Sentite questa – o meglio leggete
“questa” come molto garbatamente qualcuno mi ha fatto notare e consigliato -.
Si era in un bel gruppo di persone simpatiche e molto interessanti. Si
conduceva, in quel gruppo, un conversare molto conviviale per il quale era
stata stabilita “a priori” una regola precisa, ovvero di bandire senza se e
senza ma da quel nostro lieto e lieve conversare tutto ciò che riguardasse la
becera attualità politica del bel paese e tutto ciò che riguardasse lo
sfasciume morale ed etico dei tempi nostri e quant’altro attenesse al
mercimonio delle coscienze operato dal potere. Si era poi stabilito che,
circolarmente, ciascuno raccontasse una storia vissuta in prima persona o della
quale se ne fosse venuti a conoscenza. Si potrebbe dire che si conducesse un “innocente” gioco di società. Spero che
i pochissimi lettori di questo blog non abbiano a fraintendermi quando utilizzo
quella aggettivazione del gioco – “innocente”
- non avendoci aggiunto, di proposito, l’aggettivazione di “elegante” per non
suscitare perplessità e retro-pensieri. Ho avuto modo così di ascoltare storie
molto belle, altre molto interessanti, ilari alcune, molto commoventi tante
altre ancora. Al mio turno ho voluto raccontare la storia fantasiosa contenuta
nel film di Ermanno Olmi “Il segreto del
bosco antico”, che da poco avevo rivisto, opera cinematografica di prima
grandezza tratta da un racconto di Dino Buzzati e magistralmente recitata da
quel grande attore che è stato il nostro amatissimo Paolo Villaggio. E così ho
raccontato del colonnello Sebastiano Procolo – Paolo Villaggio - e del suo
nipote, il piccolo Benvenuto, e di come lo zio brigasse per eliminarlo
fisicamente per entrare in possesso dei suoi possedimenti avuti in eredità. Ho
già detto che la storia raccontata da Ermanno Olmi è una storia che sa molto di
favola, di fiaba antica, nella quale lo zio Sebastiano ingaggia finanche il
topo della casa affinché rosicchi le travi in legno del soffitto per causarne
il crollo e di conseguenza la morte dell’innocente nipote. È una storia
straordinaria “Il segreto del bosco
antico”, piena di geni che vivono negli alberi del bosco, di venti che
hanno linguaggio umano – il vento Matteo –, di animali che comunicano sentimenti
come gli umani e rappresenta a mio parere una straordinaria fiaba ecologica ed
antropologica che andrebbe fatta conoscere e divulgata anche nelle scuole,
essendo peraltro supportata da una straordinaria fotografia naturalistica. In
pochi, in verità, degli astanti conoscevano la storia raccontata da Olmi ed in
molti, venuti a conoscenza del suo triste epilogo, ovvero della morte del
colonnello finalmente pentito dei suoi pensieri omicidi, e morto dopo essersi messo sulle tracce del nipote dato
per disperso sotto una slavina, ma in verità incolume, in molti, dicevo, hanno
obiettato che una favola così atroce non può essere consigliata e raccontata ai
più piccoli essendo il suo contenuto, e soprattutto il suo epilogo, molto crudo
e capace di ingenerare sentimenti di paura.
È stato così che ne è venuto fuori un interessante confronto di idee durante il quale ho fatto riferimento, per quel che ricordavo in quell’istante, al grande psicoanalista Bruno Bettelheim – nato a Vienna il 28 di agosto dell’anno 1903 e morto a Silver Spring il 13 di marzo dell’anno 1990 - che in un Suo pubblico intervento ebbe a sostenere (trascrivo) che “o partiamo da una paura infantile che ci aiuti a maturare, o siamo destinati a sfociare infantilmente in un panico molto più distruttivo, contro cui forse pretenderemo la protezione di qualche superpadre che ci tiranneggi in vetta alla società: non impareremo mai a liberarci dalla paura se non ne abbiamo mai avuta e se non abbiamo imparato a ragionare in base ad essa.” Fine della dotta citazione e fine della storia. Per dire che tante volte ho sentito esprimere la necessità della massima accortezza nel raccontare favole o fiabe affinché non si ingenerassero nei piccoli ascoltatori sentimenti di paura. Nessuna fiaba alla maniera di Hansel e Gretel, per esempio, con il tentativo di abbandono di minori, nemmeno il Pinocchio impiccato all’albero, o del lupo che ingurgita la povera nonnina di cappuccetto rosso e così di questo passo. Della necessità della affabulazione e di tutto ciò che essa ingenera nella giovanissime menti, per una equilibrata loro crescita, ne ha scritto dottamente Pietro Citati sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di settembre dell’anno 2010 col titolo “Cari adulti, imparate a restare bambini”, che di seguito trascrivo in parte: (…). Sebbene si proclamino intelligenti e progrediti, gli uomini (…) hanno perduto quella che Goethe chiamava «la natura originale» e Leopardi «il primo uomo». Hanno ucciso la loro anima infantile, che dovrebbe accompagnarli sino alla morte.
