sordo e improvviso come se qualcuno avesse battuto con una pietra
sull’altro fianco dello scafo e la prima cosa che vide, aprendo gli occhi, fu
la luna ormai alta nel cielo. Si rese conto di aver dormito a lungo e ancora
mentre stentava a riprendere completa conoscenza udì un altro colpo seguito da
un inconfondibile rumore di passi dentro la barca. Il primo impulso di Matteo
fu di alzarsi e di gridare per rivelare la sua presenza ma una strana inerzia
lo trattenne dal porre in atto questo suo pensiero e lo inchiodò sulla sabbia. Udì
ancora dei passi e poi più niente, nessun rumore, nessuna voce. Se non fosse
stato ben sicuro di non avere sognato, si sarebbe rimesso a dormire, tanto
tutto era ritornato ad essere calmo attorno a lui. Ma fu appunto questo
repentino silenzio che lo turbò e lo insospettì maggiormente. Che cosa volevano
fare alla sua barca? Matteo lasciò trascorrere qualche minuto e poi quasi
trattenendo il respirò si alzò, si eresse con cautela sulla punta dei piedi e
guardò al di sopra del bordo dello scafo. Sul fondo, scomodamente distesi sul
legno, c’erano un ragazzo e una donna che si baciavano, avvinghiati. Per un
attimo sembrò a Matteo che tutto attorno a lui si fosse ancora di più oscurato.
Una fitta nebbia grigia e rossa gli calò davanti agli occhi e dopo, quando la
scena crudelmente illuminata dalla luna tornò a ricomporglisi davanti, un’ira
delirante e selvaggia lo aggredì squassandolo tutto. Pallido, febbrile, ma
senza che una sola parola gli uscisse dalle labbra serrate, si sfilò la cinghia
dei pantaloni, con un solo salto fu dentro la barca e prese con quella sibilante
sferza improvvisata a colpire bestialmente. Il grido di paura che i due
lanciarono lo eccitò maggiormente, picchiò ancora più forte e, mentre il
giovane riavutosi per primo dalla sorpresa saltava giù dalla barca e scappava
senza voltarsi indietro, egli vide le gambe della donna scoperte e con un balzò
vi fu sopra, calpestò quel biancore coi tacchi, lo batté con la cinghia sino a
quando non vide più niente, più niente e capì che anche la donna era fuggita. E
allora, mentre una grande tristezza gli cadeva addosso, si mosse lentamente,
andò a prendere un bugliolo pieno d’acqua e con uno straccio cominciò a lavare
il legno della barca, nel punto preciso dove i due si erano coricati, con gesti
amorosi e leggeri come se stesse curando delle ferite.
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