"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 29 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 92 «Avevano il ripiano a scrittoio ribaltabile, laccato di un mortifero nero lucido».


1954. Una prima elementare.

«2020», anno bisesto. E puntuale, il “coronavirus”. Credete alla “sfera iettatoria” dei bisesti? Poco male. Anche quel 2012 è stato un anno bisesto, ma senza il “coronavirus”.

venerdì 28 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 91 Cina: «È un crudele paradosso che il Partito comunista reprima i lavoratori».


Sembra che si voglia perfidamente infilare il dito nella piaga, ora che il “coronavirus” ha fatto la sua parte. Ma tornare a parlare della Cina è importante non tanto poiché essa è divenuta nel tempo l’opificio del mondo intero – ed ecco lo sdilinquirsi dei tanti in questi giorni per le mancate provvigioni industriali attese ma non giunte da quel mondo - quanto per il contributo che essa ha dato affinché una economia ed una finanza prendessero le caratteristiche che contraddistinguono questi anni “ruggenti” (“ruggenti”, ma per chi?).

giovedì 27 febbraio 2020

Dell’essere. 24 «Freud dice che nessuno di noi crede fino in fondo alla propria morte».


Lo scrivo ai tempi del “coronavirus” che pur hanno del “miracoloso”, pur non credendo ai miracoli che siano. Ma accade ai tempi del “coronavirus” che la mia immersione totale nel frastuono assordante della comunicazione di massa, comunicazione di massa con le sue incongruenze, le sue banalità e le sue plateali bugie, quella mia immersione nella cacofonia della comunicazione di massa almeno una cosa è riuscita a determinare: sembrerà un’assurdità totale la “cosa” che vado ad affermare, ma lo stordimento dei media ha prodotto in me un effetto quasi liberatorio e consolatorio nei confronti della morte.

mercoledì 26 febbraio 2020

Ifattinprima. 47 «Il nostro non è certo il periodo dell’amore, ma piuttosto dell’odio».


Ha scritto Federico Rampini sull’ultimo numero del settimanale “D” – “Mentre il coronavirus occupa le prime pagine dei giornali” – del 22 di febbraio: (…). Una “normale” influenza di stagione, solo qui negli Stati Uniti uccide almeno ottomila persone all’anno, fino a 12mila quando è più forte. Lo consideriamo un flagello inevitabile (…).

martedì 25 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 90 «I ragazzi non sanno scrivere: "guardano" e basta».


Tratto da “L'uomo sequenziale ha ceduto il posto all'uomo simultaneo” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 25 di febbraio dell’anno 2017: I ragazzi non sanno scrivere: "guardano" e basta. E non sanno più elaborare gerarchicamente il pensiero.

lunedì 24 febbraio 2020

Lalinguabatte. 94 «Quando la povertà diventa miseria».


Dichiarava il 18 di dicembre dell’anno 2008 – anno d’inizio del “flagello” tuttora in corso della grande crisi - don Vittorio Nozza, al tempo direttore della “Caritas”, al quotidiano “Corriere della sera”: “Non va allontanato il povero, ma la povertà. Non si può continuare a emarginare chi non partecipa allo sviluppo economico. E lo sviluppo economico non è la soluzione. Serve uno sviluppo solidale”. Oggi, quando imperversa il nuovo “flagello” denominato “coronavirus”, proviamo a parlare della povertà e degli esiti di quel primo “flagello”. Tema ostico. Sfuggevole come il “flagello” nuovo. C’è qualcuno che esterna e vede negli avvenimenti il ritorno di quelle “sette piaghe” del mondo biblico. Non c’è da stare allegri. Per tornare al tema che tuttora rimane dai contorni cangianti. Tra antiche credenze e certezze ed impietosi numeri statistici. E come parlare della povertà se la non si è vissuta? Penso che sia difficile parlarne solo per sentito dire. E poi: di quale povertà oggigiorno s’intende pur parlare? Della povertà dei mezzi economici? Della povertà in spirito? Ricordo di avere un tempo addietro ascoltato gli indimenticabili coniugi Fo-Rame in una  puntata della trasmissione televisiva “Il tempo che fa”. Raccontava Franca Rame della sua famiglia d’origine. Dei suoi genitori di diversa estrazione sociale. L’uno, il padre, di condizione miserrima, vissuto nel ed al seguito di un carretto di teatranti di marionette; la madre, figlia di un ingegnere, padre di dieci figli. Al che, alla numerosissima famiglia dell’ingegnere, era di fatto impossibile uscire di casa tutti assieme non disponendo, a quel tempo, di tante scarpe quante ne occorressero per calzare la coppia prolifica e la numerosissima figliolanza. Si era poveri a quel tempo ed in quella condizione? Poveri di mezzi, ma nello spirito si era poveri al contempo? Si era poveri e felici ugualmente? Per non parlare dei motti o detti popolari: “Il danaro non porta la felicità”. Al che si dedurrebbe, meglio esserne privi e dunque poveri. Ché il danaro sostanzia lo stato di non povertà. Roba da non credere. Difficile penetrare il problema. E dove risulta scritto che con il danaro non si possa, all’occorrenza, anche essere felici? Non sempre, di certo. Intanto i problemi assillanti del quotidiano otterrebbero una risposta. Ma non averne, di danaro, soprattutto oggigiorno, aggiunge il problema più grosso ai problemi già assillanti nell’esistenza di milioni di esseri umani.