Appena l'infanzia muore o si esaurisce in noi, si spegne l'immaginazione, il cuore, l'intelligenza, l'intuizione psicologica, l'estro, il gioco, l'eccentricità, la solitudine, la tenerezza, il divertimento. Diventiamo spettri lenti e tediosi. Non abbiamo più né amori né amicizie. Non riusciamo a respirare. Un cielo tenebroso si posa, plumbeo e soffocante, sopra il capo, e getta lampi di tenebre su tutte le occasioni della nostra esistenza. Non si vede per quale ragione dobbiamo continuare a vivere, se abbiamo completamente smarrito il senso e la luce della vita. Soltanto se restiamo in qualche misura infantili, continuiamo a capire l'infanzia: ciò che è uno dei massimi doni dell'esistenza. Perché lì, in quelle risa e in quei pianti e in quei rossori e in quelle parole e affermazioni impossibili, si nasconde qualcosa che non appartiene al «qui»: soffia un altro tempo, un altro spazio, un'altra musica. Se non riusciamo a cogliere questo soffio siamo creature diminuite. Così, dobbiamo moltiplicare i nostri rapporti con i bambini. Per esempio leggere ai figli «Pinocchio» e l' «Iliade» e «Alice nel paese delle meraviglie» e la storia dell'elefante nel fiume e le «Favole italiane» di Calvino: nostro figlio ci fissa, spaventato e divertito; e noi seguiamo sul suo volto l'aspetto sconosciuto che prende in lui il libro che conosciamo. Mentre ascolta, il bambino riflette in sé il padre e la madre: li fa rivivere in sé; è felice di avere una simile affinità con loro. Non c'è momento, forse, in cui padre e madre siano così prossimi al figlio. La lettura finisce. Il bambino fugge, prende a scalare un albero o a scavare una fossa, come se volesse scostare da sé con un gesto il peso delle cose che ha appena ascoltato. Non riemergono più durante il giorno e sembra che se ne sia perduta ogni traccia. Ma vi sono degli istanti rivelatori. Prima del sonno o dopo il sonno, quando il bambino pare abbandonato a sé stesso, in certi lunghi pigolii - monologhi, dove la sua esperienza viene ripresa e riepilogata, ritornano sulla sua bocca i nomi dei libri: l'elefante si bagna di nuovo nel fiume, Patroclo viene pianto dal suo fratello di elezione, Pinocchio vola sulle ali del grande colombo, Alice attraversa lo specchio, i cinque italiani avventurosi compiono il loro viaggio picaresco verso Parigi. Tutto è stato adattato, trasformato e assimilato, fino a diventare irriconoscibile: le notizie che il padre e la madre hanno portato in dono dalle loro esplorazioni sono entrate a far parte di un destino che si tesse, oscuro ed insondabile, accanto a loro. La forma narrativa che il bambino preferisce è semplice e concentrata: tende alla ripetizione, alla stilizzazione, al gioco geometrico, come le strutture lineari e ternarie della favola. Ma guai a supporre che ami la semplicità e l'ovvietà dei contenuti! Egli vuole conoscere cosa è il bene e il male, il padre e la madre: cosa è eroismo, viltà, rapidità, nascita, morte, caduta, protezione e avventura: quali sono i rapporti che stringono insieme le molte facce del mondo; e cerca invano di comprendere il numero e il tempo. A che gli servirebbero dunque i racconti senza sfondi e senza mistero? I libri che continua a pretendere dal suo lettore adulto sono le grandi storie simboliche, che rappresentano e intrecciano i destini umani, come l'«Iliade» e l'«Odissea», «Cenerentola», «La Bella e la Bestia», «Robinson Crusoe», «Pinocchio»: libri semplici, lineari e talvolta ingenui in superficie, ma complicati, polisensi e quasi esoterici nello sfondo, che ci suggeriscono centinaia di interpretazioni diverse, tutte egualmente vere. Non importa che egli ora afferri solo una piccola parte dei loro significati. Se lascerà depositare nella sua mente queste storie, se crescendo continuerà a consultarle e ad ascoltarle in se stesso come ora le ascolta dalla bocca degli altri, finirà per comprendere per quale ragione egli è insieme Achille ed Ulisse, Cenerentola ed Robinson, la Bestia moribonda e il mai nato burattino di legno. Tra padre, madre e figli tutto può diventare gioco, perché lo spirito dell'infanzia si impadronisce di tutto. E niente insegna più dei giochi. (…).
