Tratto
da «Draghi, operazione “Reconquista”» di
Barbara Spinelli, pubblicato su «il Fatto Quotidiano» del 2 di giugno 2021: (…).
…l’avvento di Draghi era programmato o comunque desiderato da molto tempo, con
un’accelerazione massima subito dopo il successo europeo ottenuto dal suo
predecessore (il Recovery Plan). Conosciamo gli autori del cambio di guardia:
la maggioranza di Confindustria, i padroni dei principali giornali, i potentati
economici con profilo di multinazionali, Matteo Renzi esecutore finale.
Intuiamo anche il motivo del cambio: la gestione/distribuzione del suddetto
Recovery Plan, detto anche Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In
questi giorni stiamo conoscendo i primi frutti dell’operazione. Operazione che
potremmo chiamare Reconquista, in ricordo della lunghissima guerra di religione
che portò all’estromissione della civiltà musulmana in Spagna. La Reconquista,
oggi, punta a scalzare uno dopo l’altro gli ostacoli che nell’ultimo decennio
hanno insidiato i dogmi neoliberisti: ostacoli sommariamente bollati come
populisti. Decisiva fu l’offensiva contro la sinistra greca che andò al potere
nel 2015. Altrettanto decisivo il Brexit, che ha provvidenzialmente
neutralizzato non solo le uscite dall’Unione ma anche le critiche radicali
delle sue regole (torna senza più complessi il motto “Ce lo chiede l’Europa”).
Infine il Covid esploso in Europa nel 2020, ultimo ostacolo frapposto alla
Reconquista. Non mancarono le promesse di una normalità diversa, non più
fondata sulla disuguaglianza sociale e la rovina ambientale. Lo prometteva il
governo Conte-2 ed è stato estromesso, con la scusa che “tutta” la classe
politica aveva fallito. Le critiche all’Unione europea e ai suoi parametri di
austerità ridiventano sospette. Le recenti scelte di Draghi e alcuni suoi gesti
verbali sono tappe evidenti della Reconquista. In economia: la liberalizzazione
dei subappalti, solo in parte frenata dai sindacati, con la scusa che è
l’Europa a chiederci di semplificare e velocizzare i progetti del Recovery
Plan; la fine del blocco dei licenziamenti introdotto durante il Covid, ancora
una volta perché lo chiede Bruxelles e prima di aver creato gli ammortizzatori
sociali che in altri Paesi Ue attutiscono l’urto dei licenziamenti;
l’accentramento delle decisioni sul Pnrr nella figura del presidente del
Consiglio e in centinaia di tecnici che erano intollerabili quando li propose
Conte; la degradazione dei ministri tecnici a braccidestri di Palazzo Chigi. In
politica estera: professione di fedeltà atlantica sin dal discorso inaugurale
in Parlamento. Nella giustizia: le nuove regole sulla prescrizione forse non si
toccano ma nella proposta Cartabia è il Parlamento e non il potere giudiziario
a decidere le priorità delle azioni penali. E ancora, sulla migrazione: fallito
tentativo di ottenere più solidarietà in Europa, seguito da dichiarazioni
sibilline: “Continueremo ad affrontare il problema da soli”. (…). Tra i gesti
verbali potremmo citare la risposta a Enrico Letta sulla proposta di tassare le
successioni oltre i 5 milioni di euro per lasciare un’eredità ai giovani. “Non
ne abbiamo mai parlato. Non è il momento di prendere i soldi dei cittadini ma
di darli”. Non si chiamava Next Generation? Vorrebbe forse essere sprezzatura e
somiglia piuttosto a disprezzo. A ciò si aggiunga, sempre nel Recovery,
l’aumento dei fondi per la telemedicina a scapito degli investimenti nella
sanità territoriale (gli anziani faticano a telecurarsi, ma non importa).
Diminuiscono inoltre rispetto alle bozze di Conte gli investimenti – già
considerati esigui dagli scienziati – nella ricerca, soprattutto quella
fondamentale (nonostante la sua centralità nello studio di future zoonosi e pandemie).
Draghi segue molte scelte di Conte, senza mai riconoscerne i meriti, ma le
discontinuità sono oggi evidenti. Discontinuità mai spiegate nelle nomine o
sostituzioni, oltre che nell’economia. Ma più in generale: ripristino di quella
che negli anni Ottanta e Novanta si chiamava “disintermediazione”. Mutuata dal
linguaggio finanziario, la disintermediazione marginalizza ogni sorta di
intermediario/mediatore (sindacati, partiti, giornalisti, parlamenti,
magistrati) sistematicamente incriminati di allentare, ostacolare, normare le
forze di mercato. L’ultimo nemico da maledire: la burocrazia. Oltre
all’offensiva indistinta contro burocrati e partiti, assistiamo infine a una
progressiva, sotterranea squalifica dei maggiori scienziati che ci sono stati accanto
nella pandemia, da Andrea Crisanti a Massimo Galli. Il “rischio ragionato” al
momento si dimostra vincente, per fortuna. Ma le riaperture non sono
irreversibili come afferma Sileri: in Gran Bretagna già si parla di terza
ondata e di nuove restrizioni. Il rischio è preferito al principio di
precauzione: anche questo fa parte della Reconquista. La disintermediazione è
una macchina di accentramento dei poteri nelle mani del premier e di quelle che
Zagrebelsky chiama cerchie ristrette del potere. Contestualmente sono sempre
più invise le elezioni: evitarle è cosa buona e giusta. Quando danno risultati
sconvenienti subito ci si rincuora dicendo che in ogni caso opera il “pilota
automatico”. Subito dopo le elezioni del febbraio 2013 e il primo grande successo
del M5S, Draghi presidente dalla Banca centrale europea disse in conferenza
stampa: “I mercati sono stati meno impressionati (dall’esito del voto) dei
politici e di voi giornalisti. Penso che capiscano che viviamo in democrazie
(…) Dovete considerare che gran parte delle misure italiane di consolidamento
dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico”. Già allora i
giornalisti andarono in estasi, specie quando venivano scherniti per la loro
“impressionabilità” (anche qui: fu sprezzatura o disprezzo?). Con Draghi, il
mercato si libera di parecchi controlli – declassati a burocratici. Il
desiderio è di chiudere la parentesi della pandemia e restaurare quel che c’era
prima. Offerta e domanda devono potersi di nuovo incontrare direttamente, senza
intermediari. Fino alla prossima crisi, finanziaria o sanitaria o democratica
che sia. O al prossimo crollo di un ponte o una funivia. Si chiama rischio, non
disastro. Vince l’osannata resilienza/sopportazione, che sta soppiantando –
simile alle varianti virali – le più promettenti nozioni di resistenza e
normalità alternativa.
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