domenica 23 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 89 Walter Benjamin: «Ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita».


Tratto da “Web, dollari e violenza la modernità perversa dei carnefici del Califfato” di Slavoj Zizek, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 23 di febbraio dell’anno 2015: Le recenti vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l'ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare.

sabato 22 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 88 «Sulla ragionevolezza delle leggi».


Tratto da “Così la vita detta legge al diritto” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 22 di febbraio dell’anno 2018:

venerdì 21 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 87 «Già, l'infanzia: pietra miliare della nostra vita».


Tratto da “Più diventerai grande e più ti vorrò bene” di Claudia De Lillo (Elasti) pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 21 di febbraio dell’anno 2015: È un'età instabile, cangiante, mutevole e stralunata. Lascia solchi profondi e incancellabili e, come nessun'altra, plasma la nostra forma e la nostra sostanza. È un'impronta, un viatico o una condanna da cui è difficile affrancarsi. È così importante e decisiva che diventa giustificazione e alibi per i nostri successi e insuccessi futuri, per i nostri buchi neri e la nostra forza. «Ovvio che Simone sia un insicuro: da piccolo lo prendevano in giro tutti per quelle orecchie a sventola, persino la mamma». «Ti stupisci che Alessia sia ossessionata dalla scuola? Pensa che, se alle elementari non prendeva dieci, veniva punita severamente». Già, l'infanzia: pietra miliare della nostra vita, un inizio che è il nostro mattino, da cui si vede il buono o il cattivo giorno. Eppure, di quel terreno candido e impervio, di quel cammino incerto e traballante che imprime la direzione della marcia successiva, abbiamo ricordi labili e infidi. Non conserviamo alcuna memoria delle folgoranti prime volte: la prima poppata, la prima pizza, i primi passi, le prime parole, il primo bagno in mare, la prima risata a crepapelle, la prima delusione, la prima passione. Persino il primo amore spesso viene inghiottito dalla nebbia vorace dell'oblio. Così, rassegnata al buio, o alla penombra, in cui è avvolta la mia infanzia, osservo ora quella dei miei figli che oggi fa di loro gli uomini che saranno domani. E mi domando cosa resterà, un giorno, delle immagini, degli odori, dei suoni, delle musiche, dei sapori di adesso. Ma soprattutto mi chiedo quali parole rimarranno nella loro testa, di questa età contraddittoria, destinata e perdersi e restare più di ogni altra. Perché le parole che rimangono, a volte, sono le più importanti e le più insensate e raccontano di noi, di chi eravamo e di chi siamo diventati.

giovedì 20 febbraio 2020

Dell’essere. 23 «Neuroni in transito».