È stato così che ne è venuto fuori un interessante confronto di idee durante il quale ho fatto riferimento, per quel che ricordavo in quell’istante, al grande psicoanalista Bruno Bettelheim – nato a Vienna il 28 di agosto dell’anno 1903 e morto a Silver Spring il 13 di marzo dell’anno 1990 - che in un Suo pubblico intervento ebbe a sostenere (trascrivo) che “o partiamo da una paura infantile che ci aiuti a maturare, o siamo destinati a sfociare infantilmente in un panico molto più distruttivo, contro cui forse pretenderemo la protezione di qualche superpadre che ci tiranneggi in vetta alla società: non impareremo mai a liberarci dalla paura se non ne abbiamo mai avuta e se non abbiamo imparato a ragionare in base ad essa.” Fine della dotta citazione e fine della storia. Per dire che tante volte ho sentito esprimere la necessità della massima accortezza nel raccontare favole o fiabe affinché non si ingenerassero nei piccoli ascoltatori sentimenti di paura. Nessuna fiaba alla maniera di Hansel e Gretel, per esempio, con il tentativo di abbandono di minori, nemmeno il Pinocchio impiccato all’albero, o del lupo che ingurgita la povera nonnina di cappuccetto rosso e così di questo passo. Della necessità della affabulazione e di tutto ciò che essa ingenera nella giovanissime menti, per una equilibrata loro crescita, ne ha scritto dottamente Pietro Citati sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di settembre dell’anno 2010 col titolo “Cari adulti, imparate a restare bambini”, che di seguito trascrivo in parte: (…). Sebbene si proclamino intelligenti e progrediti, gli uomini (…) hanno perduto quella che Goethe chiamava «la natura originale» e Leopardi «il primo uomo». Hanno ucciso la loro anima infantile, che dovrebbe accompagnarli sino alla morte.
Appena l'infanzia muore o si esaurisce in noi, si spegne l'immaginazione, il cuore, l'intelligenza, l'intuizione psicologica, l'estro, il gioco, l'eccentricità, la solitudine, la tenerezza, il divertimento. Diventiamo spettri lenti e tediosi. Non abbiamo più né amori né amicizie. Non riusciamo a respirare. Un cielo tenebroso si posa, plumbeo e soffocante, sopra il capo, e getta lampi di tenebre su tutte le occasioni della nostra esistenza. Non si vede per quale ragione dobbiamo continuare a vivere, se abbiamo completamente smarrito il senso e la luce della vita. Soltanto se restiamo in qualche misura infantili, continuiamo a capire l'infanzia: ciò che è uno dei massimi doni dell'esistenza. Perché lì, in quelle risa e in quei pianti e in quei rossori e in quelle parole e affermazioni impossibili, si nasconde qualcosa che non appartiene al «qui»: soffia un altro tempo, un altro spazio, un'altra musica. Se non riusciamo a cogliere questo soffio siamo creature diminuite. Così, dobbiamo moltiplicare i nostri rapporti con i bambini. Per esempio leggere ai figli «Pinocchio» e l' «Iliade» e «Alice nel paese delle meraviglie» e la storia dell'elefante nel fiume e le «Favole italiane» di Calvino: nostro figlio ci fissa, spaventato e divertito; e noi seguiamo sul suo volto l'aspetto sconosciuto che prende in lui il libro che conosciamo. Mentre ascolta, il bambino riflette in sé il padre e la madre: li fa rivivere in sé; è felice di avere una simile affinità con loro. Non c'è momento, forse, in cui padre e madre siano così prossimi al figlio. La lettura finisce. Il bambino fugge, prende a scalare un albero o a scavare una fossa, come se volesse scostare da sé con un gesto il peso delle