Ha scritto il filosofo Leonardo Caffo in “Dopo il Covid-19 Punti per una discussione”
– editrice nottetempo, (marzo 2020) -: Le rivoluzioni complessive come la crisi
aperta dal Covid-19 sono sempre osteggiate da una paura non meno grande di
quella di perdere la vita: la paura delle potenziali conseguenze negative e
imprevedibili. Su questo punto non ci resta che sperare che il danno non sia
cosí grave, in modo da darci la possibilità di far collassare il sistema senza
che, contemporaneamente, collassino anche l’umanità e la dignità umana. Ad ammorbidire
questo terrore c’è l’evidenza che già in molti, costretti in casa senza le
proprie droghe abituali e i loro vizi consueti, sentono il cervello esplodere,
a dimostrazione che la paura era già diffusa costantemente in ognuno di noi:
non guardarla in faccia non è mai stata la soluzione corretta. In questi giorni
qualcuno inizia coraggiosamente a mettere in relazione la perdita della vita,
cioè quello per cui stiamo in casa, con la perdita della libertà o dignità, cioè
quello che ci è capitato dovendoci chiudere in casa. E se il mondo che seguirà
sarà un mondo in cui la libertà conterà piú del rischio di perdere la vita? Se vivere
diventasse, improvvisamente e dopo il Covid-19, piú interessante che
sopravvivere? Presto o tardi, anche se la nostra società ci ha completamente diseducati
ad affrontare il tema della morte, tutti quanti dobbiamo morire: siamo sicuri
che questa vita lunghissima ma vuota per cui stiamo lottando adesso valga piú
di una vita intensamente breve? Chi scrive, come tutti, non vuole morire. Ma
onestamente, sopravvivere non mi sembra un gesto poi cosí diverso dal togliere
il disturbo. La discussione è partita. Tratto da “Il virus e la civiltà del lavoro” di Ezio Mauro, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” di ieri lunedì 14 di giugno 2021: (…):
cosa si nasconde dietro la ripresa economica annunciata col declino della
pandemia? Certamente una metamorfosi del lavoro, già esploso sotto i nostri
occhi nella frammentazione della post-modernità che nega non soltanto la
standardizzazione e la rigidità del vecchio modello di produzione a catena, ma
persino l'unitarietà del concetto novecentesco, inseguendo le sue schegge nelle
nuove forme e nelle nuove categorie in cui abbiamo rinominato il lavoro,
sterilizzandolo: saperi, competenze, professionalità, esperienze, tutte
parzialità eufemistiche a cui ricorriamo ormai senza mai definire l'insieme. E
senza accorgerci che deviando e disperdendo il concetto di lavoro noi stiamo
smarrendo il suo significato generale, cioè il suo peso sociale, culturale e
dunque politico. Gli operai-facchini che picchettano il fantasma del lavoro
scomparso rincorrendolo nella sua mobilità, le squadre dell'azienda che
sfondano il blocco, in una sorta di appalto del conflitto, sono le due facce
dell'ultima mutazione. Che non a caso si compie nel settore chiave del
cambiamento della domanda e dell'offerta, del costume e delle abitudini, quella
"logistica" del trasporto e consegna di merci e prodotti arrivata
oggi a 100 miliardi di euro di fatturato, il 7 per cento del Pil. Con la
pandemia che ha funzionato da acceleratore dei fenomeni, spingendo il settore
in 24 mesi ad un giro d'affari che nelle previsioni si sarebbe raggiunto
soltanto in nove anni. Non è un caso nemmeno che l'epicentro di questo
cortocircuito finale sia il Piacentino, con i suoi 8 mila addetti alla
logistica in un distretto che ha una distesa di capannoni pari a 5 milioni di
metri quadrati, proprio all'intersezione tra le due autostrade E35 ed E70: qui
durante la prima ondata si era concentrato anche il virus, viaggiando sui tir
per sopravvivere durante il lockdown, e causando nella prima fase proprio a
Piacenza - insieme con Cremona - il numero di morti più alto d'Italia in
rapporto alla popolazione. Dovremmo aver imparato che nell'emergenza modernità
e primitivismo si toccano, convivendo. I facchini che cercano nei capannoni di
Tavazzano il lavoro di carico e scarico perduto a Piacenza vogliono fermare
fisicamente i camion, ma in realtà lottano con un'entità molto più immateriale,
l'algoritmo che muta continuamente perché ricalcola gli scostamenti degli
ordini, la tempistica delle consegne, nell'unica logica per cui è programmato,
