Ha scritto Kahlil Gibran in “Il Profeta”: “Disse allora un ricco: parlaci del dare. Ed
egli rispose: voi non date che cosa di poco conto quando date qualcosa dei
vostri beni. È quando date qualcosa di voi stessi che date veramente. Poiché
cosa sono i vostri beni se non cose che serbate e custodite per paura di averne
bisogno domani? E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo prudente
che nasconde gli ossi nella sabbia che non lascia tracce mentre segue i
pellegrini diretti alla città santa? E che cos’è la paura del bisogno se non il
bisogno stesso? E la paura della sete quando il vostro pozzo è pieno, non è
forse insaziabile sete? (…)”. Ecco, «in una società dello scarto»,
così come la definisce Michela Marzano in “L’elogio della povertà e della
rassegnazione” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 28 di dicembre
dell’anno 2016, a divenire “scarto” – anzi “scarti”, per milioni di
esseri umani - non sono solamente gli “scarti” alimentari dell’abbondanza
spropositata del Natale ma anche gli esseri umani più indifesi, senza lavoro e
senza patria. Scriveva tre anni addietro Michela Marzano: (…). …cos’è oggi strettamente
necessario alla sussistenza e non superfluo? Dove inizia e dove finisce lo
sperpero? Ha veramente senso parlare di eccesso, quando tante famiglie vivono
di stenti, il numero dei disoccupati è allarmante, e numerosi giovani sono
costretti a lasciare il nostro paese in cerca di un futuro migliore? “La
povertà è conoscere le cose per necessità”, scriveva Parise quando in molti,
per ignoranza o malafede, confondevano la felicità con la ricchezza, il
benessere con i consumi. Era l’inizio degli anni folli e spensierati del boom
economico, subito prima dell’ultraliberismo degli anni Ottanta quando la
propaganda spinse tante persone a credere che il progresso non si sarebbe mai
fermato: basta volere per potere; ognuno è artefice del proprio destino; solo
gli incapaci, gli svogliati, i perdenti e i falliti non possono farcela a
raggiungere il successo e a scalare il potere. Era l’epoca in cui anche un
altro grande scrittore e intellettuale italiano, Pier Paolo Pasolini, non esitò
a parlare del consumismo come di una nuova, e forse peggiore, forma di
fascismo. Ma oggi che la ricchezza si concentra nelle mani dell’1% della
popolazione mentre il restante 99% si spartisce le briciole, oggi che la crisi
economica è conclamata, oggi che la povertà non è più solo una figura retorica
ma una realtà, come si fa a fare un elogio della mancanza e del bisogno? Certo,
l’essere non coincide con l’avere. Esattamente come non coincide con
l’apparire, nonostante la società sia ancora succube delle apparenze e siano tanti
i giovani che si illudono che il proprio valore sia legato al numero dei “mi
piace” sui propri post, o alla quantità di “amici” e di “follower” che si
possono avere su Twitter o Instagram. Certo, una delle caratteristiche
dell’esistenza umana è l’insieme di qualità e di cose che “non si hanno” o che
“non si è”, come direbbe lo psicanalista francese Jacques Lacan che ha definito
persino l’amore come quel sentimento che ci porta “a dare quello che non
abbiamo a chi non lo vuole”, proprio per insistere sull’importanza della
mancanza e del vuoto come fattori strutturanti dell’identità di ciascuno.
Certo, la felicità ha poco a che vedere con il Prodotto Interno Lordo, anche
quando per calcolare il PIL, oltre ai consumi, vengono presi in considerazione
altri fattore di benessere: la massimizzazione dei profitti e degli interessi,
ormai lo sappiamo bene, è solo uno dei tanti miti dell’individualismo
post-moderno. (…). Il nostro, oggi, non è più un paese che “compra e basta”.
Sono numerosi coloro che comprano pochissimo; troppi coloro che, per necessità,
molte cose non le conoscono nemmeno. Tanto più che, per conoscere, non è
affatto vero che sia necessario passare attraverso il bisogno e la necessità.
Anzi. Questo lo pensa e lo afferma solo chi, forse, non ha mai avuto realmente
bisogno. E immagina che la vita possa essere pienamente dignitosa limitandosi a
distribuire a tutti un “reddito di cittadinanza” (o “reddito di sussistenza” o
“reddito minimo universale”), come diceva già il padre dell’ultraliberismo,
Friedrich von Hayek, interessato solo a garantire l’ordine e la pace sociale –
reddito minimo che, poi, non è altro che una versione moderna, e forse più
presentabile, della vecchia “carità” dei notabili. Ma quale dignità viene
garantita quando si parte dal presupposto che la povertà può essere un “segno
distintivo più ricco della ricchezza”? Rispettare la dignità di tutti significa
dare a ciascuno la possibilità di scegliere quello che gli è necessario o no, e
non decretare a priori ciò che è superfluo e inutile. La nostra è una società
dello scarto, (…). La soluzione non può quindi essere quella di farne l’elogio,
spingendo alla rassegnazione gli “scartati”, ma pensare e costruire una vera
cultura dell’inclusione.
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