Tratto da “Grazie
Mario: ecco il Salvator Mundi tra i buoi e gli asinelli” di Pino Corrias,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5 di febbraio 2021: Questa
volta il Salvator Mundi non è nato a Betlemme, ma a Roma, quartiere Parioli. A
differenza del suo antico predecessore, Mario Draghi è sceso tra noi
accompagnato dalla luce cometa della nostra ultima stella, quella del
Quirinale. E a riscaldare quel suo commovente pallore atermico – forse
contrastato da qualche vampata di irritazione per il disturbo che lo allontana
dagli uliveti di Città della Pieve – arriveranno in gran numero i buoi e gli
asinelli della nostra disgraziata classe politica, finita tutta quanta in
castigo, dopo il baccano inconcludente dell’ultima ricreazione. In compenso il
nostro Draghi, appena evocato nel nome e nel sembiante, qualche miracolo l’ha
già fatto, ha abbassato di molto lo Spread, verso la quota minima dei cento
punti, ha alzato il totalizzatore della Borsa, pompando un po’ di ossigeno nei
calamitosi conti economici e sociali della bella Italia assediata dal virus che
non passa, dai vaccini che non arrivano e da Matteo Renzi che non riparte per
Riyad. Le banche e i mercati gli credono, come sempre, visto che li governa da
una trentina d’anni. Gli umani del vasto fondovalle sociale un po’ meno,
considerandolo un “apostolo delle élite” (…). Al netto di molte scempiaggini
terrapiattiste, Mario Draghi, serio, ma non serioso, professore
di economia e banchiere, si è sempre dichiarato “un liberal socialista”, un
“Civil servant” e annovera nella sua lunga carriera il prestigio di molti
successi, a cominciare dal suo famoso “whatever it takes” pronunciato il 26
luglio 2012 con cui annunciava che la Banca centrale avrebbe comprato il debito
pubblico dei paesi dell’eurozona per salvare l’euro “a qualunque costo”.
Imbracciando da allora il bazooka del “quantitative easing” con cui finanzia i
bilanci degli Stati, compreso il nostro, e che fu una autentica rivoluzione per
gli standard d’austerità germanica, ostili a Draghi fin quasi all’ultimo. Ma
uscendone sconfitti. Al punto che anche la cancelliera Angela Merkel finì per
inchinarsi “al suo coraggio”. Lo stesso coraggio che gli aveva insegnato suo
padre (“se perdi il coraggio perdi tutto”), che raccomanda da sempre ai suoi
studenti (“agite con conoscenza, umiltà, coraggio”) e che massimamente gli
servirà in questa avventura del tutto inedita per lui, tra gli gnomi della
nuova politica che conosce poco e male, ampiamente ricambiato. Mario Draghi
nasce nel 1947. Famiglia benestante. A 15 anni perde il padre e la madre,
cresce con i fratelli e la zia. Studia dai gesuiti. Si laurea in Economia alla
Sapienza con Federico Caffè, si specializza all’Mit di Boston con il Nobel
Franco Modigliani. Sembra destinato alla carriera universitaria. Se
interpellato dice “La politica non fa per me”. Invece sarà proprio la politica
ad allevarlo come principe tra i tecnici. Lo pesca Guido Carli, nominandolo
direttore generale del Tesoro, durante un remoto governo Andreotti VII, anno
1991, apoteosi finale del Caf, debito pubblico alle stelle, Tangentopoli alle
porte, il tuono di Capaci imminente, la lira fuori dal serpente monetario, la
prima Repubblica che scivola nell’abisso. Lui tiene la rotta per 11 anni,
mentre la tempesta si porta via 7 ministri del Tesoro e 9 governi – da Amato a
Berlusconi, da Prodi a D’Alema – fino a quando scende sulla terra ferma di
Goldman Sachs, la banca d’affari a stelle e strisce, anni 2002-05, per poi
risalire al timone della Banca d’Italia, appena sgomberata da Antonio Fazio,
travolto anche lui da uno scandalo, quello di Bancopoli. Da governatore guida
la stagione delle fusioni bancarie – le principali tra Banca Intesa e San Paolo,
tra Unicredit e Capitalia – compresa quella rovinosa di Monte dei Paschi che
compra Antonveneta al doppio del suo valore, mandando in malora i suoi bilanci.
Il disastro lo sfiora appena surclassato da quello del fallimento di Lehman
Brothers, che terremota tutte le economie d’Occidente. È da quello sprofondo
che Draghi salta più in alto di tutti, in cima alla torre della Banca centrale
europea di Francoforte, il suo vero trampolino di lancio internazionale: parla
con i governi, partecipa ai summit, diventa il referente di ogni emergenza
(compresa quella finale dell’ultimo governo Berlusconi) incoronato tra gli
uomini più influenti del pianeta. Chiamato da papa Francesco alla Pontificia
Accademia. Una visibilità che sparisce dentro una vita privata perfettamente
anonima. Una moglie, due figli, un casale in Umbria, una utilitaria bianca.
Viaggia in economy. La foto di lui con la moglie in fila al supermercato ha
fatto il giro del mondo. Parla poco e quando lo fa dice l’essenziale: “L’Euro è
irrevocabile”. “Esiste il debito cattivo” che vola via dalla finestra, e “il
debito buono” che serve agli investimenti. In piena pandemia, marzo 2020,
lancia il più grande investimento di tutti i tempi con un articolo sul
Financial Times, il Next Generation Eu, 1100 miliardi da distribuire in Europa
nei prossimi sei anni, 209 all’Italia. Se nasce il governo toccherà a lui
gestirli. Mattarella ci crede, il Parlamento vedremo.
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