fuori da qualsiasi spazio negoziale. D'altra parte la stessa cultura sindacale
si spezza nella frantumazione del lavoro. Col risultato che i sindacati
confederali faticano ad arrivare fin qui, nei mille rivoli della globalizzazione
convogliati dalla "logistica" nei grandi centri di smistamento delle
merci, gli hub dove cresce SiCobas. Regolato dalle oscillazioni periodiche
dell'algoritmo il settore non sopporta rigidità contrattuali, si gonfia e si
sgonfia continuamente ricorrendo a subappalti, cooperative, agenzie di lavoro
interinale. I facchini che caricano le stesse merci possono così avere padroni
diversi, con la frantumazione che diventa sistema, anzi modello, generando un
indebolimento della rappresentanza, e una dispersione conseguente dei diritti. La
pandemia, operando in un ambiente globale già sconvolto dalla crisi
economico-finanziaria più pesante del secolo, ha determinato uno stato
d'emergenza, in cui vige la legge della necessità. Dopo le misure di sicurezza
indispensabili, con la diffusione del vaccino la prima necessità diventa
ovviamente la ripartenza del sistema, la ricostruzione, la ripresa, con i
populisti che in tutto il mondo chiedono spazio per il rilancio dello spirito
imprenditoriale e commerciale, trasformato ideologicamente in una questione di
libertà. Il lavoro dipendente, materiale, si subordina e da attore sociale
collettivo com'è stato nel Novecento diventa una semplice variabile dipendente
dalla necessità, una struttura servente senza una valenza e un ruolo autonomi.
Non solo. Il lavoro manuale si proletarizza, confinato nel sottomondo degli
immigrati, dove si marginalizza inevitabilmente nell'anno zero di una coscienza
collettiva del rapporto tra lavoro, cittadinanza e diritti, perché questa
cultura ha bisogno di tempo per svilupparsi. Non c'è la condivisione di uno
status, figuriamoci di una classe: e manca anche una rete politica interessata
a pescare in questo universo sommerso dandogli un orizzonte, visto che la
sinistra oggi tra tutte le auto-rappresentazioni che insegue sembra aliena
proprio da quella laburista: che immediatamente le conferirebbe senso,
rappresentanza e identità, perché i diritti civili non vivono disincarnati. Naturalmente
questo non è il problema di una parte, ma dell'insieme della società e della
qualità complessiva della crescita che si annuncia. Così il tema è spuntato al
tavolo del G7 in Cornovaglia, quando Draghi ha proposto politiche attive del
lavoro per aiutare i più deboli, sottolineando il "dovere morale" dell'Occidente
di agire in maniera diversa dalle crisi precedenti, "quando ci siamo
dimenticati della coesione sociale". Qui infatti si forma il nucleo delle
disuguaglianze e delle esclusioni. Tre dati lo confermano. Tra chi riceve il
reddito di cittadinanza, ed è accusato di preferire il sussidio al lavoro, il
14 per cento ha solo la licenza elementare, e il 6 per cento nemmeno quella:
non è facile in queste condizioni ricollocarsi; i Neet, cioè i giovani sotto i
35 anni che non studiano e non lavorano, sono ormai il 36 per cento al Sud, in
crescita e molto lontani dalla media europea; con le ore di lavoro che scendono
e i salari bassi il numero di coloro che lavorano ma sono comunque poveri
aumenta, e arriva a quota 13 per cento. La risposta, com'è evidente, non sta
nel conservatorismo compassionevole. Ma nemmeno nella logica autonoma del
Recovery Fund. Bisogna che gli investimenti siano indirizzati alla creazione di
lavoro, inteso come fattore di sviluppo, di inclusione, di cittadinanza. Ma per
farlo bisogna sciogliere il nodo politico del rapporto tra Stato e mercato.
Soprattutto, bisogna avere l'ambizione di una politica che sappia leggere la
trasformazione del lavoro, indirizzando il processo, coscienti che la
ricostruzione post-virale è l'occasione per una ricomposizione sociale e
culturale, non solo economica. Sappiamo che la civiltà europea è una civiltà
del lavoro, costruita nella combinazione tra capitalismo, welfare state,
democrazia rappresentativa. L'indebolimento del lavoro, da soggetto politico a
merce, è proprio questo: un indebolimento di civiltà, che ci porta in un'era
sconosciuta.
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