"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 16 giugno 2021

Leggereperché. 88 «Quando la pozza ti inghiotte del pudore degli altri non te ne fai nulla».

A lato. "Cityscape", acquerello (2021) di Anna Fiore.

Ha scritto Anna Maria Ortese in “Vita di Dea”: “(…). Chi potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra? Una volta gettata l’ultima palata sulla loro fossa, essi si alzano e si allontanano vacillando pei sentieri oscuri, quali verso i cieli, quali verso i mari, quali verso le verdi profondità del globo, e Dio solo sa dove andranno e quale forma rivestiranno, e se non ci fissano ogni giorno, assorti, sotto forma di un povero animale o di un fiore. Questa Vita è talmente indipendente dal nostro pensiero limitato, che tutto, dico tutto, ogni più nobile cosa può accadere: e lo sa chi, capace di ricordare e osservare, prova continuamente davanti a essa un sentimento di rispetto e terrore”.

Tratto da “Il lutto e il consòlo” di Claudia De Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 16 di giugno dell’anno 2012: Ho sempre avuto un gran pudore nei confronti del dolore altrui. Al cospetto di malattie, lacrime e lutti di amici o parenti lontani mi ritraevo, convinta che silenzio fosse uguale a rispetto, che ogni parola sarebbe suonata sbiadita e inopportuna, ogni conforto estraneo sarebbe stato un’imperdonabile violazione di quella sfera preziosa che è l’intimità. Per riguardo, ritrosia e forse vigliaccheria, mi sono sempre tirata indietro, acquattandomi nelle retrovie dell’altrui sofferenza, persuasa che anche una mano tesa, in certi frangenti, fosse una sgradita ingerenza. Ora che ci penso, anche chiedere e parlare del dolore altrui mi sembrava un’indebita intrusione di un privato inviolabile. Pur ribellandomi idealmente a quella pratica tanto diffusa di relegare altrove, lontano dalla quotidianità e dai pensieri dei sani, la malattia e la morte, mi ci sono adeguata, guardandomi bene dal mettere i piedi dentro la pozza nera e vischiosa della sofferenza. Poi ci sono finita dentro io in quella pozza, immersa fino al collo, in prima linea. Mio padre, uno dei due soli uomini a cui io ho chiesto di sposarmi (quando accadde avevo 5 anni ma la mia determinazione era ferrea), se ne è andato, lieve, come aveva vissuto. Ho sentito parole come "decorso rapido e inesorabile", "prognosi infausta", "ultimo saluto", "condoglianze", domandandomi intontita perché la nostra lingua usi suoni tanto musicali per esprimere concetti così dolorosi. Ho conosciuto medici che camminano quotidianamente su quel filo sottile, tra chi c’è e chi non c’è più, capaci di prenderti per mano e accompagnarti in quella terra di catrame, con la professionalità e l’umanità di chi frequenta la vita e la morte. Ho scoperto la solidarietà silenziosa e sollecita tra i parenti in un corridoio di ospedale, dove fatiscenza ed eccellenza sono un curioso ma tangibile ossimoro. Ho ricevuto messaggi, telefonate, visite, manifestazioni di ciò che io, prima di cadere in quella pozza, consideravo intrusioni. Una mattina, era domenica, il giorno prima del funerale, ricevetti un sms da un'amica. "Siete svegli? Da fuori sento le vostre voci, ma non voglio disturbare". Se ne stava lì, sul pianerottolo, dietro la porta di casa mia, piccoletta, gli occhi grandi e un enorme sacchetto tra le braccia. "Cosa ci fai qui?". "No, non resto, grazie. Non entro nemmeno, devo andare. Sono solo passata a darti questo". Scomparve, come un folletto, lasciando il suo sacchetto. Dentro trovai dei dolci e una torta salata, fatti da lei. Ho scoperto dopo che si chiama "consolo" ed è un'usanza del Salento: una pietanza dolce e una salata per chi piange, perché non debba pensare ad altro, perché il cibo è conforto, perché sappia che, lì fuori, chi era vicino continua ad esserlo, senza violare l'intimità delle lacrime. E ho finalmente capito che, al cospetto del dolore altrui, non bisogna ritrarsi pudichi e spaventati ma inventarsi o riscoprire i modi per porgere una spalla o una torta, per consolare senza invadere, per abbracciare senza toccare. Perché quando la pozza ti inghiotte - e lo dico con cognizione di causa - del pudore degli altri non te ne fai nulla. Perché, da lì dentro, hai bisogno di sapere che quando potrai e vorrai risalire in superficie, fuori troverai una mano, una voce, un'amica sul pianerottolo ad aspettarti. Perché l'empatia, la presenza, il conforto e il consolo degli amici e degli affetti sono l'unico, vero buon motivo per uscire dal catrame e tornare a vivere. "Il nonno non c'è più", ho dovuto dire a mio figlio, di nove anni. "Come è possibile? Perché i medici non lo hanno guarito?". "Perché non era possibile". "Io sono triste". "Anche io". Ci siamo abbracciati, poi lui si è sdraiato sul letto e ha guardato il soffitto. "A cosa pensi?". "Penso che devo fare una telefonata". "A chi?". "A Mattia". "Mattia il tuo amico?". "Sì. Ho bisogno di parlarne con lui. Gli amici servono a questo, no?". "Già, servono a questo. E a molto altro. La tua mamma lo ha capito un po' tardi".

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