Ha scritto Umberto Galimberti in
“Gli inganni dell'io”, pubblicato su di un supplemento al quotidiano “la
Repubblica” dell’8 di maggio dell’anno 2010: Recita la sapienza greca: - Chi
conosce il suo limite non teme il destino -. Incominciamo a dire che, a
differenza di tutti i mammiferi, ma qui potremmo dire anche di tutti gli
animali, gli uomini non hanno istinti, ma solo pulsioni a meta indeterminata.
Non potremmo altrimenti concederci a tutte le perversioni, cosa che non sembra
sia concessa agli animali, e tantomeno alle sublimazioni che consentono di
trasformare una pulsione sessuale in un'opera poetica o d'arte. Grazie a questa
indeterminatezza biologica, l'uomo è libero. La libertà, infatti, non scende
dal cielo, ma dipende dal fatto che l'uomo non è codificato da istinti, che
sono risposte rigide agli stimoli. In questo modo abbiamo fatto un po' d'ordine
tra le illusioni dell'uomo che trae vanto della sua libertà e di tutte le
creazioni che la libertà gli concede. Tra queste, la più potente, la più significativa
è quella che abbiamo chiamato io, che di fondo, come dice Derrida, è solo uno
pseudonimo con cui cerchiamo di tenere a bada quel baccano indiavolato di
demoni che ci abitano. Quando ci riusciamo, affidiamo all'io il compito di
costruire la nostra biografia, nella ricerca disperata di un senso che la morte
sconfigge, riportandoci alla nostra vera realtà che è poi quella di essere
semplici funzionari della specie, la quale ci fornisce per un certo tempo una
sessualità per la procreazione e un dose di aggressività per la difesa della
prole. Finché la morte non azzera tutti i nostri progetti, riconducendoci alla
verità che il nostro io ha cercato in tutti i modi di tenerci celata, per
consentirci di vivere per il tempo che ci è stato concesso. La nostra morte,
quella che non riusciamo mai a pensare, quella per cui un paziente di Freud, un
giorno ebbe a dirgli: - Ho fatto un patto con mia moglie. Quando uno di noi due
morirà, io vado a Parigi -. Inganni dell'io, inganni d'amore che noi pensiamo
sempre rivolto agli altri, quando invece è sempre amore di sé. Ed è per il
terrore che ci incute l'idea di perdere l'amore che abbiamo durante la vita
maturato per noi stessi, che ci atterrisce la morte. Diventare consapevoli di
tutto questo non induce alla disperazione (sentimento appropriato a tutti
quanti hanno sperato, esagerando nel loro desiderio al di là della condizione
umana), ma piuttosto alla consapevolezza del proprio limite, attenendosi al
quale, come dice la Sapienza greca, non si teme il destino. Quanta più grande
bontà circolerebbe se non cadessimo vittime della tracotanza dell'io e quanti
inganni d'amore eviteremmo se diventassimo consapevoli della sua caducità come
caduca è la nostra vita. Solo da queste premesse può nascere l'entusiasmo nei
momenti alti della nostra esistenza e la capacità di sopportare il dolore che
ci consegna alla nostra ineludibile mortalità. Del resto, ce lo ricorda
Nietzsche, se riuscissimo a immaginare “il giorno in cui si spegnerà quella
stella dove ha fatto la sua comparsa l'uomo, ci renderemmo conto che fu
l'attimo più tracotante e menzognero della storia dell'universo, perché in
quell'attimo l'uomo pensò che i cardini dell'universo ruotassero intorno a lui”.
È stato rileggendo la dotta riflessione del professor Galimberti, che ho prima
trascritto nella sua interezza, che mi sono ricordato di un incontro fatto
tanti anni or sono nel mezzo, come poeticamente potrebbe dirsi, della “mia giovinezza” che è trascorsa oramai.
E ripassano nella mia mente quelle straordinarie parole di allora allorché,
stupefacendomi, quel mio canuto interlocutore ebbe a dirmi – sarebbe giusto che nella nostra
vita non si facessero promesse – aggiungendo subito dopo, scoprendo forse
il mio stato di enorme sorpresa suscitato da quelle Sue parole, - poiché
più che le promesse sarebbe bene nella nostra vita farci carico dei desideri dell’altro
e delle persone amate e quei desideri realizzarli senza avere promesso nulla -.
