19 di febbraio dell’anno 2016: moriva Umberto Eco. Mi
trovavo allora in Milano e la ferale notizia si diffuse rapidamente per quell’affannata
metropoli ove tutti corrono come disperatamente. Albergavo nella zona di
Certosa ma mi portai rapidissimamente nella zona del Castello Sforzesco nella
quale sapevo si trovasse l’abitazione del Grande. Non ricordo più per quanto
tempo abbia gironzolato per quella zona della città, come a voler percepire l’aura
ultima di quel Grande che non c’era più. Tanta era stata la mia emozione alla
notizia di quella dipartita. Quattro anni senza Eco. Sono tanti. Di seguito “Il ritorno a casa di Umberto Eco” di Roberto
Cotroneo, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 31 di luglio dell’anno 2019:
Alessandria
- È tutto qui intorno il mondo giovanile di Umberto Eco. In uno spazio che lui
ha saputo ripercorrere come fosse un luogo dilatato e leggendario. Si pensi
solo al racconto dell'amico visto per l'ultima volta in Piazza Garibaldi, e che
sarebbe morto sotto un bombardamento. Al modo in cui ha raccontato una piazza
grande ma non così smisurata come la descrive lui, come fosse un'epifania. Si
pensi a questi due fiumi, il Tanaro e la Bormida, su cui è riuscito a tessere
un racconto che ha portato a un ritratto antieroico di Alessandria, in tempi di
retorica e di falsi eroismi. Si pensi a queste strade, a questa Biblioteca
Civica con molti codici e incunaboli e libri preziosi che ha frequentato anche
lui. E a qualche centinaia di metri c'era la libreria di Cesarino Fissore, il
suo amico libraio, poco più giù abita Gianni Coscia, compagno di scuola e amico
di una vita intera. Si pensi a quella piazza che qui ancora chiamano tutti
piazza Genova, toponomastica di prima dell'ultima guerra, ora piazza Matteotti,
dove Umberto giocava bambino con fionde e battaglie estenuanti e si faceva
appunto chiamare ironicamente: "Il terrore di piazza Genova". E
ancora facendo qualche centinaia di metri in più, forse un chilometro, si
arriva al convento dei frati, dove ancora oggi si recita Gelindo, e poco
distante la farinata di Savini, una sua passione. Sono ricordi di Umberto, sono
ricordi di tutti, qui. Anche se oggi non saprei, perché lo spirito dei luoghi
scompare assai più velocemente di un tempo. Ed è soprattutto per questo che
servono i monumenti: più che a celebrare aiutano a innescare i ricordi, a non
dimenticare, a ritornare persino. (…). E non c'è speranza senza storia e
memoria. Sono passati poco più di tre anni dalla scomparsa di Umberto Eco, da
quel 19 febbraio 2016. Tre anni da quella cerimonia al Castello Sforzesco di
Milano dove hanno parlato in molti, ricordandolo, ma anche raccontando quello
che ci lasciava e le cose di cui avremmo dovuto far tesoro. Ma è da qui che
bisogna partire per capire cosa manca della sua voce oggi. Quel vero mondo del
nord, fantasioso e solido, acuto e senza eccessi. Fulmineo e silenzioso. Quel
nord di radici solide, di poche parole, di concretezza che ancora percepisco
per queste strade. Come un filo che non si interrompe, perché erano le sue
strade come le mie. Umberto ha mantenuto un legame con questa città per tutta
la sua vita. Tornava per gli amici, quasi sempre in forma privata, soprattutto
dopo che il successo de Il nome della rosa, lo aveva trasformato
nell'intellettuale più richiesto al mondo. Era costretto a difendersi da una
popolarità che certo non si aspettava alla soglia dei 50 anni. Ma tornava qui e
ricordava, amava i suoi luoghi, a cominciare dal suo liceo, quello ancora
intitolato a Plana, ma che nel futuro, rotto oggi finalmente il ghiaccio, potrà
essere intitolato a Umberto. Perché i ragazzi di questa città, che mai
leggeranno i testi scientifici ma desueti del Plana, potranno cercare i libri
di Eco e cominceranno a leggerlo. Se Eco era figlio di questo luogo, di
Alessandria, e lo era profondamente, allora per noi ragazzi, cresciuti in una
città senza miti, grigia, nebbiosa e meno attraente di altre, sapere che se da
un posto del genere era uscito un tipo come lui, beh allora non tutto era
perduto. Si parla spesso di Eco come geniale inventore di calembour, paradossi,
giochi linguistici. Era un uomo divertente perché
non perdeva mai di vista il senso delle cose che faceva. Sosteneva
sempre: divertirsi sì, ma con serietà. Ma aveva una capacità di comprendere
le cose che non aveva paragoni. Senza compiacimenti, senza farla troppo lunga,
senza mettersi la divisa da intellettuale, da scrittore, da professore: perché
non ne aveva bisogno. Uno che aveva capito come nessuno le derive della nostra
società. Il destino di questo paese. Senza atteggiarsi a profeta, che non era e
non voleva essere. Ma proprio qui, davanti a questo monumento a Umberto che
vigila sul tesoro di libri che questa città ha messo assieme in tanti anni, io
voglio ricordare le parole di Eco in un suo vecchio articolo dedicato a questa
città, alla sua città.