Tratto da “I
rischi sui debiti e i lati oscuri del salva Stati” di Barbara Spinelli,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di dicembre 2019: (…). Come
accade sin dall’inizio della crisi greca e delle politiche di austerità, le
condizioni di funzionamento del Mes vengono presentate come ineluttabili:
affermazione impropria, che tra l’altro sorvola sulla necessaria ratifica
finale di tutti i Parlamenti dell’area euro. (…). La lezione greca ha insegnato
poco, e la ricetta neoliberale viene riproposta pur non avendo generato
crescita né giustizia sociale. “Le cattive idee hanno una morte lenta”,
constata l’economista Stiglitz. Quel che in effetti colpisce è la permanenza
dei vecchi parametri di stabilità. Nel Trattato vengono ribaditi, nonostante i
cambiamenti promessi da alcuni governi: l’accesso ai crediti cosiddetti
precauzionali presuppone tra altre pesanti condizionalità un deficit non
superiore al 3% del Pil e un debito pubblico sotto il 60% (allegato nr. 3 del
Trattato). Andrebbe ricordato che fin dal 2001 Prodi definì “stupidi” i
parametri, e nel 2013 disse al Sole 24 Ore: “Non è stupido che ci siano i parametri
come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati 20 anni”. Riassumiamo
a questo punto i principali difetti elencati dagli esperti. Quelli esposti da
Ignazio Visco in prima linea, che non è ostile al Mes, ma ha indicato i
pericoli legati alla ristrutturazione del debito in caso di sua acclarata o
sospetta non sostenibilità (la ristrutturazione è un rinegoziato su condizioni
e scadenze del debito: un’insolvenza “pilotata”). Vero è che la
ristrutturazione non sarebbe automatica, ma diventa obbligatoria se il Mes
giudica insostenibile un indebitamento. La sostanza non cambia molto e Visco
parla addirittura di enormi rischi: “I piccoli e incerti benefici di un
Meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati
considerando l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione
inneschi una reazione a catena”. Rischi simili sono temuti dall’Associazione
bancaria (Abi), che detiene la maggior parte dei titoli di Stato. Non meno
interessanti le criticità enumerate il 6 novembre – in un’audizione alla Camera
– da Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici
Italiani. Anch’egli è contro il veto al Mes, sottolineando aspetti virtuosi
come la rete di sicurezza per le banche in crisi (il cosiddetto backstop), ma
non nasconde i vizi dell’impianto. Il primo concerne il passaggio dell’asse del
potere economico nell’Eurozona dalla Commissione Ue al Mes, che diventa un
organo con funzioni di vero sovrano e prestatore di ultima istanza. Questo
spostamento, e la natura intergovernativa del Mes, eliminano ogni controllo da
parte del Parlamento europeo e anche il costante coinvolgimento dei Parlamenti
nazionali suggerito nel 2016 dall’Istituto Delors e dalla Fondazione
Bertelsmann. Diminuisce anche, a nostro parere, la possibilità di
un’intromissione della Corte europea di giustizia in politiche non più condotte
in prima persona da organi comunitari (Commissione o Bce), e di cui non sarebbe
semplice valutare la compatibilità con il diritto europeo e la Carta dei
diritti fondamentali (compatibilità su cui la Commissione deve vegliare,
secondo la sentenza Ledra della Corte). Quanto alla ristrutturazione preventiva
del debito, Galli la elenca fra le criticità “preoccupanti” perché indicata
come “precondizione pressoché automatica” per ottenere i finanziamenti. A suo
parere, l’idea che si debba stabilire una regola che obblighi alla
ristrutturazione un Paese che chiede l’accesso ai fondi del Mes e abbia un
debito giudicato non sostenibile, è stata espressa ripetutamente da esponenti
tedeschi (tra cui il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann).
Condizionando gli aiuti a una ristrutturazione preventiva si eviterebbe
quell’effetto di azzardo morale che sarebbe il motivo per cui alcuni Paesi non
hanno fatto l’aggiustamento di bilancio. L’idea dunque è che prima di fare
operazioni che comportino condivisione di rischi – assicurazione comune sui
depositi, bilancio più forte dell’Eurozona – occorra indurre i Paesi devianti a
ridurre i rischi. I prestiti precauzionali a favore dei Paesi che hanno bilanci
in ordine sono facilitati, ma a tutti i costi si deve evitare il contagio da
parte di paesi giudicati potenzialmente inaffidabili. Nulla è del tutto
immodificabile, a dispetto di quanto detto dal ministro Gualtieri. Sarà
possibile esprimere riserve, e almeno attendere risultati paralleli (Unione
bancaria, assicurazioni dei depositi, fiscalità comune). È il metodo del
pacchetto prospettato dal presidente del Consiglio Conte. Sarà utile cercare
alleanze, e sondare anche i nuovi dirigenti socialdemocratici in Germania. Comunque
si tratta di uscire da una fraseologia disorientante perché troppo
contraddittoria (il Mes è un progresso ma contiene “enormi rischi”; i parametri
sono “stupidi ma necessari”: Prodi 2001). Dicono che sia in gioco la
credibilità italiana, quando in gioco è quella dell’Unione. Come spiegò molto
bene la Fondazione Heinrich Böll (rapporto di Ricardo Cabral e Viriato
Soromenho-Marques, 2018) il Mes adotta il paradigma del Fondo Monetario
(prestiti basati su condizionalità socialmente dirompenti). Nei negoziati del
1944, Keynes si oppose a preventive politiche di austerità per i debitori, e
difese “una soluzione secondo cui il peso dell’aggiustamento doveva cadere
molto più sulle nazioni creditrici con forti surplus dei conti correnti”.
Sconfitto Keynes prevalse la posizione Usa, primo Paese creditore. Lo stesso
scenario si presenta oggi, nonostante i ripetuti fallimenti del Fmi.
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