“Prendete un libro. Fatto? No,
non l'avete preso. Non l'avete preso tutto: un libro è qualcosa che vi sfugge e
vi supera di continuo, tanto è esteso nello spazio e nel tempo. Nello spazio
perché i libri attraversano il mondo più velocemente di noi e dei nostri
pensieri. Nel tempo perché la giostra degli anni ha per loro una antica e ben
nota clemenza. (…). I libri sono posti dove le persone si incontrano e si
confrontano, luoghi immateriali fatti di parole e scie di parole che
attraversano il pianeta senza fermarsi. In ogni generazione può trovarsi
qualcuno che ha il coraggio di opporsi alla propaganda e dire che ciò che ci
unisce è più grande e importante di ciò che ci divide. Prendete un libro. Non
ci riuscirete, non potete davvero prendere un libro: nessun abbraccio umano è
tanto grande. Però potete provarci. Potete provarci sussurrando a voi stessi
che è una cosa che vale la pena di fare, che è qualcosa che fa bene. Potete,
anzi dovete provare a prendere un libro. Perché in fondo, tentandoci, potreste
ritrovarvi in mano il mondo.” Così ha scritto Geraldine Brooks in una
Sua un po’ datata riflessione che ho ritrovato tra le mie carte, riflessione
pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” il 25 di ottobre
dell’anno 2008. Geraldine Brooks, scrittrice australiana, ha vinto nell’anno 2006
il Premio “Pulitzer” per la Sua attività di giornalista che affianca, con
grande impegno, alla Sua attività letteraria. In Italia ha pubblicato, per i tipi Neri Pozza, “I custodi del libro”. “Prendete
un libro”: mi sembra debba essere questo, oggigiorno, l’imperativo
categorico per non sprofondare nella turpitudine più completa di una società
quanto mai scollacciata e senza più un navigare sicuro; ma con quali strumenti
diffondere l’imperativo predetto? Da quella riflessione di Geraldine Brooks sono trascorsi undici anni e passa
abbondanti, ma di quali misfatti, in fatto di mal di vivere, mal di vivere
difeso ad oltranza come libertà individuale di un singolo prima , di ciascuno
poi e quindi come diritto inequivocabile per tutti, contro i soliti bacchettoni
e moralisti di questo mondo, di quali misfatti, dicevo, è stato osservatore
distratto l’inebetito, mediaticamente mitridatizzato cittadino del bel paese?
Quali gli strumenti per raddrizzare una rotta che inequivocabilmente porterà a
schiantarsi, la fragile navicella del nostro vivere collettivo, contro gli
immensi scogli dell’indifferenza e dell’ottusità? Il ritrovare la bella
riflessione di Geraldine Brooks mi spinge, di conseguenza, ad associarvi la “seconda
parte” – “seconda parte” artificiosamente da me creata, ché non esiste
nell’originale di quello scritto - di quel bellissimo, interessantissimo
recente intervento dello scrittore Pietro Citati pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 9 di febbraio dell’anno 2011 col titolo “Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile”. Una
lettura illuminante assai, nell’oscurità del periglioso tempo nel quale siamo
chiamati a vivere, chiamati a vivere in verità così come il sommo Poeta ebbe a
dire "…fatti
non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Ha
scritto Pietro Citati che “nel 1943, avevo tredici anni, (…). Non
andavo mai a scuola: non studiavo né il latino né il greco. I bombardamenti di
Torino avevano costretto la mia famiglia a rifugiarsi in un'immensa casa in
Liguria, con stanze altissime, scale ombrose, soffitte che accoglievano
uccelliere vaste come saloni. In quel piccolo paese di mare, vivevo quasi solo.
La scuola del capoluogo vicino era chiusa perché gli aerei inglesi
mitragliavano le strade: i miei due migliori amici erano stati fucilati durante
un rastrellamento tedesco; e qualcosa nel mio contegno teneva lontani da me i
ragazzi del paese, coi quali avrei voluto giocare a pallone. Tutti i libri
della mia casa di Torino erano finiti in una cucina abbandonata: identica a
quella del Castello di Fratta. Mio padre li aveva sistemati a caso dentro
vecchie librerie o lasciati dentro le casse. Dovunque mi avventurassi e
esplorassi, l'immensa casa grondava di libri.
