Non è cambiato nulla in questi anni nel tuo modo di rapportarti a lui? «Non direi. La sua morte è stata così improvvisa e inaspettata e io ero così giovane che ho faticato a elaborare un rapporto maturo con la sua figura. E poi forse ha inciso anche un altro aspetto».
Quale? «A me e ai miei fratelli fu sottratta quella intimità che accompagna gli ultimi momenti di vita di un padre e di una madre. Fin dal malore sul palco di Padova, la grande macchina del Pci e la diffusa emozione popolare finirono involontariamente e per troppo amore col sottrarci una parte del nostro dolore rendendolo così condiviso e così pubblico».
Ne parli come se ancora ti toccasse. «E come potrei mai dimenticare quei giorni? Ci furono di grande conforto il presidente Pertini e i pugni chiusi e i segni della croce di tantissime persone al passaggio della bara. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, continuo a percepire affetto e dolore per la sua perdita».
Come spieghi questo rimpianto così vivo? «Forse perché mio padre è stato capace di rappresentare la speranza di un cambiamento: il Pci ha incarnato questo progetto per molta parte del nostro paese. Allora il leader era una figura mai separata dal suo partito. Ed esisteva una forte identificazione tra il segretario e il militante perché le loro vite erano simili: passione, lotte e sacrifici. E di dedizione a quell’idea».
C’è qualcosa che ti disturba nella memoria pubblica di Enrico Berlinguer? «Ci sono aspetti rimasti nell’ombra, come l’amore per il suo Paese e le istituzioni democratiche. Non è un suo tratto peculiare, ma proprio di gran parte della sua generazione che coltivava un fortissimo senso dello Stato, a prescindere dalle appartenenze partitiche. Mio padre era un comunista italiano. E negli anni difficili del terrorismo e delle stragi l’interesse nazionale veniva prima anche dello stesso interesse del Pci».
Il feretro era avvolto in una bandiera italiana. «Sì, così lo accompagnammo nel viaggio dall’ospedale di Padova fino all’aeroporto dove ci imbarcammo sull’aereo del presidente Pertini. Quando arrivammo la sera tardi a Ciampino, mamma si accorse che c’era solo la bandiera rossa. E allora chiese che ci fosse anche il tricolore. Enrico, disse, era prima di tutto un uomo che amava il suo paese».
Fu criticato perché ci mise tanto a fare lo strappo dall’Urss. «Lo fece quando era sicuro di portarsi dietro tutto il partito. Ma in realtà il suo distacco era maturato da tempo. Già nel 1977 a Mosca il suo discorso sul valore universale della democrazia venne accolto da una reazione glaciale. E nel 1973 c’era stato il gravissimo incidente stradale in Bulgaria: lui era convinto che si fosse trattato di un attentato».
Anche in famiglia non avvertivi un sentimento di vicinanza all’Urss. «Tutt’altro. Ricordo quando arrivammo a Jalta in nave, nel nostro unico viaggio in Unione Sovietica: guardando verso la banchina papà diceva: “Poveri noi, ecco Ponomariov (un altissimo dirigente del Pcus), ecco Smirnov” (un importante funzionario). Era il 1979 e sapeva di essere un sorvegliato speciale».
Cos’altro non approvi della sua immagine pubblica? «La tendenza a leggere la questione morale come espressione della diversità antropologica dei comunisti. In quella celebre intervista a Scalfari mio padre denunciò l’occupazione della società e dello Stato da parte dei partiti, anticipando quello che sarebbe poi accaduto, ossia la sfiducia dei cittadini nella politica. Non l’ho mai sentito parlare di superiorità morale dei comunisti».
Il suo tratto caratteriale non ammetteva nessuna supponenza. «Era un uomo sobrio, ma anche tormentato, che si faceva tante domande. Sentiva il peso di guidare il maggior partito comunista dell’Occidente».
Era timido? «Sì».
E quando Benigni lo prese in braccio? «Ero con lui al Pincio. “Ma papà che gli hai detto quando ti ha sollevato?”. “Piano, piano”. Era preoccupato dalla paura di cadere con lui. Però era contento. Benigni gli piaceva molto».
C’è un suo gesto in particolare che ti manca? «Le tante cose fatte insieme. Ora capisco di più il valore di certe sue attenzioni, quando durante una campagna elettorale difficile o un congresso del Pci lo costringevo, stanco com’era, a preparare con me l’interrogazione di filosofia del giorno dopo».
Cosa gli procurava dispiacere? «Il fatto di essere considerato triste e serioso. Papà non lo era affatto. Anzi era anche un po’ naif, capace di iniziative imprevedibili, come se volesse recuperare qualcosa che nell’infanzia gli era stata negata. La morte precoce della madre aveva segnato profondamente la sua vita. Da qui anche il tratto di riservatezza e pudore verso i propri sentimenti. Ma con noi figli ritrovava quella giocosità forse mai vissuta pienamente da bambino».
L’ultima volta che hai pensato: cosa avrebbe detto o fatto? «Sempre, Anche ieri».
Ti capita di chiedergli ancora l’approvazione e temere di non averla? «L’ho fatto per tutta la vita e continuerò a farlo. Ma credo che sia una prerogativa di tutti i figli rispetto ai propri genitori, soprattutto se sono mancati presto».
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