Faccio appello alle mie memorie dell’insegnante che sono stato o, come più mi garba di dire, al mio gravoso impegno di educatore - da educĕre «trarre fuori, allevare» l’umano non ancora compiuto -. Quante volte mi sono scoperto dire insistentemente ai miei alunni: - Ragazzi, portate pazienza! – E quante volte mi sono ritrovato a sollecitarli a non essere intemperanti, ad essere indulgenti. Capivo la difficoltà di quel messaggio. E sempre a ripetere, forse ossessivamente, che mi interessava massimamente la loro crescita umana e civile, più di quanto mi potessero interessare le loro acquisizioni disciplinari. Sbalordivano ad ogni mia affermazione del tipo: - Mi preoccupa sopra ogni cosa che voi diventiate persone che sappiano fermarsi un momento prima di… -. “Un momento prima…” di una qualsivoglia loro intemperanza. Era il mio impegno professionale indefesso, quotidiano. Ma le difficoltà sono state oggettivamente enormi. La capacità o la padronanza del “portare pazienza” non la si improvvisa, non la si inventa. È un esercizio che inizia da giovanissimi e che deve durare per l’intero arco della esistenza. È una costruzione quotidiana, che annovera conquiste e sconfitte. Che si affina nel tempo. Che si fortifica con l’assiduo esercizio. Ed il tutto, affinché si possano mettere sotto controllo i cosiddetti “istinti animali”. Affinché si possano sviluppare convenientemente i famosi “freni inibitori”. Di quelle mie difficoltà “tecniche” di allora ne sono stato sempre consapevole. Sprovvisto della strumentazione scientifica adeguata, mi soccorreva l’amore per un “lavoro” ben fatto. Ed ho cercato costantemente “amore” nel lavoro che facevo. Alcune risposte le ho trovate dopo tantissimi lustri solamente di recente e per di più su di una pubblicazione niente affatto paludata, ovvero su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” di qualche tempo addietro (giugno? 2009) sul quale ho avuto la buona sorte di leggere un’indagine – svolta allora, ma ne ero già fuori dalla scuola - della giornalista Daniela Condorelli che ha per titolo “Neuroni in transito”. Un titolo intrigante, una lettura interessante ed illuminante ancor oggi per tanti aspetti che ha contribuito a diradare le mie perplessità e i non pochi sensi di colpa per un “lavoro” svolto sì con passione ed amore ma senza i requisiti scientifici che avrebbe richiesto. Scopro solo adesso che il “portar pazienza” di quei ragazzi, quando la portavano, aveva un ché di eroico. Eroico per quei ragazzi intendo dire. Non concedendo la loro fisiologia pre-adolescenziale scampo alcuno. Sottostando essi alla tempesta ormonale e neuronale della giovinezza.

mercoledì 19 febbraio 2020

Strettamentepersonale. 27 «Figli un po' di Umberto, tutti noi: della sua logica, del suo metodo e soprattutto del suo rigore».


