Non Vi sbalordisca e non crei
scompiglio nelle vostre radicate certezze se dico che ho un interesse “minore”
per la mia realtà biologica rispetto all’interesse, maggiore, che riservo alla
mia realtà a-biologica, quella legata al pensiero ed alla “consapevolezza”
dell’esistere. Il biologico non assicura “consapevolezza” dell’esistere, ché
altrimenti tutte le forme biologiche ne dovrebbero avere una piena contezza,
amebe incluse. È certo che mi interessi del mio stato di salute, che me ne
preoccupi in date circostanze, stato di salute che è strettamente aspetto biologico
della mia realtà ma non del mio “esistere”, che è solamente il mio
apparire ma non il mio essere, ma non disdegno di pensare che anche esso, il
mio stato biologico di benessere, possa avere un qualche remoto legame con la
mia struttura di pensiero, con quella che chiamo sovente la mia “impronta
psichica”. Sono interconnessioni intuite – ma solamente intuite, si
badi bene - da tempo, ma non ancora convenientemente indagate e scientificamente
dimostrate; sarà possibile mai una dimostrazione esaustiva di una tale
interconnessione del corpo con il proprio pensiero? Ma torno ad affermare come
preminente mi appaia la “salute” della mia “impronta
psichica”, persa o compromessa la quale ben poca cosa sopravviverebbe
di me stesso, della mia percezione del vivere ma ancor più della mia “consapevolezza”
di vivere “un tempo”, anzi “il tempo”, un tempo preciso
e difficilmente scambiabile con un altro tempo che sia diverso dal mio. Pensavo
a queste cose al tempo della notizia del mancamento, esorcizzato ma purtroppo
dolorosamente avvenuto, di un carissimo amico, R. D*N., che ci fu
carissimo assai, e che ci ha lasciati, in quell’amaro momento, la levità del
Suo “vivere”,
la Sua “educazione” senza pari, come intrisa fuori da questo tempo, la
Sua consapevole “remissività” che gli faceva da fedele compagna allorquando le
immancabili “storture” della vita non mancavano di tediarlo. Gli amici se
ne vanno, quasi in punta di piedi, per non disturbare il turbinio di questo
inquieto mondo, e di essi non ci rimane che la loro memoria, memoria che è
quella speciale categoria dello spirito che connota il nostro precario transito
in questo mondo. Ma è essa, la memoria, l’unico mezzo che conforta e rafforza la
nostra “consapevolezza” d’essere al mondo e nel “tempo”, e dopo, per il
tramite d’altri, d’esserci stati nel mondo. E gli amici che ci hanno lasciati e
che ci lasciano, dismessa la propria realtà corporale, lasciato oramai
quell’inutile ingombro, me li immagino incamminarsi per gli inesplorati
sentieri e per sempre verdi distese a coltivare la memoria, unica ancora che ci
tiene ben fermi e radicati a quello che è stato il nostro reale “vivere”
nel tempo. Ha scritto Giacomo Papi in una Sua memoria che ha per titolo “Noi stessi”, memoria pubblicata sul
supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” (marzo 2011), che di seguito
trascrivo in parte: “Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste in segreto davanti, senza
rivelarci mai che siamo già avvenuti. Camminiamo a ritroso dentro la storia.
Siamo gamberi della nostra stessa vita. Soltanto ciò che è avvenuto esiste
davvero e per sempre. Per questo cerchiamo di restare”. Dovrebbe essere
la paura di non lasciare nulla nel nostro dopo, al di là della paura della
nostra “morte biologica”, che dovrebbe spingere ciascuno a quella “religiosità”
della vita, ad una indispensabile, irrinunciabile “religiosità” della vita,
che non abbisogna di precettistica e di indottrinamenti particolari, “religiosità”
che viene oggigiorno disdegnata per godere pienamente dell’abbraccio suadente,
che tradisce, del momento fuggevole ed incerto che si è chiamati spensieratamente
a vivere. Ancora Giacomo Papi: Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste
in segreto davanti, senza mai rivelarci che siamo già avvenuti. (…). Gli
chiedo: - Dimmi una cosa passata di moda -. Risponde: - Me stesso -. (…). Ci
allontaniamo a piedi su strade costruite tanto tempo fa, sovrastati da case che
hanno ospitato le vite di centinaia di persone che non ci sono più e anche noi,
mentre parliamo, siamo fatti di passato. - Se penso a tutte le cose che sono
stato -, dice, - alunno di judo, di nuoto, delle medie, delle superiori, se
penso alle mode che mi hanno attraversato, ai pantaloni che ci facevano
indossare da bambini e a quelli che mi facevo indossare io da adolescente, so
che l'individuo più passato di moda sono io. Sono tutti. Andrò avanti così per
tutta la vita finché non potrò essere altro che niente. Non c'è verso di essere
contemporanei checché ne dicano gli stilisti -. Come istantanee, rivedo i baffi
all'ingiù di mio papà, gli ombretti di mia mamma, la nostra Ami 8 beige, Kabir
Bedi, lo zio Zeb della Conquista del West, Fonzie, Miguel Bosé, Lio, le Superga
d'inverno. Se non ci fosse memoria, si dice, non avremmo identità. Noi siamo i
nostri ricordi, solo che i nostri ricordi sono tutti fuori moda. - L'istante è
un germoglio dalle radici infinite che immagina l'albero che non diventerà mai
-, scrive Junichiro Kawasaki, il poeta giapponese. E poi conclude: - Il
presente è una scoreggia del passato che si disperde nel futuro -.
