A lato. "Cityscape", acquerello (2021) di Anna Fiore.
Ha scritto Anna Maria Ortese in “Vita di Dea”: “(…). Chi potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra? Una volta gettata l’ultima palata sulla loro fossa, essi si alzano e si allontanano vacillando pei sentieri oscuri, quali verso i cieli, quali verso i mari, quali verso le verdi profondità del globo, e Dio solo sa dove andranno e quale forma rivestiranno, e se non ci fissano ogni giorno, assorti, sotto forma di un povero animale o di un fiore. Questa Vita è talmente indipendente dal nostro pensiero limitato, che tutto, dico tutto, ogni più nobile cosa può accadere: e lo sa chi, capace di ricordare e osservare, prova continuamente davanti a essa un sentimento di rispetto e terrore”.
Tratto
da “Il lutto e il consòlo” di Claudia
De Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la
Repubblica” del 16 di giugno dell’anno 2012: Ho sempre avuto un gran pudore
nei confronti del dolore altrui. Al cospetto di malattie, lacrime e lutti di
amici o parenti lontani mi ritraevo, convinta che silenzio fosse uguale a
rispetto, che ogni parola sarebbe suonata sbiadita e inopportuna, ogni conforto
estraneo sarebbe stato un’imperdonabile violazione di quella sfera preziosa che
è l’intimità. Per riguardo, ritrosia e forse vigliaccheria, mi sono sempre
tirata indietro, acquattandomi nelle retrovie dell’altrui sofferenza, persuasa che
anche una mano tesa, in certi frangenti, fosse una sgradita ingerenza. Ora che
ci penso, anche chiedere e parlare del dolore altrui mi sembrava un’indebita
intrusione di un privato inviolabile. Pur ribellandomi idealmente a quella
pratica tanto diffusa di relegare altrove, lontano dalla quotidianità e dai
pensieri dei sani, la malattia e la morte, mi ci sono adeguata, guardandomi
bene dal mettere i piedi dentro la pozza nera e vischiosa della sofferenza. Poi
ci sono finita dentro io in quella pozza, immersa fino al collo, in prima
linea. Mio padre, uno dei due soli uomini a cui io ho chiesto di sposarmi (quando
accadde avevo 5 anni ma la mia determinazione era ferrea), se ne è andato,
lieve, come aveva vissuto. Ho sentito parole come "decorso rapido e
inesorabile", "prognosi infausta", "ultimo saluto",
"condoglianze", domandandomi intontita perché la nostra lingua usi
suoni tanto musicali per esprimere concetti così dolorosi. Ho conosciuto medici
che camminano quotidianamente su quel filo sottile, tra chi c’è e chi non c’è
più, capaci di prenderti per mano e accompagnarti in quella terra di catrame,
con la professionalità e l’umanità di chi frequenta la vita e la morte. Ho
scoperto la solidarietà silenziosa e sollecita tra i parenti in un corridoio di
ospedale, dove fatiscenza ed eccellenza sono un curioso ma tangibile ossimoro.
Ho ricevuto messaggi, telefonate, visite, manifestazioni di ciò che io, prima
di cadere in quella pozza, consideravo intrusioni. Una mattina, era domenica,
il giorno prima del funerale, ricevetti un sms da un'amica. "Siete svegli?
Da fuori sento le vostre voci, ma non voglio disturbare". Se ne stava lì,
sul pianerottolo, dietro la porta di casa mia, piccoletta, gli occhi grandi e
un enorme sacchetto tra le braccia. "Cosa ci fai qui?". "No, non
resto, grazie. Non entro nemmeno, devo andare. Sono solo passata a darti
questo". Scomparve, come un folletto, lasciando il suo sacchetto. Dentro
trovai dei dolci e una torta salata, fatti da lei. Ho scoperto dopo che si
chiama "consolo" ed è un'usanza del Salento: una pietanza dolce e una
salata per chi piange, perché non debba pensare ad altro, perché il cibo è
conforto, perché sappia che, lì fuori, chi era vicino continua ad esserlo,
senza violare l'intimità delle lacrime. E ho finalmente capito che, al cospetto
del dolore altrui, non bisogna ritrarsi pudichi e spaventati ma inventarsi o
riscoprire i modi per porgere una spalla o una torta, per consolare senza
invadere, per abbracciare senza toccare. Perché quando
la pozza ti inghiotte - e lo dico con cognizione di causa - del pudore degli
altri non te ne fai nulla. Perché, da lì dentro, hai bisogno di sapere che
quando potrai e vorrai risalire in superficie, fuori troverai una mano, una
voce, un'amica sul pianerottolo ad aspettarti. Perché l'empatia, la presenza,
il conforto e il consolo degli amici e degli affetti sono l'unico, vero buon
motivo per uscire dal catrame e tornare a vivere. "Il nonno non c'è
più", ho dovuto dire a mio figlio, di nove anni. "Come è possibile?
Perché i medici non lo hanno guarito?". "Perché non era
possibile". "Io sono triste". "Anche io". Ci siamo
abbracciati, poi lui si è sdraiato sul letto e ha guardato il soffitto. "A
cosa pensi?". "Penso che devo fare una telefonata". "A
chi?". "A Mattia". "Mattia il tuo amico?". "Sì.
Ho bisogno di parlarne con lui. Gli amici servono a questo, no?".
"Già, servono a questo. E a molto altro. La tua mamma lo ha capito un po'
tardi".
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