cose che ha appena ascoltato. Non riemergono più durante il giorno e sembra che se ne sia perduta ogni traccia. Ma vi sono degli istanti rivelatori. Prima del sonno o dopo il sonno, quando il bambino pare abbandonato a sé stesso, in certi lunghi pigolii - monologhi, dove la sua esperienza viene ripresa e riepilogata, ritornano sulla sua bocca i nomi dei libri: l'elefante si bagna di nuovo nel fiume, Patroclo viene pianto dal suo fratello di elezione, Pinocchio vola sulle ali del grande colombo, Alice attraversa lo specchio, i cinque italiani avventurosi compiono il loro viaggio picaresco verso Parigi. Tutto è stato adattato, trasformato e assimilato, fino a diventare irriconoscibile: le notizie che il padre e la madre hanno portato in dono dalle loro esplorazioni sono entrate a far parte di un destino che si tesse, oscuro ed insondabile, accanto a loro. La forma narrativa che il bambino preferisce è semplice e concentrata: tende alla ripetizione, alla stilizzazione, al gioco geometrico, come le strutture lineari e ternarie della favola. Ma guai a supporre che ami la semplicità e l'ovvietà dei contenuti! Egli vuole conoscere cosa è il bene e il male, il padre e la madre: cosa è eroismo, viltà, rapidità, nascita, morte, caduta, protezione e avventura: quali sono i rapporti che stringono insieme le molte facce del mondo; e cerca invano di comprendere il numero e il tempo. A che gli servirebbero dunque i racconti senza sfondi e senza mistero? I libri che continua a pretendere dal suo lettore adulto sono le grandi storie simboliche, che rappresentano e intrecciano i destini umani, come l'«Iliade» e l'«Odissea», «Cenerentola», «La Bella e la Bestia», «Robinson Crusoe», «Pinocchio»: libri semplici, lineari e talvolta ingenui in superficie, ma complicati, polisensi e quasi esoterici nello sfondo, che ci suggeriscono centinaia di interpretazioni diverse, tutte egualmente vere. Non importa che egli ora afferri solo una piccola parte dei loro significati. Se lascerà depositare nella sua mente queste storie, se crescendo continuerà a consultarle e ad ascoltarle in se stesso come ora le ascolta dalla bocca degli altri, finirà per comprendere per quale ragione egli è insieme Achille ed Ulisse, Cenerentola ed Robinson, la Bestia moribonda e il mai nato burattino di legno. Tra padre, madre e figli tutto può diventare gioco, perché lo spirito dell'infanzia si impadronisce di tutto. E niente insegna più dei giochi. (…).
Carissimo Aldo, ho molto apprezzato questo post così ricco di importanti verità che sento molto vicine al mio modo di pensare. "Soltanto se restiamo in qualche misura infantili, continuiamo a capire l'infanzia : ciò che è uno dei massimi doni dell'esistenza... Così dobbiamo moltiplicare i nostri rapporti con i bambini". L'atto di raccontare o leggere una fiaba è tempo di qualità che si dedica ai bambini e loro lo avvertono con pienezza, a livello emotivo. Un semplice racconto diventa per loro un dono d'amore. La fiaba conserva messaggi sempre attuali, perché tratta problemi umani universali, offrendo esempi di soluzioni alle difficoltà. Incarna bene e male in determinati personaggi, contribuendo allo sviluppo emotivo del bambino. Ritengo, inoltre, che le situazioni fiabesche facilitino la gestione della paura, esorcizzino incubi e plachino inquietudini, aiutando a superare insicurezze e ad accettare responsabilità, per affrontare la vita. Grazie e buona continuazione. Agnese A.
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