19 di febbraio dell’anno 2016: moriva Umberto Eco. Mi trovavo allora in Milano e la ferale notizia si diffuse rapidamente per quell’affannata metropoli ove tutti corrono come disperatamente. Albergavo nella zona di Certosa ma mi portai rapidissimamente nella zona del Castello Sforzesco nella quale sapevo si trovasse l’abitazione del Grande. Non ricordo più per quanto tempo abbia gironzolato per quella zona della città, come a voler percepire l’aura ultima di quel Grande che non c’era più. Tanta era stata la mia emozione alla notizia di quella dipartita. Quattro anni senza Eco. Sono tanti. Di seguito “Il ritorno a casa di Umberto Eco” di Roberto Cotroneo, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 31 di luglio dell’anno 2019: Alessandria - È tutto qui intorno il mondo giovanile di Umberto Eco. In uno spazio che lui ha saputo ripercorrere come fosse un luogo dilatato e leggendario. Si pensi solo al racconto dell'amico visto per l'ultima volta in Piazza Garibaldi, e che sarebbe morto sotto un bombardamento. Al modo in cui ha raccontato una piazza grande ma non così smisurata come la descrive lui, come fosse un'epifania. Si pensi a questi due fiumi, il Tanaro e la Bormida, su cui è riuscito a tessere un racconto che ha portato a un ritratto antieroico di Alessandria, in tempi di retorica e di falsi eroismi. Si pensi a queste strade, a questa Biblioteca Civica con molti codici e incunaboli e libri preziosi che ha frequentato anche lui. E a qualche centinaia di metri c'era la libreria di Cesarino Fissore, il suo amico libraio, poco più giù abita Gianni Coscia, compagno di scuola e amico di una vita intera. Si pensi a quella piazza che qui ancora chiamano tutti piazza Genova, toponomastica di prima dell'ultima guerra, ora piazza Matteotti, dove Umberto giocava bambino con fionde e battaglie estenuanti e si faceva appunto chiamare ironicamente: "Il terrore di piazza Genova". E ancora facendo qualche centinaia di metri in più, forse un chilometro, si arriva al convento dei frati, dove ancora oggi si recita Gelindo, e poco distante la farinata di Savini, una sua passione. Sono ricordi di Umberto, sono ricordi di tutti, qui. Anche se oggi non saprei, perché lo spirito dei luoghi scompare assai più velocemente di un tempo. Ed è soprattutto per questo che servono i monumenti: più che a celebrare aiutano a innescare i ricordi, a non dimenticare, a ritornare persino. (…). E non c'è speranza senza storia e memoria. Sono passati poco più di tre anni dalla scomparsa di Umberto Eco, da quel 19 febbraio 2016. Tre anni da quella cerimonia al Castello Sforzesco di Milano dove hanno parlato in molti, ricordandolo, ma anche raccontando quello che ci lasciava e le cose di cui avremmo dovuto far tesoro. Ma è da qui che bisogna partire per capire cosa manca della sua voce oggi. Quel vero mondo del nord, fantasioso e solido, acuto e senza eccessi. Fulmineo e silenzioso. Quel nord di radici solide, di poche parole, di concretezza che ancora percepisco per queste strade. Come un filo che non si interrompe, perché erano le sue strade come le mie. Umberto ha mantenuto un legame con questa città per tutta la sua vita. Tornava per gli amici, quasi sempre in forma privata, soprattutto dopo che il successo de Il nome della rosa, lo aveva trasformato nell'intellettuale più richiesto al mondo. Era costretto a difendersi da una popolarità che certo non si aspettava alla soglia dei 50 anni. Ma tornava qui e ricordava, amava i suoi luoghi, a cominciare dal suo liceo, quello ancora intitolato a Plana, ma che nel futuro, rotto oggi finalmente il ghiaccio, potrà essere intitolato a Umberto. Perché i ragazzi di questa città, che mai leggeranno i testi scientifici ma desueti del Plana, potranno cercare i libri di Eco e cominceranno a leggerlo. Se Eco era figlio di questo luogo, di Alessandria, e lo era profondamente, allora per noi ragazzi, cresciuti in una città senza miti, grigia, nebbiosa e meno attraente di altre, sapere che se da un posto del genere era uscito un tipo come lui, beh allora non tutto era perduto. Si parla spesso di Eco come geniale inventore di calembour, paradossi, giochi linguistici. Era un uomo divertente perché non perdeva mai di vista il senso delle cose che faceva. Sosteneva sempre: divertirsi sì, ma con serietà. Ma aveva una capacità di comprendere le cose che non aveva paragoni. Senza compiacimenti, senza farla troppo lunga, senza mettersi la divisa da intellettuale, da scrittore, da professore: perché non ne aveva bisogno. Uno che aveva capito come nessuno le derive della nostra società. Il destino di questo paese. Senza atteggiarsi a profeta, che non era e non voleva essere. Ma proprio qui, davanti a questo monumento a Umberto che vigila sul tesoro di libri che questa città ha messo assieme in tanti anni, io voglio ricordare le parole di Eco in un suo vecchio articolo dedicato a questa città, alla sua città.

martedì 18 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 86 «Un muro che, come molti muri, non dovrebbe esistere».


Tratto da “Il posto fisso logora chi non ce l'ha” di Claudia De Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 18 di febbraio dell’anno 2017: Fino a tre anni fa avevo un posto fisso, un contratto a tempo indeterminato, un badge aziendale, una postazione in un open space, ferie, malattia e straordinari pagati, colleghi a cui volevo bene. Ero stata assunta 18 anni prima e pensavo che, in quell'open space, avrei raggiunto la pensione.

lunedì 17 febbraio 2020

Dell’essere. 22 «La vita fa tutt'uno con chi la vive, è chi la vive».


