A lato. "Villaggio bretone", penna ed acquerello (2021) di Anna Fiore.
Ha scritto Francesco Merlo in “Grazie Twitter”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di luglio dell’anno 2013: Grazie Twitter, perché denudi il re. Grazie perché con la tua forma veloce e breve stai svelando l’Italia degli spiritosoni e dei pavoncelli. Grazie perché costringi i nostri piccoli savonarola ad uscire dal nascondiglio del discorso lungo e sedimentato e a mostrare in 140 battute la loro verità di miserabili e di violenti. Grazie social network perché siete la nostra finestra sul cortile- Italia dove, come le lavandaie di una volta, tutti sbraitano contro il prossimo: colleghi, avversari, nemici, amici e mariti persino. (…). Grazie Twitter, dunque, che sei lo scontrino fiscale del linguaggio italiano. (…).
Il tweet non è un gioco ma è la forma moderna della
comunicazione, del pensiero breve che ovviamente può anche avere il respiro
lungo. Il tweet è come il telefono portatile, l’iPod, la video clip, la e-mail,
il rap, gli slogan pubblicitari, il blob, la cartellonistica, lo zapping, i
sondaggi, la tv digitale e interattiva, il chat telematico, gli spot, i
frontespizi d’autore, le retrocopertine. (…). Grazie Twitter, che misuri gli
uomini e li spieghi meglio di un diario. (…). In Italia c’è l’idea che siamo
tutti Flaiano e tutti Longanesi i cui famosi aforismi rimangono gli idealtipi
del Twitter nazionale. Ne ricordo qui alcuni a casaccio: “Ho poche idee ma
confuse”, “tutto quello che non so l’ho imparato a scuola”, “le onorificenze
non basta rifiutarle bisogna anche non meritarle”, “ho opinioni che non
condivido”, “tengo famiglia”,”l’italiano è un buono a nulla ma capace di tutto”,
“veterani si nasce”, “oggi il cretino è specializzato”, “eppure è vero anche il
contrario”, “l’intellettuale è un signore che si fa rilegare i libri che non ha
letto”. Ecco, giudicate voi quanto valgono gli epigoni su Twitter. (…).
Tratto da “La nuova barbarie digitale”
di Bernard-Henri Lévy, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 19 di giugno
2021: (…). Esiste sul serio un imbarbarimento collettivo ascrivibile al
successo dei social network. E ciò è dovuto a cinque motivi. Il primo è
l’istantaneità dei pensieri che vi si esprimono, il fatto che questi non
conoscano più un minimo di distacco, di filtro e, letteralmente, di mediazione.
Di conseguenza, i pensieri sui social sono affini a quel linguaggio troppo
crudo, troppo presente a sé stesso, troppo intenso che Hegel considerava tra le
cause di violenza e ferocia tra gli uomini. Il secondo è l’inganno di questi
social che, lungi dal farci socializzare come starebbe a indicare il loro nome,
in verità non fanno altro che desocializzarci, con la conseguente illusione di
presunti amici che ci amano con un click, che smettono di amarci con un altro
click e il cui incremento è segno, come per i non-cittadini di Saint-Just, del
fatto che non abbiamo davvero più amici… Falsa ricchezza di autentiche parole a
vanvera che si misura in like e follower che dovrebbero apportare maggior
valore alle nostre esistenze e, al contrario, ci confinano in una solitudine
senza precedenti. In sintesi, regno di un narcisismo che, con il pretesto della
connessione, sottolinea la rottura rispetto a tutto quello che un tempo
plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità. Terzo: conosciamo la
storia del famoso vescovo Dionigi, decapitato dai barbari e che nondimeno
attraversò a piedi la collina di Saint-Denis tenendo sottobraccio la sua testa
mozzata. Con i meccanismi della Rete, assistiamo a un fenomeno dello stesso
tipo, ma su scala planetaria e che interessa tutti gli esseri umani. Oggi non
si tratta più della nostra testa, certo, ma della nostra memoria. Non la
portiamo più con noi sottobraccio, ma nel palmo delle nostre mani, oppure in
fondo a una tasca, considerato che sui nostri smartphone ci alleggeriamo
dell’attenzione che consente di risalire consapevolmente a informazioni,
situazioni e frammenti di ricordi che dimentichiamo tanto più di buon grado quanto
più la tecnologia ci consente di recuperarli a nostro piacimento. In questa
dislocazione, in questa esfiltrazione, in questo scaricabarile della nostra
facoltà di ricordare affidata alle macchine c’è un fatto antropologico che
conduce all’inesorabile atrofizzazione di una facoltà della memoria che, dai
tempi di Platone, sappiamo essere uno dei legami più solidi tra gli esseri
umani e uno di quelli più adatti a scongiurare il peggio. Quarto, la volontà di
verità. Anch’essa crea un legame tra gli uomini. Nel riconoscimento di una
verità – il cui amore, se non altro, è condiviso – vi è un’altra ragione
concreta che impedisce loro di uccidersi a vicenda. E nondimeno, che cosa è un
social network? È la sede di uno slittamento progressivo, di cui non si sono quantificate
a sufficienza tutte le conseguenze. Si comincia con il dire: “Tutti hanno pari
diritto di esprimere ciò in cui credono”. Poi si passa a: “Tutte le cose
espresse in cui si crede godono del medesimo diritto a essere rispettate nello
stesso modo”. E poi, ancora: “Se tutte sono rispettabili nello stesso modo,
significa che sono tutte valide, importanti e apprezzabili nello stesso modo”.