Un avo aveva nascosto il suo Buffon, il suo Voltaire, la sua Encyclopédie dentro una cassapanca della soffitta: mia nonna aveva raccolto i romanzi della sua Bibliothèque rose, pubblicazioni audaci del Settecento, libri di spiritismo e di rivendicazioni femministe in una madia della stanza da pranzo: dal ripostiglio di cucina emergevano le storie di battaglia, gli studi di tattica e di strategia, che mio nonno militare aveva amato: nelle stanze da letto qualcuno aveva disseminato i fascicoli di un feroce romanzo antimassonico; mentre nel salotto facevano pompa di sé i volumi delle mediocri glorie letterarie della famiglia. Vivevo rinchiuso nella cucina-biblioteca, nella soffitta-biblioteca, nei ripostigli-biblioteca: in tutti gli angoli di quell'alveare ronzante di libri. Fino allora avevo letto soltanto i romanzi di Salgari. All'improvviso, mi misi a leggere tutti i libri di casa: senza scelta né discernimento, perché la mia curiosità senza forma prendeva tutte le forme. Shakespeare nella versione ottocentesca di Andrea Maffei, i libri rosa di mia nonna, i racconti delle battaglie russo-giapponesi che mio nonno compilava per la Rivista militare, le meravigliose descrizioni di uccelli nella Histoire naturelle di Buffon, le voci dell'Encyclopédie sulle arti, la Storia delle crociate affidata alla penna fantastica di Gustave Doré. Non smettevo mai. Appena sveglio, scendevo in cucina: passavo tra i libri la mattina e il pomeriggio; e la voce di mia madre mi chiamava inutilmente a cena. Quelle letture mi hanno segnato per sempre: malgrado gli anni, sono rimasto un dilettante, a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo. La biblioteca domestica, frutto casuale della sedimentazione del tempo, figlia delle generazioni, luogo aperto all'invincibile curiosità, è la più formativa che esista. Con tutte le sue lacune e stranezze, eccita la passione del libro molto più della biblioteca scolastica, dove i libri sono scelti e registrati in ordine, e sopravvivono soltanto i trionfatori della storia e della letteratura. Finì la guerra. Giunse il 1945: abbandonai la biblioteca della casa al mare: ritornai a Torino; e, insieme ai miei compagni del D'Azeglio, cominciai a passeggiare lungo il Po, a discorrere di tutto - monarchia, repubblica, storia, filosofia, famiglia, scuola, scuola. Su tutto, avevo idee e contro-idee. Nel 1946 scrissi uno sciocchissimo articolo sul giornale scolastico. Sostenevo che bisognava smettere - per sempre - di imparare le poesie a memoria. Niente più Infinito, Chiare, fresche e dolci acque, terzo canto del Paradiso. Era una cosa meccanica: un'esperienza per parassiti; fatta apposta per quei bambini, che avevamo smesso di essere. Ero orgogliosissimo delle mie convinzioni. Qualche anno dopo, mi resi conto che avevo torto. Imparare le poesie a memoria, richiamare e rispecchiare le parole, andare avanti e indietro, sillabare e risillabare, era un gioco bellissimo. Se dicevo e ripetevo tra me: Sedendo e mirando, interminati spazi: oppure herba et fior che la gonna leggiadra ricoverse; oppure Qual per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille: - la mente variava e arricchiva il vocabolario, rafforzava la scrittura mentale, imparava a pensare e a ripensare. Oggi, sono pieno di rimpianti. Mi ricordo tutti i versi che, per arroganza giovanile, ho dimenticato, e penso a quello che avrei potuto essere e non sono. (…).”
Un avo aveva nascosto il suo Buffon, il suo Voltaire, la sua Encyclopédie dentro una cassapanca della soffitta: mia nonna aveva raccolto i romanzi della sua Bibliothèque rose, pubblicazioni audaci del Settecento, libri di spiritismo e di rivendicazioni femministe in una madia della stanza da pranzo: dal ripostiglio di cucina emergevano le storie di battaglia, gli studi di tattica e di strategia, che mio nonno militare aveva amato: nelle stanze da letto qualcuno aveva disseminato i fascicoli di un feroce romanzo antimassonico; mentre nel salotto facevano pompa di sé i volumi delle mediocri glorie letterarie della famiglia. Vivevo rinchiuso nella cucina-biblioteca, nella soffitta-biblioteca, nei ripostigli-biblioteca: in tutti gli angoli di quell'alveare ronzante di libri. Fino allora avevo letto soltanto i romanzi di Salgari. All'improvviso, mi misi a leggere tutti i libri di casa: senza scelta né discernimento, perché la mia curiosità senza forma prendeva tutte le forme. Shakespeare nella versione ottocentesca di Andrea Maffei, i libri rosa di mia nonna, i racconti delle battaglie russo-giapponesi che mio nonno compilava per la Rivista militare, le meravigliose descrizioni di uccelli nella Histoire naturelle di Buffon, le voci dell'Encyclopédie sulle arti, la Storia delle crociate affidata alla penna fantastica di Gustave Doré. Non smettevo mai. Appena sveglio, scendevo in cucina: passavo tra i libri la mattina e il pomeriggio; e la voce di mia madre mi chiamava inutilmente a cena. Quelle letture mi hanno segnato per sempre: malgrado gli anni, sono rimasto un dilettante, a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo. La biblioteca domestica, frutto casuale della sedimentazione del tempo, figlia delle generazioni, luogo aperto all'invincibile curiosità, è la più formativa che esista. Con tutte le sue lacune e stranezze, eccita la passione del libro molto più della biblioteca scolastica, dove i libri sono scelti e registrati in ordine, e sopravvivono soltanto i trionfatori della storia e della letteratura. Finì la guerra. Giunse il 1945: abbandonai la biblioteca della casa al mare: ritornai a Torino; e, insieme ai miei compagni del D'Azeglio, cominciai a passeggiare lungo il Po, a discorrere di tutto - monarchia, repubblica, storia, filosofia, famiglia, scuola, scuola. Su tutto, avevo idee e contro-idee. Nel 1946 scrissi uno sciocchissimo articolo sul giornale scolastico. Sostenevo che bisognava smettere - per sempre - di imparare le poesie a memoria. Niente più Infinito, Chiare, fresche e dolci acque, terzo canto del Paradiso. Era una cosa meccanica: un'esperienza per parassiti; fatta apposta per quei bambini, che avevamo smesso di essere. Ero orgogliosissimo delle mie convinzioni. Qualche anno dopo, mi resi conto che avevo torto. Imparare le poesie a memoria, richiamare e rispecchiare le parole, andare avanti e indietro, sillabare e risillabare, era un gioco bellissimo. Se dicevo e ripetevo tra me: Sedendo e mirando, interminati spazi: oppure herba et fior che la gonna leggiadra ricoverse; oppure Qual per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille: - la mente variava e arricchiva il vocabolario, rafforzava la scrittura mentale, imparava a pensare e a ripensare. Oggi, sono pieno di rimpianti. Mi ricordo tutti i versi che, per arroganza giovanile, ho dimenticato, e penso a quello che avrei potuto essere e non sono. (…).”
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