Oggi si ha come ospite sgradito il “CoV”, mediaticamente detto il “coronavirus”. Stante la “congiuntura” negativa provo a mettere insieme qualche pensiero. Anche minimo. Ci provo anche se mi risulta di difficile realizzazione. Un’ardua impresa. È come avere, in questi giorni del “coronavirus”, attraversato un mio “deserto dei tartari”. Ti poni in condizione d’ascolto. Ti poni in condizione d’intravvedere l’arrivo dei “tartari” prima degli altri, per darne l’allarme. Ma di “tartari” nemmeno l’ombra. Nessuno all’orizzonte, pur scrutato da mane a sera. I “tartari” sono già tra di noi. Siamo noi stessi divenuti i “tartari”.  E se siamo noi stessi i “tartari”, è inutile porsi in condizione d’attesa. Si ha bisogno d’agire, anche nelle condizioni più avverse. E le attuali, per i tanti, i tantissimi del bel paese, non sono affatto condizioni serene. È d’obbligo tornare sui pensieri importanti. Pensieri pesanti. D’ingombro assai. Intanto le domande si susseguono nella mente. Sarà colpa del momento astrale negativo. Ogni tanto è bene rifarsi alle antiche credenze, all’influenza degli astri sulle nostre vite. Che non sia un problema di congiunzione negativa degli astri? Torna comodo dar credito a questo pensiero ultimo. Ma della “suina” non si ha più notizia. Non abbiatene a male. Non intendo la femmina del nobile, assai, quadrupede. Penso alla “suina” come pandemia. Se ne sono perse le tracce. E della “Sars”? E di “Ebola”? E dell’“aviaria”? Avranno fatto comodo a qualcuno. Ora tocca voltare pagina. Mi sono convinto che non saranno esse le vere tragedie del nostro tempo. Non provocheranno le pandemie strombazzate attraverso il piccolo mostro domestico. Mi convinco sempre di più che non saranno esse a spogliarci della nostra fisica realtà, della nostra dignità nella non pienezza della nostra vigoria fisica. I nemici sono altri, sono già tra di noi. Sono i “tartari” che pensavamo d’avvistare in tempo utile. Tutto inutile invece. I “tartari” del terzo millennio, che il tenente Giovanni Drogo non ha avvistato nel tempo utile, sono coloro che vogliono a tutti i costi impadronirsi delle nostre vite, delle coscienze nostre. A loro dire, a tutela della vita stessa. Degli altri, possibilmente. Che della propria ne sono gelosi custodi. Poiché è bene, a loro dire, che della vita nostra siano ad interessarsene coloro che detengono il potere. Un potere. Sia un potere politico o un potere religioso, non è problema rilevante. Tra le due sfere, vi è contiguità assoluta. È importante che, quando la vita si complica e volge al peggio, al termine ultimo, intervengano per l’appunto i “tartari” del terzo millennio. Affinché tutte le vite, “salvate” anche a costo di inenarrabili sofferenze, abbiano a godere della visione salvifica dell’aldilà. Nei millenni a venire. Nelle celesti beatitudini. Sottrarre l’atto finale, l’ultimo respiro, alla volontà dei singoli. Ne ha scritto Paolo Flores d'Arcais che nell’anno 2009 ha dato alle stampe il volume “A chi appartiene la tua vita?” edito da “Ponte alle Grazie”. Di seguito trascrivo una Sua breve riflessione riportata in quel tempo su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”. A chi appartiene la mia vita? Non certo ai “tartari” dell’oggi. Tornare a pensare, sapendo dell’esistenza dei “tartari” tra di noi.

domenica 16 febbraio 2020

Ifattinprima. 46 «La recessione ha comportato un impoverimento generale».