Ecco, è così che, a partire dal desiderio di democratizzare il “coraggio della
verità” caro a Michel Foucault e pensando di offrire a tutti il mezzo
tecnologico per contribuire all’avventura della conoscenza, si è creato un
parlottio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere
tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della
verità e passione per l’ignoranza. Si tratta di un ritorno, quasi ricalcando
l’eleganza greca, di quei celebri sofisti che sostenevano che quella che un
tempo chiamavano “la” Verità è un’ombra indistinta in una notte in cui tutte le
illusioni sono grigie. E, in questa profusione oscura e assordante in cui si
sono trasformati i social network, la verità di ognuno vale quanto quella del
suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi – assolutamente tutti, fossero pure
violenti e financo feroci – atti a imporre la propria legge. E, infine, quinto.
Ricordiamo tutti la struttura panoptica teorizzata per le prigioni dal filosofo
utilitarista inglese del XVIII secolo Jeremy Bentham, basata su un osservatorio
collocato in una torretta centrale che permetteva alle guardie di osservare
senza essere viste e ai detenuti, sistemati in celle individuali poste a
raggiera attorno a essa, di vivere sotto il loro sguardo. L’originalità dei
social consiste nel fatto che quell’occhio non si chiude mai, sorveglia i corpi
e penetra nelle anime, viola la loro interiorità rendendola evidente a chiunque
e non è più l’occhio di una guardia, di un superiore, di un padrone, bensì di
ciascuno di noi. La novità è che questo progetto consistente nel voler vedere
tutto, sapere tutto e penetrare nello spirito e nell’intimità altrui è alla
portata di qualsiasi nostro vicino in Rete. Nella misura in cui permette ai
superiori di spiare i sottoposti, ma anche ai sottoposti di spiare i superiori,
e indifferentemente a tutti di controllare o condannare chiunque altro, questo
meccanismo neobenthamiano crea un regime politico nuovo che non si può definire
né seriamente democratico né distintamente autocratico; che si sarebbe tentati
di chiamare scopocratico, in ragione di questa teoria dello sguardo e del
voyerismo gaudente a cui esso dà vita; e che viola una delle leggi più antiche
della Storia, enunciata dai tempi dei tragici greci a Epidauro e Olimpia:
“Uomini, non andate a guardare troppo da vicino – con il rischio di essere
accecati o, peggio ancora, imbrattati dal loro sangue – da quel lato dello
specchio che è il corpo animale dei vostri simili.” I tragici greci non avevano
torto. Da questo furore scopocratico, infatti, nasce depredazione. Una rabbia
accusatrice osservata di rado nella storia del genere umano. Un clima di
giustizia popolare che viaggia alla velocità della luce virale di una Rete che
funziona a pieno regime e crea un’umanità assetata, come gli dèi di Anatole
France, non di sangue ma di chiacchiericcio. E, al termine di questa mischia –
in cui a ogni istante, o quasi, un’altra testa cade nella cesta panoptica dei
nuovi corvi – è in corso una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia
nessun Hobbes ha mai immaginato. Come uscire da questo incubo? Lo ignoro.
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