Gli aymara sono un piccolo popolo - un milione e mezzo di persone sparse sugli altipiani di Bolivia, Perù e Argentina - per cui il tempo scorre all'incontrario. Quando un aymara parla del passato indica di fronte a sé, per riferirsi al futuro, invece, fa cenno a quello che ha dietro la schiena. È l'unico caso al mondo di cognizione inversa del tempo. La loro logica è impeccabile: il passato è conosciuto e, quindi, si vede. Il futuro, invece, essendo incognito, ci coglie di sorpresa alle spalle. Siamo tutti aymara, senza saperlo. La nostra pretesa di essere nuovi è ottusa e ridicola. Un anziano signore che va pazzo per Charles Trenet ha sequestrato l'Italia da vent'anni. Altri anziani signori, pescando nei propri ricordi d'infanzia e gioventù, decidono ogni anno le mode del momento. Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste in segreto davanti, senza rivelarci mai che siamo già avvenuti. Camminiamo a ritroso dentro la storia. Siamo gamberi della nostra stessa vita. Soltanto ciò che è avvenuto esiste davvero e per sempre. Per questo cerchiamo di restare. Nei figli, nel lavoro, in quello che dipingiamo, scriviamo, recitiamo, cantiamo. Vogliamo diventare la memoria di qualcun altro, in modo da determinare almeno un po' l'identità anacronistica degli altri. È nel passato che si gioca la nostra unica possibilità di essere o non essere: questo è il problema.
Gli aymara sono un piccolo popolo - un milione e mezzo di persone sparse sugli altipiani di Bolivia, Perù e Argentina - per cui il tempo scorre all'incontrario. Quando un aymara parla del passato indica di fronte a sé, per riferirsi al futuro, invece, fa cenno a quello che ha dietro la schiena. È l'unico caso al mondo di cognizione inversa del tempo. La loro logica è impeccabile: il passato è conosciuto e, quindi, si vede. Il futuro, invece, essendo incognito, ci coglie di sorpresa alle spalle. Siamo tutti aymara, senza saperlo. La nostra pretesa di essere nuovi è ottusa e ridicola. Un anziano signore che va pazzo per Charles Trenet ha sequestrato l'Italia da vent'anni. Altri anziani signori, pescando nei propri ricordi d'infanzia e gioventù, decidono ogni anno le mode del momento. Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste in segreto davanti, senza rivelarci mai che siamo già avvenuti. Camminiamo a ritroso dentro la storia. Siamo gamberi della nostra stessa vita. Soltanto ciò che è avvenuto esiste davvero e per sempre. Per questo cerchiamo di restare. Nei figli, nel lavoro, in quello che dipingiamo, scriviamo, recitiamo, cantiamo. Vogliamo diventare la memoria di qualcun altro, in modo da determinare almeno un po' l'identità anacronistica degli altri. È nel passato che si gioca la nostra unica possibilità di essere o non essere: questo è il problema.
Carissimo Aldo, non vorrei essere ripetitiva, ma non posso fare a meno di considerare questo post molto prezioso e accattivante. Comprendo pienamente e condivido la preminenza che tu dai alla "salute dell'impronta psichica" che è strettamente legata alla "consapevolezza di vivere". Mi piace molto, e particolarmente in questa fase della mia vita, approfondire questo tema. È indispensabile una cultura della consapevolezza, aprire la mente a un nuovo concetto di benessere, riconsiderando cosa è realmente la qualità della vita. La consapevolezza nasce dall'osservare, dall'ascoltare ed ascoltarsi. Bisogna saper identificare i propri punti di forza e di debolezza, i propri bisogni, le proprie preferenze, stabilire quali situazioni ci procurano benessere e quali disagio. La calma, il silenzio, l'ascolto sono gli unici strumenti in grado di aiutarci a stabilire un vero contatto emotivo con noi stessi. Grazie per la condivisione di questo post e ancora buon lavoro. Agnese A.
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