Nella “globalità” della guerra decisa dal
capitalismo (poco manifatturiero, molto finanziario) i perdenti sono e saranno
sempre coloro i quali mal si attrezzeranno – per insipienza, per ignoranza - per
quella guerra. E questo disastrato paese vanta la casta politica ed una casta imprenditoriale
che rappresentano l’esempio massimo e più compiuto per insensatezza e
sprovvedutezza. Ha scritto il 29 di novembre ultimo Gad Lerner sul settimanale “il
Venerdì” del quotidiano la Repubblica col titolo “La società inoperosa e i suoi schiavi”: (…). Siamo (…) un Paese nel quale
da molti anni il numero di cittadini italiani che non lavorano (52,2 per cento)
ha superato il numero di cittadini italiani che lavorano (39,9 per cento). (…).
Tale società inoperosa garantisce però alla maggioranza dei suoi componenti un tenore e uno stile di vita - casa di proprietà, vacanze, automobile, device, svaghi del più vario genere - che un tempo potevano permettersi solo pochi privilegiati. Il che autorizza Ricolfi a definirci come «società signorile di massa». Saremmo dunque il Paese del Bengodi, contro ogni rappresentazione mediatica del malessere che va per la maggiore? Magari. Il guaio è che la nostra economia oscilla da un ventennio fra stagnazione e decrescita, il che significa che stiamo rapidamente consumando risparmi e patrimoni accumulati dalle generazioni precedenti. Non solo. Per godere dei servizi a cui ci siamo abituati - dalle pulizie domestiche alla cura di vecchi, bambini, cani e gatti, fino alle consegne a domicilio, alle coltivazioni agricole, al consumo di droghe, alle prestazioni sessuali a pagamento - ci avvaliamo di una «infrastruttura paraschiavistica» divenuta supporto indispensabile della «società signorile di massa». Ricolfi ha scritto un libro cattivo (“La società signorile di massa”, La Nave di Teseo editrice n.d.r.), acuminato, imbarazzante. Ma proprio per questo prezioso. (…). …centra il bersaglio quando descrive il tempo libero cresciuto a dismisura, riempito per lo più di attività di mero consumo senza arricchimento culturale, e per giunta effetto di una disuguaglianza nella distribuzione del lavoro (chi sgobba parecchio per due lire, e chi se la gode senza faticare) che non conosce uguali tra le altre società avanzate. Ora, cari lettori, non sentitevi in colpa, che è inutile. Ma sappiate che, prima che finiscano i soldi, dovremo darci una mossa; e per darci una mossa sarà meglio affidarci a politici meno rappresentativi della società inoperosa. Un triennio prima Massimo Giannini scriveva in “Lo straniero alle porte e l'inutile linea del Piave” - pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 16 di dicembre dell’anno 2016 -: (…). È vero che Mediaset non è un'azienda qualsiasi. "Qui è in gioco l'Azienda Italia", dice il presidente del Consiglio (all’epoca Gentiloni n.d.r.) , lasciando intendere che Palazzo Chigi potrebbe ingaggiare un'aspra resistenza contro i francesi. Il premier si sbaglia. Per due buone ragioni. La prima ragione è storico-politica: se quella fosse davvero la posta in palio, il suo monito sarebbe tardivo. L'Azienda Italia ce la siamo già giocata da un pezzo. La nostra Caporetto si consuma da anni, nell'incoscienza del pubblico e nell'insipienza del privato. Governi senza idee, abituati alle partite di scambio e ai negoziati corporativi, incapaci di concepire politiche industriali e di far crescere settori strategici. Capitalisti senza capitali, affezionati alla rendita e ai comodi servizi in concessione, incapaci di investire nell'innovazione di prodotto e di processo. Se ne sono andati così, nei decenni, i pezzi migliori. Se parliamo solo di Francia, è emigrata oltralpe la proprietà di Edison e Carrefour, Parmalat e Galbani, Bnl e Cariparma, per non parlare di Bulgari e Fendi, Pomellato e Loro Piana. Alla Borsa di Milano le partecipazioni degli investitori francesi pesano per 34,5 miliardi, il 7% del listino. Sono cadute una alla volta (compresa l'ultima, Pioneer, che Unicredit ha ceduto tre giorni fa ad Amundi, per 3,5 miliardi). Accompagnate da un rammarico parolaio che elude i veri problemi, mai risolti. La pessima gestione delle imprese e delle banche (che le rende