Tratto da “La nostra decrescita infelice” di Alessandro Penati, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di febbraio 2020: (…). Nell'ultimo ventennio abbiamo vissuto una rapida rivoluzione tecnologica che ha cambiato i prodotti e i servizi che consumiamo: un'auto, un intervento chirurgico, un telefono, una pubblicità, un pagamento, sono solo apparentemente gli stessi beni di una volta. Una rivoluzione che ha anche modificato l'uso che facciamo del tempo libero, le interazioni con i nostri simili, e perfino gli strumenti della politica. E già si intravede un futuro in cui intelligenza artificiale, robot, 5G e stampanti 3D rivoluzioneranno anche il modo di produrre i beni. Una rivoluzione dominata dall'industria tecnologica americana, ora sfidata dalla Cina, che ha visto le imprese reinventarsi: Amazon, nata per vendere libri, è diventata un mercato virtuale per prodotti di terzi, ha innovato la logistica, è entrata nell'intrattenimento e si sta lanciando nel credito alle imprese. Non sappiamo se Tesla diventerà un colosso dell'auto o se sparirà: ma già dimostra che la tanto celebrata industria automobilistica tedesca non è stata capace di prevedere la discontinuità che sta mandando in pensione l'invenzione di Rudolf Diesel, vecchia di 125 anni, su cui aveva costruito la sua fortuna. I valori di Borsa, per quanto gonfiati, sono il segno tangibile di quanto la rivoluzione tecnologica abbia solo lambito la prima economia europea: nella grande contesa tra Usa e Cina, l'Europa sta a guardare. Perché tutto questo dovrebbe interessarci? Perché siamo l'unico tra 36 Paesi Ocse in cui il reddito pro-capite a potere di acquisto costante, la variabile che conta per i cittadini, è calato rispetto a quello del 2000, a fronte del +22% medio dei Paesi Ocse e il +17% dell'Eurozona. La colpa non è di crisi e austerità perché dal 2008 il reddito pro-capite di Portogallo, Spagna e Irlanda, che ne hanno avuta più di noi, è cresciuto, mentre in Italia è caduto del 5%. La nostra incapacità di crescere e creare reddito è antica; la crisi l'ha solo accentuata e i ritardi dell'Europa nella corsa al primato tecnologico l'hanno aggravata. Il recente crollo della produzione industriale ha riaperto i timori di recessione. Ancora più urgente, però, è arrestare il declino economico.

sabato 15 febbraio 2020

Cronachebarbare. 71 «Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare».


(…). Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci… Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano…perché si è diffusa la voce di  alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppi ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. (…). Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare…e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali si è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione. (…). Avete letto? Con l’attenzione dovuta? Ove si parla di quando eravamo noi i “vu cumprà” del tempo. Quel che avete appena letto è stato trascritto dalla rubrica “Voci d’Autore” che l’artista e scrittore Moni Ovadia pubblicava in tempi oramai andati, settimanalmente, sul quotidiano “l’Unità”. Quel pezzo aveva per titolo “Il Governo e l’incubo”. E la relazione alla quale in esso – ovvero il pezzo - si fa riferimento è, nientepopodimeno che, la relazione, datata ottobre dell’anno 1912, stilata dall’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso degli Stati Uniti d’America. Eravamo noi, in quel tempo, i “vu cumprà”. Che non si differivano, almeno così pare da quella tristissima relazione, dai “vu cumprà” che sopravvivono oggigiorno nelle nostre inospitali, attonite ed atterrite città. Atterrite da chi? Per caso, dai reietti della Terra dell’oggi, della Terra del capitalismo globalizzato? Atterrite le nostre città dai bisognevoli, essi sì di protezione e di accoglienza?  