Questa capacità viene indicata con la parola “literacy”. «Sì, è la capacità che è richiesta per tessere relazioni sociali, per raggiungere obiettivi, per sviluppare conoscenza e potenziale umano. Literacy è lo strumento moltiplicatore di effetti che mettono i cittadini nelle condizioni di partecipare, con consapevolezza e responsabilità, alla vita democratica di un paese».
Possiamo fare degli esempi concreti di analfabetismo funzionale? «In una delle prove Piaac (“Programme for the International Assessment of Adult Competencies” n.d.r.) agli intervistati veniva chiesto di identificare un numero di telefono in un breve annuncio. Di solito si tratta diun testo semplice, con poche informazioni contrastanti. Molti italiani adulti non lo sanno fare. Una prova appena più complessa consiste nel chiedere quante fossero le insegnanti donne in Grecia indicando una tabella che mostra graficamente questa informazione per dieci paesi. Come vede si tratta di esercizi elementari».
Quante persone non superano questi test? «Secondo gli ultimi dati Piaac Ocse, i lowskilled in Italia sono il 27,9 per cento della popolazione residente tra i16 e i 65 anni, ossia undici milioni di adulti, in gran parte lavoratori più anziani e immigrati, concentrati nelle imprese più piccole, in settori meno progrediti e nelle regioni meno sviluppate. Un livello assai più elevato rispetto alla media europea che si attesta al 12 per cento».
Accanto a questo dato, colpisce che il settanta per cento degli italiani adulti non sia in grado di raggiungere il livello più alto fissato da Piaac. Faccio un esempio delle prove richieste: identificare in una lista di dieci titoli il libro meno utile nel fornire approfondimenti su un tema specifico, ad esempio gli alimenti geneticamente modificati. «Oltre 26 milioni sono al di sotto del livello che indica la piena padronanza della strumentazione per svolgere i compiti dell’età adulta: mi riferisco alla capacità di comprendere e produrre conoscenze e informazioni. E, soprattutto, alla capacità di innestare nuove esperienze su patrimoni posseduti. Tra i paesi dove si è svolta l’indagine Piaac, siamo al primo posto per numero di analfabeti funzionali. E all’ultimo per high skilled. L’aspetto più preoccupante è che questi dati sono destinati ad aggravarsi con la pandemia».
All’analfabetismo funzionale s’accompagna quello digitale. E la didattica a distanza ha escluso un’ampia fetta della popolazione che non possiede competenze tecnologiche. «Anche qui le cifre non sono incoraggianti. Il 33,8 per cento delle famiglie italiane non ha un computer o un tablet. E il 14 per cento di queste famiglie ha almeno un minore a casa. Nel Mezzogiorno la percentuale di chi non possiede strumenti tecnologici sale al 41 per cento. Molti ragazzi sono rimasti esclusi dalla didattica a distanza, con una crescita degli abbandoni scolastici che erano già molto alti. Ho l’impressione però che si continui a fare finta che tutto va bene. Sono andata a vedere i risultati della maturità del 2020, superata in piena pandemia: i voti sono più alti rispetto all’anno precedente. E là dove le lodi sono generalmente generose –il Sud d’Italia – si continua a dare sempre più encomi. Come se non volessimo prendere atto dei nostri ritardi culturali enormi».
Le statistiche raccontano un altro paese: secondo una recentissima indagine dell’Istat, nell’anno del Covid sono cresciuti i neet, i ragazzi che non studiano né lavorano: sono un quarto dei giovani tra i 15 e i 29 anni. «È un fenomeno conseguente alla crescita degli abbandoni scolastici. Un modo per arrestare l’emorragia potrebbe essere quello di spostare l’esame di Stato alla fine del primo biennio delle scuole secondarie superiori. Dal 2007 la scuola dell’obbligo è stata prolungata di due anni, ma l’esame si continua a fare in terza media. In questo modo molti ragazzini rimangono con la certificazione conseguita a 14 anni, rinunciando a proseguire nella formazione scolastica. Oppure capita che il loro destino sia deciso dalle famiglie, con l’iscrizione ai tecnici e ai professionaliquasi automatica nelle fasce più basse. Come dicono i miei colleghi dell’Ocse, in Italia spesso basta il Cap per misurare le competenze dei ragazzi: dal quartiere intuisci il livello di studi».
Un tempo l’analfabetismo veniva nascosto come una vergogna. Quello attuale viene vissuto nella totale inconsapevolezza. «Lo vediamo chiaramente da un’inchiesta del Censis: molti non hanno la formazione digitale appropriata ma non sentono il bisogno di migliorare. L’assenza di ambizioni dipende anche dal fatto che sono le stesse mansioni lavorative a richiedere capacità limitate. L’analfabetismo è lo specchio di un progressivo abbassamento della qualità del lavoro che in questi anni è stato parcellizzato, trasferito altrove, per lo più dequalificato. La scuola media unica obbligatoria è nata nel 1962 per rispondere a una richiesta democratica di crescita sociale, ma anche per soddisfare la domanda dettata dallo sviluppo industriale. Figlia d’una famiglia piemontese, sono cresciuta nel mito dell’operaio Fiat capace di far tutto, perfino il baffo alle mosche. Oggi, al di là di rare isole di alta specializzazione, la produzione di massa si è molto impoverita».
Resta molto forte il rapporto tra analfabetismo ed esercizio della cittadinanza. «La classe dirigente italiana ne era consapevole ai tempi di Giolitti. Prima dell’approvazione del suffragio universale maschile (1912) furono avviati vari studi parlamentari sulle differenze tra elettori istruiti ed elettori semianalfabeti. Si temeva che l’allargamento dell’elettorato avrebbe potuto favorire “il sopravvento delle forze conservatrici e reazionarie”, come si legge nella nota conclusiva. A distanza di oltre cent’anni, mi sembra che quel monito abbia mantenuto tutta la sua attualità».
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