È stato per questo che nella mia vita ho cercato, forse non riuscendoci
sempre ed appieno, di indovinare i desideri delle persone care o a me vicine facendomene
carico senza apparirne il realizzatore. È stato un bell’esercizio per il mio ”io”.
Un “io”
al quale mi è stato difficile, nel corso degli anni, sottrarre il mio vivere
quotidiano. È accaduto anche che le onerosità della vita, le convenienze
sociali, la condizione alla quale tendo d’istinto di “cittadino riflessivo”,
abbiano posto sotto ferreo controllo quell’”io”, lo abbiano spesso “ristretto”
in ambiti angusti affinché concedesse l’emergere degli altri “talenti”,
seppur ce ne fossero, che la mia realtà psico-fisica, al di là della pura e
semplice mia complessione, doveva pur contare. È spesso accaduto. Ma l”io”
latente, ristretto e/o costretto, non ha tardato a farsi sentire, a porsi in
seria competizione/lotta con quella parte del mio essere che per educazione, cultura,
esercizio o quant’altro lo aveva posto nelle condizioni di non esorbitare
occupando nella sua interezza la mia esistenza, condizionandone il rapporto con
gli altri o meglio con il “prossimo” tutto. Non nascondo i
tormenti derivanti a seguito dell’intestina violenta lotta tra quell’”io”
tante volte mortificato, combattuto e costretto a starsene buono buono affinché
fossero soddisfatte le richieste e le necessità derivanti dalla onerosità propria
del vivere o dall’impegno mio per una cittadinanza attiva e responsabile, e la
razionalità propria dell’essere portatore fortunato di quei pochi “talenti”,
che ha cercato caparbiamente di mettere in atto, nel quotidiano, quelle parole di vita che sono state come una
flebile ma non spegnibile fiammella nel
non sempre facile percorso della vita.
Non sempre la lotta intestina ha avuto il risultato voluto o sperato. In tante occasioni quell’”io” mortificato e sottoposto alla più ferrea vigilanza dai “talenti” della ragione ha avuta vinta la sua battaglia, ha avuto il suo sopravvento non senza lasciare tracce profonde e laceranti nel mio essere. E negli altri pure, la qualcosa mi arreca oggigiorno ancora un grande perenne affanno.
Non sempre la lotta intestina ha avuto il risultato voluto o sperato. In tante occasioni quell’”io” mortificato e sottoposto alla più ferrea vigilanza dai “talenti” della ragione ha avuta vinta la sua battaglia, ha avuto il suo sopravvento non senza lasciare tracce profonde e laceranti nel mio essere. E negli altri pure, la qualcosa mi arreca oggigiorno ancora un grande perenne affanno.
Carissimo Aldo, questo meraviglioso post affronta un tema che considero molto importante. Sarebbe un mondo perfetto se ciascuno di noi solo provasse a farsi "carico dei desideri dell'altro e delle persone amate e quei desideri realizzarli..." Ma, come tu sai perfettamente, è una scelta che implica un impegno serio e costante, volto a tenere a bada quella parte di noi stessi che sempre prepotentemente vuole avere il predominio su tutto e su tutti. È un impegno serio che pochi, pochissimi si sentono di assumersi, solo i più forti e coraggiosi, coloro che sanno morire, perché di morte si tratta, della morte di noi come eravamo, per rinascere come esseri umani nuovi, degni veramente di tale nome. Non sempre riusciamo a morire e a rinascere, ma, per esperienza personale, so che è un "esercizio" che serve sicuramente a renderci migliori, più forti e felici, sempre se tutto parte da una nostra libera scelta. Grazie del tuo quotidiano e ammirevole impegno a condividere questi preziosi scritti. Agnese A.
RispondiEliminaRileggo spesso questo tuo "prezioso"post e condivido con piena convinzione quanto tu sostieni,Carissimo Aldo!La meta da raggiungere prevede una strada in salita, ma per chi si è esercitato durante tutta la vita, sarà più probabile giungere in cima.Credo fermamente in questo e non mi spaventa la strada da percorrere. Grazie ancora per la forza che spesso ricevo leggendo i tuoi post e buona continuazione.
RispondiElimina