Ne ha scritto in tempi sempre andati Laura Boldrini che è stata la portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), portavoce che il tanto amabile ministro del tempo La Russa definiva non contare un nulla. Sarebbe interessante sapere e capire quanto sia stato stimato all’estero il luciferino ministro La Russa. Di seguito trascrivo quello scritto – non ne ho il titolo - di Laura Boldrini, pubblicato su di un supplemento di quel tempo (giugno 2009?), supplemento dedicato alle donne del quotidiano “la Repubblica”. Ove si tornava – come si torna tutt’oggi - a parlare dell’arte di costruire le paure nei tempi bui, un’arte assurta a stile di governo. Trascrivo, per sperare sempre di poter ritornare a parlare dei problemi seri e gravi che affliggono questo disastrato Paese: Il grande equivoco si sviluppa intorno alla paura. Il buon senso può poco di fronte alla paura, specialmente quando questa, alimentata in modo strumentale, si estende e diventa collettiva. E allora è possibile che la vittima bisognosa di protezione diventi una minaccia per chi ha ceduto alla paura, una persona temibile per il solo fatto che è stata costretta ad arrivare irregolarmente, magari via mare. Quindi è possibile che persone in pericolo nei propri Paesi, che hanno rischiato la vita per mettersi in salvo, vengano considerate esse stesse come un pericolo per l'intera comunità, una volta arrivate in Italia. Questa percezione, così sommaria da diventare paradossale, non rende giustizia alle tante storie di uomini e donne, a volte bambini, che si sono avvicendate in questi anni sulle coste italiane. Molti sono scappati perché non avevano scelta, perché restare significava mettere in pericolo la propria vita e quella dei loro familiari. Oggi (2009 n.d.r.) in Europa, per entrare in questa dimensione che ci sembra estranea e lontana, dobbiamo fare uno sforzo d'immaginazione. O uno sforzo di memoria per ricordarci quello che i nostri nonni ci raccontavano della guerra, della dittatura e dei parenti che scappavano in nord Europa o in America latina. Cercavano di mettersi in salvo dalle persecuzioni e dalle violenze del regime. Proprio come oggi tentano di fare molti di quelli che arrivano sulle coste italiane. Nell'attuale fuga verso la pace e la sicurezza sono le donne le più penalizzate, sottoposte al pedaggio ulteriore dell'abuso sessuale, che avviene nella più assoluta impunità. - Nel deserto è il trafficante a decidere della tua vita. Può lasciarti lì ad aspettare per giorni se non gli dai subito quello che vuole. E può anche non tornare e nessuno ti verrà a cercare -. Freweini è una delle tante ragazze del Corno d'Africa vittime di violenza durante il viaggio della speranza. Ragazze spesso vendute e comprate più volte da trafficanti e agenti corrotti. Chi renderà loro giustizia? - Il viaggio è stato un vero incubo, non finiva mai e sentivo di odiare la mia vita per quello che avevo dovuto subire. Io ero già morta -, racconta Zeinab, 19 anni, scappata da Mogadiscio e giunta a Lampedusa dopo oltre un anno, lo scorso aprile. Tante donne coraggiose come Zeinab e Freweini, in fuga dall'orrore delle guerre e dalle violazioni dei diritti umani, in questi anni hanno popolato i barconi diretti verso l'Italia. Sono donne da proteggere e non da respingere per paura.