fortunatamente contendibili) e l'atavica carenza di un solido Sistema-Paese (che le rende giustamente indifendibili). La seconda ragione è tecnico-giuridica. Di strumenti per difenderci non ce ne sono. E quelli che ci sono, nelle condizioni date, non è forse neanche giusto utilizzarli. La discesa in campo dell'Agcom non pare l'arma fine di mondo. Semmai un'arma di distrazione di massa. La scalata di Vivendi a Mediaset sarebbe preclusa dal fatto che le due partecipazioni di Bolloré (Telecom e Mediaset) già ora supererebbero i limiti di concentrazione previsti dal combinato disposto del "mercato prevalente delle telecomunicazioni" (40%) e del cosiddetto Sic, "Sistema integrato delle comunicazioni" (10%). Parliamo di tutto e di niente. La legge Gasparri introdusse il "Sic" proprio per ampliare all'infinito (e all'indefinito) la natura del business tv-tlc, per consentire allo stesso Berlusconi, allora premier, di tenersi ben stretto il suo impero mediatico. Una legge colabrodo, dunque. Fu scientemente e serenamente aggirata allora, quando in ballo c'erano gli interessi del Cavaliere. E potrebbe esserlo allo stesso modo oggi, quando in gioco ci sono quelli di un suo avversario. Si vedrà nei prossimi giorni. Ma quello che si vede già oggi è che il "cadornismo" non ci salverà. È troppo tardi. Quando avremmo dovuto resistere non lo abbiamo fatto. Nell'ultimo anno proprio le manovre occulte o palesi di Bolloré hanno rivelato in modo plastico le debolezze italiane. Due re sono nudi, di fronte all'offensiva transalpina. È nudo Berlusconi. Il vecchio sovrano, stanco e malato, ha lasciato che i figli sbagliassero tutto lo sbagliabile su Mediaset. Chiudendo con un bagno di sangue la vendita di Endemol. Evitando l'accordo con Murdoch, nel timore di finire divorati dallo Squalo. Cercando di condividere con il falso amico bretone il rosso di Mediaset Premium. Ora che Bolloré ha gettato la maschera, il paradosso è che proprio il Cavaliere, il thatcheriano alle vongole, chiede l'aiuto dello Stato. E si gioca la richiesta di protezione al tavolo della crisi di governo, perpetuando una volta di più l'immane e irrisolto conflitto di interessi che non lo ha mai abbandonato. Quanto può essere utile il "soccorso azzurro" a un Gentiloni che al Senato ha una maggioranza di un pugno di voti? Quanto può servire il sostegno forzista, a un Pd che in Parlamento deve trovare un alleato per riscrivere la legge elettorale? Ma è nudo anche Renzi. Il "Royal Baby", sconfitto ma non domo, che in estate ha fatto cacciare l'amministratore delegato di Mps ma in inverno non ha battuto ciglio di fronte a Bolloré nell'altra, decisiva scalata a Telecom (quella sì, "inappropriata", per usare la formula di Calenda). Avrebbe potuto, perché la "golden power", introdotta per legge nel 2012, permette allo Stato di intervenire (anche nei casi in cui non sia azionista) su acquisti in corso di aziende che possiedono asset di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Su Vivendi (francese e dunque comunitaria) lo Stato non potrebbe vietare in assoluto l'acquisto di partecipazioni. Ma avrebbe potuto stabilire condizioni prescrittive sui medesimi acquisti, e in ogni caso impugnare delibere degli organi societari. Avrebbe potuto esercitare una "moral suasion", anche politica, perché nel caso Telecom la partita riguarda le infrastrutture di rete (e non solo i "contenuti tv", come nel caso di Mediaset). Renzi avrebbe potuto. Ma non l'ha fatto. Magari è stato anche meglio così, visti i disastri infiniti compiuti dai sedicenti "poteri forti" intorno alla telefonia italiana, dalla privatizzazione della Stet in poi. Ma il risultato è che anche Telecom è andata, nel borbottio sterile e colpevole dell'establishment. Siamo terra di conquista, e la colpa è solo nostra. Cadranno altri bastioni. L'assedio francese, che parte da Telecom e incrocia Mediaset, potrebbe arrivare fino a Mediobanca, e per questa via (con lo sbarco di SocGen) alle Generali. La "magnifica preda", come la chiamava Enrico Cuccia. La guerra è globale, e noi la combattiamo a mani nude. Anche per questo, oggi, non avrebbe alcun senso "morire per Arcore". Sarebbe un'inutile linea del Piave.
