"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 15 giugno 2021

Paginedaleggere. 24 «L'indebolimento del lavoro, da soggetto politico a merce: un indebolimento di civiltà, che ci porta in un'era sconosciuta».

 

Ha scritto il filosofo Leonardo Caffo in “Dopo il Covid-19 Punti per una discussione” – editrice nottetempo, (marzo 2020) -: Le rivoluzioni complessive come la crisi aperta dal Covid-19 sono sempre osteggiate da una paura non meno grande di quella di perdere la vita: la paura delle potenziali conseguenze negative e imprevedibili. Su questo punto non ci resta che sperare che il danno non sia cosí grave, in modo da darci la possibilità di far collassare il sistema senza che, contemporaneamente, collassino anche l’umanità e la dignità umana. Ad ammorbidire questo terrore c’è l’evidenza che già in molti, costretti in casa senza le proprie droghe abituali e i loro vizi consueti, sentono il cervello esplodere, a dimostrazione che la paura era già diffusa costantemente in ognuno di noi: non guardarla in faccia non è mai stata la soluzione corretta. In questi giorni qualcuno inizia coraggiosamente a mettere in relazione la perdita della vita, cioè quello per cui stiamo in casa, con la perdita della libertà o dignità, cioè quello che ci è capitato dovendoci chiudere in casa. E se il mondo che seguirà sarà un mondo in cui la libertà conterà piú del rischio di perdere la vita? Se vivere diventasse, improvvisamente e dopo il Covid-19, piú interessante che sopravvivere? Presto o tardi, anche se la nostra società ci ha completamente diseducati ad affrontare il tema della morte, tutti quanti dobbiamo morire: siamo sicuri che questa vita lunghissima ma vuota per cui stiamo lottando adesso valga piú di una vita intensamente breve? Chi scrive, come tutti, non vuole morire. Ma onestamente, sopravvivere non mi sembra un gesto poi cosí diverso dal togliere il disturbo. La discussione è partita. Tratto da “Il virus e la civiltà del lavoro” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri lunedì 14 di giugno 2021: (…): cosa si nasconde dietro la ripresa economica annunciata col declino della pandemia? Certamente una metamorfosi del lavoro, già esploso sotto i nostri occhi nella frammentazione della post-modernità che nega non soltanto la standardizzazione e la rigidità del vecchio modello di produzione a catena, ma persino l'unitarietà del concetto novecentesco, inseguendo le sue schegge nelle nuove forme e nelle nuove categorie in cui abbiamo rinominato il lavoro, sterilizzandolo: saperi, competenze, professionalità, esperienze, tutte parzialità eufemistiche a cui ricorriamo ormai senza mai definire l'insieme. E senza accorgerci che deviando e disperdendo il concetto di lavoro noi stiamo smarrendo il suo significato generale, cioè il suo peso sociale, culturale e dunque politico. Gli operai-facchini che picchettano il fantasma del lavoro scomparso rincorrendolo nella sua mobilità, le squadre dell'azienda che sfondano il blocco, in una sorta di appalto del conflitto, sono le due facce dell'ultima mutazione. Che non a caso si compie nel settore chiave del cambiamento della domanda e dell'offerta, del costume e delle abitudini, quella "logistica" del trasporto e consegna di merci e prodotti arrivata oggi a 100 miliardi di euro di fatturato, il 7 per cento del Pil. Con la pandemia che ha funzionato da acceleratore dei fenomeni, spingendo il settore in 24 mesi ad un giro d'affari che nelle previsioni si sarebbe raggiunto soltanto in nove anni. Non è un caso nemmeno che l'epicentro di questo cortocircuito finale sia il Piacentino, con i suoi 8 mila addetti alla logistica in un distretto che ha una distesa di capannoni pari a 5 milioni di metri quadrati, proprio all'intersezione tra le due autostrade E35 ed E70: qui durante la prima ondata si era concentrato anche il virus, viaggiando sui tir per sopravvivere durante il lockdown, e causando nella prima fase proprio a Piacenza - insieme con Cremona - il numero di morti più alto d'Italia in rapporto alla popolazione. Dovremmo aver imparato che nell'emergenza modernità e primitivismo si toccano, convivendo. I facchini che cercano nei capannoni di Tavazzano il lavoro di carico e scarico perduto a Piacenza vogliono fermare fisicamente i camion, ma in realtà lottano con un'entità molto più immateriale, l'algoritmo che