venerdì 14 febbraio 2020

Ifattinprima. 45 «Il Paese sta diventando tecnicamente incosciente».



Ha scritto Ezio Mauro in “Il vittimismo dell’uomo forte nel Paese senza coscienza” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi: “(…). …stupisce l'insensibilità del sistema politico e di quello mediatico. Come se tutto fosse normale, pure questo continuo scendere di un gradino al giorno nella scala della civiltà italiana, fatta anche di misura, coscienza del limite, riconoscimento dei ruoli, nella differenza delle idee e nella libertà di giudizio reciproca. (…). …il Paese sta diventando tecnicamente incosciente, mentre ottunde la sua sensibilità e disarma la sua reattività, come se tutto potesse accadere e nulla valesse la pena di un moto di ribellione. Come se fossimo davvero destinati a fare da comparse in costume (…)”. Tratto da “Salvaladri2, la vendetta” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di febbraio 2020: (…). …14 luglio 1994. La notte precedente, mentre gli italiani sono distratti dalla semifinale mondiale Italia-Bulgaria (2-1, doppietta di Baggio), il primo governo B. vara il decreto Biondi, che vieta la custodia cautelare per i reati di Tangentopoli e la mantiene per quelli di strada. È la prima di una lunga serie di leggi ad personam, fatta per salvare dalla galera i manager Fininvest che corrompevano la Guardia di Finanza e naturalmente i finanzieri corrotti, ma anche per mantenere con altre norme le promesse fatte a Cosa Nostra nella Trattativa. E quel mattino le Procure d’Italia sono impegnate a scarcerare centinaia di ladroni di Stato indagati nelle varie Tangentopoli e a revocare i nuovi mandati di cattura. Il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli approfitta di una ricorrenza storica per una delle sue battute taglienti: “È singolare che, nell’anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e Opera. Il governo, invece di disporre misure idonee a impedire il perpetuarsi del sistema di corruzione, mostra la preoccupazione opposta. Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente…”. Nel giro di sette giorni vengono scarcerati a norma di decreto 2.764 detenuti, liberi di tornare a inquinare prove, minacciare testi, commettere nuovi reati o fuggire. In serata Antonio Di Pietro, attorniato dagli altri pm di Mani Pulite, legge un comunicato: “Il decreto non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove su gravi fatti di corruzione non potranno più essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere e a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora persino comprando gli uomini a cui avevamo affidato indagini nei loro confronti. Pertanto chiederemo al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico, nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone”. Subito, a Milano e in altre città, migliaia di cittadini scendono in piazza per manifestare in difesa del Pool e contro il decreto, convocati da Società civile, cui si uniscono Pds, Rete, Rifondazione e Verdi. Ma in piazza ci sono anche molti leghisti e missini. L’indomani la Voce di Indro Montanelli chiama a raccolta il “popolo dei fax” per poi pubblicare migliaia di messaggi ricevuti. La prima pagina de la Voce viene sventolata come una bandiera, insieme a quella di Repubblica, diretta da Eugenio Scalfari, contro il “Decreto Salvaladri”. Fini per An, Bossi e Maroni per la Lega si dissociano dal decreto a furor di popolo e minacciano la crisi se non sarà ritirato. E alla fine B. è costretto alla resa. Oggi la situazione è ancor più grave. Intanto perché non s’indigna più nessuno. Ma perché il nuovo Salvaladri non riguarda la custodia cautelare (per “presunti non colpevoli”), ma l’espiazione della pena (per condannati definitivi). E non porta la firma di politici, ma della Corte costituzionale: che, dopo aver avallato per 28 anni la “retroattività” delle leggi che negavano pene alternative al carcere e benefici a mafiosi, terroristi, pedopornografi, stupratori, contrabbandieri e sequestratori, s’è svegliata all’improvviso per bocciarne l’estensione (per la Spazzacorrotti) a corruzione, concussione e peculato. O meglio: la Bonafede vale solo per chi ha avuto la sventura di delinquere dopo la sua entrata in vigore. Chi invece ha avuto l’accortezza di farlo prima sconta la condanna comodamente a casa o ai servizi sociali, purché la pena sia sotto i 4 anni (come per i politici condannati per Mondo di Mezzo) o la sua età sia sopra i 70 (come per Formigoni). E, se era finito dentro, può chiedere e persino ottenere il risarcimento dallo Stato per “ingiusta detenzione”: cioè per la “reclusione” che era, sì, scritta nel Codice penale e nella sentenza, ma si dava per scontato che fosse finta. Dalle motivazioni della Consulta capiremo se il carcere finto vale solo per corrotti, corruttori e peculatori o anche – come sarebbe doveroso – per tutte le altre categorie finora inserite dal Parlamento nell’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario: quello sul carcere “ostativo”, cioè vero, senza eccezioni, benefici, alternative e scappatoie. A partire dai mafiosi che nel ’92, in base all’applicazione “retroattiva” della nuova legge del 41-bis, furono deportati dalle carceri ordinarie a quelle speciali di Pianosa e Asinara e ivi sigillati gettando la chiave, anche se condannati per delitti commessi prima. Ora Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione e mandato a casa dopo appena 5 mesi, anziché accendere un cero alla Madonna si lagna pure per i ben 150 giorni trascorsi in carcere sui 2029 previsti dalla sua sentenza: “Ho subìto alcuni mesi di ingiustificata detenzione”. Povera stella. Gli avevano spiegato che l’espressione “anni 5 e mesi 10 di reclusione” in calce alla sua sentenza era uno scherzo, nel Paese notoriamente più giustizialista del mondo. Poi, quando scoprì che era diventata una cosa seria, ci rimase male. Ora i suoi santi protettori della Consulta potrebbero mandarlo a spiegare alle centinaia di criminali finiti in carcere ostativo come mai, quando frignavano loro, nessuno se li filava, mentre se frignano i politici la Consulta scatta sull’attenti. Poi, si capisce, dovranno dichiarare incostituzionale anche la barzelletta che inspiegabilmente continua a campeggiare nelle aule di giustizia: “La legge è uguale per tutti”. C’è chi è morto dal ridere per molto meno.