Tale società inoperosa garantisce però alla maggioranza dei suoi componenti un tenore e uno stile di vita - casa di proprietà, vacanze, automobile, device, svaghi del più vario genere - che un tempo potevano permettersi solo pochi privilegiati. Il che autorizza Ricolfi a definirci come «società signorile di massa». Saremmo dunque il Paese del Bengodi, contro ogni rappresentazione mediatica del malessere che va per la maggiore? Magari. Il guaio è che la nostra economia oscilla da un ventennio fra stagnazione e decrescita, il che significa che stiamo rapidamente consumando risparmi e patrimoni accumulati dalle generazioni precedenti. Non solo. Per godere dei servizi a cui ci siamo abituati - dalle pulizie domestiche alla cura di vecchi, bambini, cani e gatti, fino alle consegne a domicilio, alle coltivazioni agricole, al consumo di droghe, alle prestazioni sessuali a pagamento - ci avvaliamo di una «infrastruttura paraschiavistica» divenuta supporto indispensabile della «società signorile di massa». Ricolfi ha scritto un libro cattivo (“La società signorile di massa”, La Nave di Teseo editrice n.d.r.), acuminato, imbarazzante. Ma proprio per questo prezioso. (…). …centra il bersaglio quando descrive il tempo libero cresciuto a dismisura, riempito per lo più di attività di mero consumo senza arricchimento culturale, e per giunta effetto di una disuguaglianza nella distribuzione del lavoro (chi sgobba parecchio per due lire, e chi se la gode senza faticare) che non conosce uguali tra le altre società avanzate. Ora, cari lettori, non sentitevi in colpa, che è inutile. Ma sappiate che, prima che finiscano i soldi, dovremo darci una mossa; e per darci una mossa sarà meglio affidarci a politici meno rappresentativi della società inoperosa. Un triennio prima Massimo Giannini scriveva in “Lo straniero alle porte e l'inutile linea del Piave” - pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 16 di dicembre dell’anno 2016 -: (…). È vero che Mediaset non è un'azienda qualsiasi. "Qui è in gioco l'Azienda Italia", dice il presidente del Consiglio (all’epoca Gentiloni n.d.r.) , lasciando intendere che Palazzo Chigi potrebbe ingaggiare un'aspra resistenza contro i francesi. Il premier si sbaglia. Per due buone ragioni. La prima ragione è storico-politica: se quella fosse davvero la posta in palio, il suo monito sarebbe tardivo. L'Azienda Italia ce la siamo già giocata da un pezzo. La nostra Caporetto si consuma da anni, nell'incoscienza del pubblico e nell'insipienza del privato. Governi senza idee, abituati alle partite di scambio e ai negoziati corporativi, incapaci di concepire politiche industriali e di far crescere settori strategici. Capitalisti senza capitali, affezionati alla rendita e ai comodi servizi in concessione, incapaci di investire nell'innovazione di prodotto e di processo. Se ne sono andati così, nei decenni, i pezzi migliori. Se parliamo solo di Francia, è emigrata oltralpe la proprietà di Edison e Carrefour, Parmalat e Galbani, Bnl e Cariparma, per non parlare di Bulgari e Fendi, Pomellato e Loro Piana. Alla Borsa di Milano le partecipazioni degli investitori francesi pesano per 34,5 miliardi, il 7% del listino. Sono cadute una alla volta (compresa l'ultima, Pioneer, che Unicredit ha ceduto tre giorni fa ad Amundi, per 3,5 miliardi). Accompagnate da un rammarico parolaio che elude i veri problemi, mai risolti. La pessima gestione delle imprese e delle banche (che le rende fortunatamente contendibili) e l'atavica carenza di un solido Sistema-Paese (che le rende giustamente indifendibili). La seconda ragione è tecnico-giuridica. Di strumenti per difenderci non ce ne sono. E quelli che ci sono, nelle condizioni date, non è forse neanche giusto utilizzarli. La discesa in campo dell'Agcom non pare l'arma fine di mondo. Semmai un'arma di distrazione di