muta continuamente perché ricalcola gli scostamenti degli ordini, la tempistica delle consegne, nell'unica logica per cui è programmato, fuori da qualsiasi spazio negoziale. D'altra parte la stessa cultura sindacale si spezza nella frantumazione del lavoro. Col risultato che i sindacati confederali faticano ad arrivare fin qui, nei mille rivoli della globalizzazione convogliati dalla "logistica" nei grandi centri di smistamento delle merci, gli hub dove cresce SiCobas. Regolato dalle oscillazioni periodiche dell'algoritmo il settore non sopporta rigidità contrattuali, si gonfia e si sgonfia continuamente ricorrendo a subappalti, cooperative, agenzie di lavoro interinale. I facchini che caricano le stesse merci possono così avere padroni diversi, con la frantumazione che diventa sistema, anzi modello, generando un indebolimento della rappresentanza, e una dispersione conseguente dei diritti. La pandemia, operando in un ambiente globale già sconvolto dalla crisi economico-finanziaria più pesante del secolo, ha determinato uno stato d'emergenza, in cui vige la legge della necessità. Dopo le misure di sicurezza indispensabili, con la diffusione del vaccino la prima necessità diventa ovviamente la ripartenza del sistema, la ricostruzione, la ripresa, con i populisti che in tutto il mondo chiedono spazio per il rilancio dello spirito imprenditoriale e commerciale, trasformato ideologicamente in una questione di libertà. Il lavoro dipendente, materiale, si subordina e da attore sociale collettivo com'è stato nel Novecento diventa una semplice variabile dipendente dalla necessità, una struttura servente senza una valenza e un ruolo autonomi. Non solo. Il lavoro manuale si proletarizza, confinato nel sottomondo degli immigrati, dove si marginalizza inevitabilmente nell'anno zero di una coscienza collettiva del rapporto tra lavoro, cittadinanza e diritti, perché questa cultura ha bisogno di tempo per svilupparsi. Non c'è la condivisione di uno status, figuriamoci di una classe: e manca anche una rete politica interessata a pescare in questo universo sommerso dandogli un orizzonte, visto che la sinistra oggi tra tutte le auto-rappresentazioni che insegue sembra aliena proprio da quella laburista: che immediatamente le conferirebbe senso, rappresentanza e identità, perché i diritti civili non vivono disincarnati. Naturalmente questo non è il problema di una parte, ma dell'insieme della società e della qualità complessiva della crescita che si annuncia. Così il tema è spuntato al tavolo del G7 in Cornovaglia, quando Draghi ha proposto politiche attive del lavoro per aiutare i più deboli, sottolineando il "dovere morale" dell'Occidente di agire in maniera diversa dalle crisi precedenti, "quando ci siamo dimenticati della coesione sociale". Qui infatti si forma il nucleo delle disuguaglianze e delle esclusioni. Tre dati lo confermano. Tra chi riceve il reddito di cittadinanza, ed è accusato di preferire il sussidio al lavoro, il 14 per cento ha solo la licenza elementare, e il 6 per cento nemmeno quella: non è facile in queste condizioni ricollocarsi; i Neet, cioè i giovani sotto i 35 anni che non studiano e non lavorano, sono ormai il 36 per cento al Sud, in crescita e molto lontani dalla media europea; con le ore di lavoro che scendono e i salari bassi il numero di coloro che lavorano ma sono comunque poveri aumenta, e arriva a quota 13 per cento. La risposta, com'è evidente, non sta nel conservatorismo compassionevole. Ma nemmeno nella logica autonoma del Recovery Fund. Bisogna che gli investimenti siano indirizzati alla creazione di lavoro, inteso come fattore di sviluppo, di inclusione, di cittadinanza. Ma per farlo bisogna sciogliere il nodo politico del rapporto tra Stato e mercato. Soprattutto, bisogna avere l'ambizione di una politica che sappia leggere la trasformazione del lavoro, indirizzando il processo, coscienti che la ricostruzione post-virale è l'occasione per una ricomposizione sociale e culturale, non solo economica. Sappiamo che la civiltà europea è una civiltà del lavoro, costruita nella combinazione tra capitalismo, welfare state, democrazia rappresentativa. L'indebolimento del lavoro, da soggetto politico a merce, è proprio questo: un indebolimento di civiltà, che ci porta in un'era sconosciuta.

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