massa. La scalata di Vivendi a Mediaset sarebbe preclusa dal fatto che le due partecipazioni di Bolloré (Telecom e Mediaset) già ora supererebbero i limiti di concentrazione previsti dal combinato disposto del "mercato prevalente delle telecomunicazioni" (40%) e del cosiddetto Sic, "Sistema integrato delle comunicazioni" (10%). Parliamo di tutto e di niente. La legge Gasparri introdusse il "Sic" proprio per ampliare all'infinito (e all'indefinito) la natura del business tv-tlc, per consentire allo stesso Berlusconi, allora premier, di tenersi ben stretto il suo impero mediatico. Una legge colabrodo, dunque. Fu scientemente e serenamente aggirata allora, quando in ballo c'erano gli interessi del Cavaliere. E potrebbe esserlo allo stesso modo oggi, quando in gioco ci sono quelli di un suo avversario. Si vedrà nei prossimi giorni. Ma quello che si vede già oggi è che il "cadornismo" non ci salverà. È troppo tardi. Quando avremmo dovuto resistere non lo abbiamo fatto. Nell'ultimo anno proprio le manovre occulte o palesi di Bolloré hanno rivelato in modo plastico le debolezze italiane. Due re sono nudi, di fronte all'offensiva transalpina. È nudo Berlusconi. Il vecchio sovrano, stanco e malato, ha lasciato che i figli sbagliassero tutto lo sbagliabile su Mediaset. Chiudendo con un bagno di sangue la vendita di Endemol. Evitando l'accordo con Murdoch, nel timore di finire divorati dallo Squalo. Cercando di condividere con il falso amico bretone il rosso di Mediaset Premium. Ora che Bolloré ha gettato la maschera, il paradosso è che proprio il Cavaliere, il thatcheriano alle vongole, chiede l'aiuto dello Stato. E si gioca la richiesta di protezione al tavolo della crisi di governo, perpetuando una volta di più l'immane e irrisolto conflitto di interessi che non lo ha mai abbandonato. Quanto può essere utile il "soccorso azzurro" a un Gentiloni che al Senato ha una maggioranza di un pugno di voti? Quanto può servire il sostegno forzista, a un Pd che in Parlamento deve trovare un alleato per riscrivere la legge elettorale? Ma è nudo anche Renzi. Il "Royal Baby", sconfitto ma non domo, che in estate ha fatto cacciare l'amministratore delegato di Mps ma in inverno non ha battuto ciglio di fronte a Bolloré nell'altra, decisiva scalata a Telecom (quella sì, "inappropriata", per usare la formula di Calenda). Avrebbe potuto, perché la "golden power", introdotta per legge nel 2012, permette allo Stato di intervenire (anche nei casi in cui non sia azionista) su acquisti in corso di aziende che possiedono asset di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Su Vivendi (francese e dunque comunitaria) lo Stato non potrebbe vietare in assoluto l'acquisto di partecipazioni. Ma avrebbe potuto stabilire condizioni prescrittive sui medesimi acquisti, e in ogni caso impugnare delibere degli organi societari. Avrebbe potuto esercitare una "moral suasion", anche politica, perché nel caso Telecom la partita riguarda le infrastrutture di rete (e non solo i "contenuti tv", come nel caso di Mediaset). Renzi avrebbe potuto. Ma non l'ha fatto. Magari è stato anche meglio così, visti i disastri infiniti compiuti dai sedicenti "poteri forti" intorno alla telefonia italiana, dalla privatizzazione della Stet in poi. Ma il risultato è che anche Telecom è andata, nel borbottio sterile e colpevole dell'establishment. Siamo terra di conquista, e la colpa è solo nostra. Cadranno altri bastioni. L'assedio francese, che parte da Telecom e incrocia Mediaset, potrebbe arrivare fino a Mediobanca, e per questa via (con lo sbarco di SocGen) alle Generali. La "magnifica preda", come la chiamava Enrico Cuccia. La guerra è globale, e noi la combattiamo a mani nude. Anche per questo, oggi, non avrebbe alcun senso "morire per Arcore". Sarebbe un'inutile linea del Piave.
Nessun commento:
Posta un commento